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Coronavirus: non c’è “Fase 2” se non si potenzia l’assistenza domiciliare (di Lorenzo Zacchetti)

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Il medico Usca (Unità Speciali di Continuità Assistenziale) dell'Ats (Agenzia di Tutela della Salute) Irene Loda con il paziente Mario Biffarino nella sua abitazione di Folzano mentre lo visita per il Coronavirus, Brescia, 2 aprile 2020. (Credits: Ansa/Filippo Venezia)

"La guerra al COVID-19 andrà combattuta sul territorio, non in ospedale": il parere dei medici e l'analisi dei dati che compongono un quadro inquietante. La Lombardia, messa in ginocchio dall'epidemia, deve necessariamente cambiare passo

Coronavirus Italia: non c’è “Fase 2” se non si potenzia l’assistenza domiliare

Chiusi nelle nostre case, oggi a Milano proviamo la claustrofobica sensazione di chi si trova al centro di un cerchio che si stringe sempre di più. E, man mano che si avvicina, si porta via persone, abitudini, attività economiche e anche la confortante sensazione di vivere nella regione più moderna ed europea d’Italia. Un’immagine di efficienza e produttività in parte certamente meritata, soprattutto grazie al vero e proprio Rinascimento di Milano nell’ultimo decennio, e in parte probabilmente solo percepita. In particolare, la decantata “eccellenza lombarda” nel settore della sanità non sta certo reggendo all’impatto con la pandemia da Coronavirus.

Sicuramente, non con la stessa efficacia con la quale invece ha retto alla propria messa in discussione sia da parte di inchieste giudiziarie (che hanno riguardato singole responsabilità, senza travolgere il sistema), sia da precedenti prese di posizione sul piano politico e anche tecnico, da parte degli addetti ai lavori. Se oggi può essere facile puntare il dito sul modello lombardo, alle prese con la più grave emergenza sanitaria del secolo, non vanno certo dimenticati in archivio gli elementi di criticità portati alla luce in tempi non sospetti. Semmai, è il caso di aggiornarli alla drammatica situazione odierna e cercare di ricavarne suggerimenti operativi utili per raddrizzare il tiro e uscire dal tunnel.

In primo luogo può essere utile un passo indietro a prima che la pandemia si manifestasse sul nostro territorio. A cavallo tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020, è stata resa nota la classifica dei migliori sistemi sanitari regionali del nostro Paese. Una graduatoria basata su 33 indicatori, dai ricoveri agli screening, esaminati dal Comitato permanente per la verifica dell’erogazione dei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA). La Lombardia risultava solamente quinta (a pari merito con la Liguria), dietro al Piemonte (precipitato dal primo al quarto posto), all’Emilia Romagna, alla Toscana e al Veneto, primo per un’incollatura: la Regione presieduta da Luca Zaia ha totalizzato 222 punti su 225, solo uno più della Toscana e due più dell’Emilia Romagna.

Contemporaneamente, veniva pubblicato il “Meridiano Sanità Index”, uno studio elaborato da The European House-Ambrosetti per misurare le performance del Sistema Sanitario italiano, confrontandole con quelle di altri Paesi. Nel 2001, con la riforma del Titolo V della Costituzione, la competenza sanitaria è stata affidata alle Regioni, con l’obiettivo di allineare i servizi agli specifici bisogni locali. Questo però ha prodotto evidenti disparità, in primo luogo tra Nord e Centro-Sud, come appare evidente dalla valutazione basata su 40 parametri raggruppati in quattro aree:

1) Stato di salute della popolazione
2) Equità e capacità di risposta del sistema sanitario ai bisogni di salute
3) Efficienza e appropriatezza dell’offerta sanitaria
4) Qualità dell’offerta sanitaria e responsiveness del sistema.

In nessuna di queste quattro graduatorie la Lombardia ha primeggiato, pur mantenendosi molto sopra la media nazionale, un dato che risente dei bassi punteggi riscontrati al Sud. Nella valutazione complessiva, al primo posto figurava l’Emilia Romagna, con la Lombardia seconda e un pari merito tra Toscana e Trentino Alto Adige al terzo posto. A parte la differente valutazione sul Veneto (che The European House-Ambrosetti collocava solo al settimo posto), la comparazione dei due studi ci ha restituito coerentemente l’immagine di una Lombardia un po’ meno baldanzosa nel porsi come modello per il resto del Paese, quantomeno dal punto di vista sanitario.

Questo, però, accadeva prima dello tsunami-COVID. Lo scorso 27 marzo, alla fine delle prime tre settimane di lockdown, la prestigiosa Harvard Business Review ha pubblicato lo studio “Lessons from Italy’s Response to Coronavirus”, nel quale il sistema sanitario italiano è stato fortemente criticato nel suo complesso per la gestione dell’emergenza, ma con significative differenze regionali. In particolare, è stata messa in luce l’esorbitante differenza tra il numero di positività e di decessi riscontrati in Lombardia, in proporzione al numero di abitanti, rispetto a territori assimilabili per caratteristiche quali Veneto ed Emilia Romagna. Personalmente, ritengo che una valutazione più compiuta potrà essere fatta soltanto quando saranno chiarite le vere motivazioni epidemiologiche rispetto alla diffusione di un virus del quale ancora sappiamo troppo poco. Tuttavia riflettere sulle misure adottate non è solamente opportuno: probabilmente è anche l’unico modo per uscirne vivi.

Secondo l’analisi di Harvard, il Veneto ha reagito in maniera più efficace alla pandemia, attraverso una strategia composta da test eseguiti anche sugli asintomatici precoci, tracciamento dei potenziali positivi e auto-quarantena su base volontaria nei casi sospetti per i quali la mancanza di tamponi non ha permesso di sciogliere il dubbio. Inoltre, come in Emilia Romagna, si è puntato con decisione sulla diagnosi in loco e l’assistenza domiciliare, svolgendo la massima parte degli interventi di cura fuori dagli ospedali. “E’ necessario passare con urgenza da modelli di assistenza centrati sul paziente a un approccio basato sul sistema comunitario che offra soluzioni per l’intera popolazione (con un’enfasi specifica sull’assistenza domiciliare)”, si legge nel documento.

Seguendo le indicazioni delle autorità sanitarie del Governo centrale, la Lombardia invece ha optato per un approccio più conservativo sui test”, prosegue l’analisi. Meno tamponi, quindi, ma anche “meno investimenti in tracciabilità proattiva, assistenza domiciliare, monitoraggio e protezione degli operatori sanitari”. Operatori sanitari, oltretutto, spesso sprovvisti dei Dispositivi di Protezione Individuali necessari per arginare il contagio e non diventarne essi stessi veicolo.

L’eccessiva concentrazione sul sistema ospedaliero a discapito dei servizi territoriali è una delle questioni di vecchia data sollevate in Lombardia e che oggi, appunto, va ripresa in esame alla luce del drammatico impatto del Coronavirus. Non essendo in grado di fare previsioni sulla durata di questa crisi, in quella che sarà la “fase 2” bisognerà adottare strategie idonee per invertire la rotta e provare nel contempo a contenere il virus e far ripartire l’economia.

La direzione è quella tracciata dal piano del ministro della Salute Roberto Speranza: distanziamento sociale, mezzi di protezione per tutti, ospedali COVID su tutto il territorio nazionale, rafforzamento delle reti sanitarie locali, studio a campione per capire quanti sono i contagiati in Italia e un’app per verificare i contatti delle persone positive. Oltre alla Corea, ispiratrice dell’ultimo dei cinque punti, è evidente che si guardi come modello proprio a quanto fatto in Veneto ed Emilia Romagna.

Che sia questa la strada da percorrere lo suggerisce anche l’Instant Report COVID-19, una iniziativa di ALTEMS – Alta Scuola di Economia e Management dei Sistemi Sanitari dell’Università Cattolica. Il suo scopo è analizzare le diverse strategie adottate dalle Regioni per fronteggiare l’epidemia e da questo lavoro emerge l’evidente scarto tra due modelli: quello basato su “ricerca attiva e assistenza domiciliare” (Veneto) e quello più ospedaliero (Lombardia e in parte Lazio).

“Il ‘modello Veneto’ si caratterizza per un minore riscorso all’ospedalizzazione che riguarda il 20% dei positivi, nel caso del Veneto e il 40% nel caso dell’Emilia Romagna rispetto ad altre Regioni; e per una maggiore incidenza dell’uso delle terapie intensive per i pazienti una volta giunti in ospedale che distingue il comportamento del Veneto (24%) rispetto alle altre Regioni e quindi anche della stessa Emilia Romagna (solo il 10,8% dei ricoverati in ospedali sono stati trattati in terapia intensiva). E ancora, il rapporto tra pazienti trattati in terapia intensiva e a domicilio è la metà in Veneto ed Emilia Romagna rispetto a quanto accade nella Regione Lombardia e nella Regione Lazio”, spiega il documento.

Il modello ospedaliero “si caratterizza al contrario per i seguenti aspetti: una incidenza di tamponi effettuati sulla popolazione leggermente inferiore al gruppo precedente, in Regione Lombardia pari a 1.14% e in Regione Lazio pari a 0,59%; la crescita dei posti letto in terapia intensiva cresce meno del 50% (al 31/3 non erano ancora attivati i posti letto in Fiera) che passano da 9/100.000 abitanti a 12,58 (Lombardia) e da 9,44/100.000 a 11,99 nel Lazio con un tasso di saturazione che va oltre il 100% in Lombardia e che rimane basso nel Lazio (24%); un maggiore ricorso all’ospedalizzazione che riguarda in media il 50% dei positivi in Lombardia e Lazio; una minore incidenza dell’uso delle terapie intensive per i pazienti una volta giunti in ospedale, intorno al 10-13%. E ancora, il rapporto tra pazienti trattati in terapia intensiva e pazienti trattati a domicilio è doppio in Regione Lombardia e nella Regione Lazio rispetto a quanto accada in Veneto ed Emilia Romagna”.

La necessità di curare i pazienti a casa, liberando posti in ospedale, è chiara anche in Piemonte, dove la Città della Salute di Torino ha fatto ricorso alla telemedicina per seguire a domicilio i propri pazienti.

Indicata come necessaria sia dal presidente dell’Istituto Superiore di Sanità Silvio Brusaferro che dall’infettivologo dell’ospedale Sacco di Milano Massimo Galli, la scelta della territorialità ha visto anche l’adesione della Giunta regionale lombarda, che con la delibera dello scorso 23 marzo ha istituito le Usca (Unità speciale di continuità assistenziale) per approcciare l’assistenza domiciliare in relazione con i medici di base, ai quali è stato demandato il compito di monitorare i casi sospetti e fare ricorso alle neonate unità in caso di necessità.

Passare dalle parole ai fatti non è però semplicissimo, come si evince dalla reazione di Paola Pedrini, segretaria di Fimmg Lombardia (Federazione nazionale medici di medicina generale), che in una nota ha commentato: “Siamo a disposizione per discutere una urgente e complessiva riorganizzazione dell’assistenza domiciliare”, aggiungendo che “un aspetto che è ancora lontano dall’essere risolto è la fornitura degli adeguati Dispositivi di Protezione Individuale agli operatori sanitari, primi fra tutti i medici che opereranno nelle Usca che si occuperanno di pazienti COVID a domicilio, oltre ai medici di medicina generale, quelli di guardia medica e i pediatri di libera scelta. Riteniamo che tali professionisti debbano essere messi nelle condizioni di lavorare in sicurezza, per evitare di essere contagiati e, allo stesso tempo, veicoli di diffusione della malattia”.

Pochi giorni dopo, il suo giudizio sull’andamento dell’emergenza si è fatto ancora più duro: “E’ vero, le richieste dei pazienti ai medici di famiglia, almeno in Lombardia, sembra si stiano riducendo, ma siamo molto preoccupati che questa notizia tragga in inganno l’opinione pubblica. Sta passando un messaggio sbagliato, veicolato anche da alcuni dirigenti delle aziende sanitarie: diminuiscono gli accessi al Pronto Soccorso, quindi la gente ha paura di andarci o i medici di famiglia li mandano troppo tardi. Chi di noi sta lavorando in prima linea non si può permettere il lusso della chiacchiera: è assolutamente chiaro che la gente ci andrebbe al volo in ospedale quando sta male, ma i servizi di urgenza non ce la fanno a garantire tutti i ricoveri perché posti comunque non ce ne sono: i letti non si liberano”.

“Il ragionamento è un altro: prima si facevano i tamponi solo ai ricoverati, da qualche giorno si fanno ai ricoverati e agli operatori sanitari sintomatici, che sono quasi tutti ovviamente positivi anche se con pochi sintomi. Questo ha creato un dato di positivi non ricoverati sul territorio che prima non esisteva, numeri falsi perché riferiti ai soli operatori sanitari e non alla popolazione intera. A questi numeri possiamo eventualmente aggiungere qualche tampone di controllo ancora positivo fatto ai dimessi convalescenti. Ci chiediamo se chi gestisce i numeri è solo incompetente, se vive in un universo parallelo o se ci sta marciando. Non vorremmo che la confusione sui dati servisse a nascondere la responsabilità dei generali nella Caporetto della sanità pubblica italiana”.

La questione del numero dei tamponi eseguiti è da tempo al centro di aspri confronti. Farli “a tappeto” su tutta la popolazione è impossibile e oltretutto non escluderebbe la possibilità che un negativo poi venisse infettato in seguito. L’approccio corretto sul piano territoriale sarebbe eseguire i test sui sintomatici per formulare una diagnosi e poi estendere i controlli alla rete di contatti della persona, attuando una sorveglianza attiva sull’eventuale insorgenza dei sintomi.

Invece la diagnosi in molti casi non arriva, perché molte persone che hanno contattato il numero verde perché avevano dei sintomi si sono sentite rispondere di rivolgersi al medico di base, il cui intervento solitamente si limita a dare alcune indicazioni di tipo generico e a fare sorveglianza telefonica. La visita domiciliare diventa impossibile, dato che i medici sono sprovvisti dei Dispositivi di Protezione Individuale.

A complicare la loro vita c’è anche l’incertezza sui protocolli da adottare. Il Sindacato Medici Italiani ha scritto una lettera indirizzata al Presidente del Consiglio, al ministro della Salute, alla Protezione Civile Italiana e all’Agenzia Italiana del Farmaco chiedendo di “individuare procedure validate per il trattamento domiciliare di pazienti COVID positivi o sospetti tali”.

Risultati ancora non se ne vedono, tant’è che, come oggi scrivono su “Il Corriere della Sera” Sara Bettoni e Gianni Santucci, “dal Pirellone al momento non sono arrivati protocolli sui farmaci da usare per gestire i malati a casa”. In mancanza di indicazioni certe, i medici si arrangiano come possono: “Importiamo lo schema di intervento della Toscana. Il trattamento precoce è fondamentale per i pazienti”. “Prova questo antibiotico, sembra che sia più efficace”. “E voi, cosa prescrivete?”.

Alberto Aronica, medico di base a Milano, spiega: “Noi saremmo anche disponibili ad andare a casa dei pazienti, ma per farlo ci vogliono protezioni idonee, comprese le tute. Dalla Regione abbiamo ricevuto solamente mascherine chirurgiche e guanti, poi il Comune ci ha mandato delle mascherine FFP1, un po’ più protettive. Un nostro collega è stato contagiato e in questo modo si rischia di allargare ulteriormente l’epidemia. Inoltre bisogna considerare il problema dello smaltimento delle protezioni, che vanno trattate come materiale infetto. Le Usca sono formate generalmente da giovani medici della Guardia Medica, ma l’auscultazione del paziente con patologia polmonare non è semplice: serve esperienza, perché il quadro è complesso. Molti di noi sono un po’ perplessi sul punto”.

La difficoltà nel gestire efficacemente gli interventi domiciliari dipende anche dalla suddivisione dei compiti tra livelli istituzionali. La Regione si occupa degli aspetti sanitari, con le modalità di cui abbiamo detto, mentre ai singoli comuni sono affidati gli aspetti sociali, ovvero la consegna dei pasti, la pulizia degli ambienti e l’aiuto ai non autosufficienti nell’igiene personale. I due binari procedono in maniera parallela, senza interazione.

È bene specificare che le professionalità coinvolte dalle diverse attività sono specifiche e non sovrapponibili. L’aspetto sanitario compete a medici e infermieri qualificati, secondo protocolli riconosciuti: qui le indicazioni dell’Istituto Superiore di Sanità – ISS e quelle di Società Italiana di Medicina Generale e delle Cure Primarie – SIMG.

Quello più prettamente sociale vede in prima fila gli educatori professionali, figura che a seguito di un complesso iter normativo durato due decenni oggi rientra, seppure parzialmente, nell’alveo delle professioni sanitarie. Ciò può generare confusione, come ha ben spiegato l’associazione M.I.L.L.E – Professioni Educative: “Questo non fa di questi operatori degli esperti di igiene e profilassi, né delle figure paramediche. Gli interventi domiciliari dovrebbero avere caratteristiche prettamente infermieristiche o assistenziali. Immaginiamo coinvolti in questi interventi infermieri professionali ed Oss, dotati di appropriati Dispositivi di Protezione Individuale”, ha esposto in un intervento su “Vita”.

Ciò opportunamente chiarito, appare evidente come un fattivo dialogo tra i due livelli potrebbe invece risultare fondamentale sia dal punto di vista sinergico, laddove l’apporto dei volontari potrebbe essere condiviso, sia per la gestione di situazioni multi-problematiche legate al singolo individuo o alla famiglia: pensiamo ad esempio al caso di una persona malata che va trattata occupandosi anche delle ripercussioni che ci possono essere rispetto ai suoi familiari e, da non trascurare, i suoi animali domestici.

Un medico di uno dei principali ospedali di Milano, che preferisce rimanere anonimo, spiega: “Talvolta dimettiamo dei pazienti con situazioni sociali particolari, con l’indicazione che vadano a casa in isolamento. Ma questo regime è, per così dire, ‘fiduciario’, perché non abbiamo nessuna garanzia rispetto ai controlli. Le Usca? Non so dire se funzionino o meno, non abbiamo nessun contatto con loro”.

“Non siamo più in una fase di emergenza totale, perché la pressione su Pronto Soccorso e Rianimazione non è più come qualche giorno fa. Tuttavia, questo è in gran parte dovuto all’enorme sommerso di casi non rilevati, perché non si fanno abbastanza tamponi”.

Il numero di persone contagiate dal Coronavirus è largamente sottostimato, perché tra i casi non diagnosticati non ci sono “solo” asintomatici, comunque infettivi, ma anche dei casi con sintomi piuttosto gravi, tra cui diverse persone decedute. Alcune sono morte in ospedale, dove sono arrivate troppo tardi, altre a casa, perché magari l’età o le condizioni generali hanno addirittura reso inutile il trasporto d’urgenza.

La presenza di numerosi casi non diagnosticati può spiegare anche l’elevato numero di decessi, con percentuali molto superiori a quelle registrate in altre zone d’Europa. Decisamente meno probabile è che il virus si sia manifestato da noi con caratteristiche di maggiore aggressività.

“Se non si struttura rapidamente un efficace presidio territoriale, questi nodi verranno al pettine nelle settimane a venire e, con la fase 2, ci saranno certamente nuove ondate di contagi. Invece dovremmo intervenire sul territorio, per liberare gli ospedali in modo che possano occuparsi anche delle altre patologie”, conclude il medico contattato da TPI.

Il fatto che i due tipi di assistenza domiciliare, medico/infermieristica e sociale, siano affidati a soggetti convenzionati in un caso con il Comune e nell’altro con la Regione non favorisce l’interazione. Ancora meno utile è quando i diversi soggetti incaricati di tutelare la nostra salute dicono cose clamorosamente contrastanti tra loro. Da oggi in Lombardia è in vigore l’ordinanza che prescrive quanto segue: “Ogniqualvolta ci si rechi fuori dall’abitazione, vanno adottate tutte le misure precauzionali consentite e adeguate a proteggere sé stesso e gli altri dal contagio, utilizzando la mascherina o, in subordine, qualunque altro indumento a copertura di naso e bocca, contestualmente ad una puntuale disinfezione delle mani”.

Un’indicazione subito smentita dal capo della Protezione Civile, Angelo Borrelli, secondo il quale se si rispettano le distanze di sicurezza la mascherina non è necessaria. Il fatto che dopo un mese di questo incubo non vi sia ancora certezza sui Dispositivi è francamente inaccettabile. Intanto andrebbe chiarita la necessità di utilizzare i guanti, in quanto la disinfezione delle mani va benissimo, ma certamente non scherma dal contatto col virus, soprattutto una volta usciti di casa.

Che poi si metta per iscritto che va bene “qualunque altro indumento” lascia francamente senza parole, soprattutto se a farlo è chi aveva liquidato come “carta igienica” le mascherine inviate in Lombardia dalla Protezione Civile. Nei giorni scorsi, la Regione aveva giustamente fatto verificare quali prototipi di mascherine fossero idonei e quali invece no. È francamente incomprensibile che poi si dia il via libera a sciarpe e foulard.

A buon senso, abbiamo tutti capito da tempo che uscire di casa senza le mascherine è estremamente pericoloso. Tuttavia, a oggi mancano indicazioni chiare su quali tipi di mascherine si debbano usare, per quanto tempo, quante volte e a che prezzo si possa acquistarle, posto che se ne trovino da qualche parte. Pensare alla fase 2 senza prima aver sciolto questi nodi fondamentali è francamente impossibile.

“E’ chiaro che dovremo convivere con questo problema per un po’ e quindi dovremo attrezzarsi” – continua il Dott. Aronica – “La guerra al COVID andrà combattuta sul territorio, anche perché gli ospedali rischiano di diventare dei ricettacoli della malattia”.

Da questo punto di vista, la tecnologia rappresenta una speranza: “L’esplosione della pandemia ci ha spinto ad aggiornare una app che avevamo sviluppato con altri medici delle cooperative che si occupano dei pazienti cronici”, continua. “Grazie al lavoro di una software house, nel giro di un weekend abbiamo adattato il sistema alle problematiche del Coronavirus e questo ci consente di ricevere degli alert quando i parametri del paziente si avvicinano a livelli critici”.

“Al momento seguo 25 pazienti in questo modo e, se la situazione lo rende necessario, prendo contatto con la famiglia e o il 112 affinché l’interessato sia portato in ospedale. Il sistema consente anche di trasmettere all’Usca tutto il quadro clinico del paziente in questione, con le patologie collegate e le terapie in atto”. “Anche grazie a sistemi di questo tipo, dobbiamo puntare all’obiettivo di curare a casa la maggior parte dei pazienti, così che in ospedale sia necessario portarne in ospedale circa uno ogni 10. Più o meno la stessa percentuale del Veneto”, conclude.

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