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Di chi è il Medio Oriente? I limiti di Washington e il campo minato delle grandi potenze mondiali

Immagine di copertina
Il presidente Usa Joe Biden e il primo ministro di Israele Benjamin Netanyahu. Credit: AGF

All’alba del 7 ottobre 2024, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden era concentrato a guardare in diretta tv le immagini dei missili che da Gaza piovevano su Israele. Miliziani di Hamas, in una brutale e feroce azione, assalivano città e villaggi nel sud di Israele. Corpi mutilati e senza vita disseminati per strada, ostaggi sequestrati portati con forza dentro l’enclave palestinese, paura e terrore ovunque.

S&D

Era il preludio del più importante attacco terroristico da decenni a questa parte. E anche il via libera alla più lunga guerra in cui è rimasto coinvolto Israele dagli anni Ottanta a oggi.

Sei mesi più tardi, centottanta giorni dopo, la striscia di Gaza è un cumulo di macerie. L’esercito israeliano ha recentemente annunciato di aver ritirato delle truppe dal sud del territorio costiero senza tuttavia specificare il motivo. 

La percezione è che il conflitto non cesserà di qui a breve, visto che il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant, ha annunciato che sono state pianificate una serie di nuove missioni tra cui anche quella per il controllo di Rafah. Del resto i tentativi per arrivare a un cessate il fuoco, sinora, hanno prodotto solo esito negativo.

Con le elezioni Usa in programma a novembre 2024, molti negli Stati Uniti hanno iniziato a dubitare del ruolo di Biden nella gestione della guerra.

I repubblicani, da un lato, chiedono al presidente un maggiore sostegno verso Israele; i democratici, dall’altro, vogliono che cessi l’invio di armi a Israele, e difatti molti suoi interventi pubblici in vista del voto sono spesso interrotti da manifestanti pro-palestinesi.

Sin dall’inizio del conflitto Biden ha sostenuto fermamente il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. «Gli Usa sono al fianco di Israele», aveva detto subito dopo l’attentato di Hamas.

Al Pentagono e ai servizi di sicurezza americani era stato ordinato di «assicurarsi che Israele avesse ciò di cui aveva bisogno» nel difendersi da Hamas, anche se i jet made-in-Usa inviati a Israele bombardavano già Gaza da un pezzo.

Con molta probabilità, poco dopo il 7 ottobre, Biden e gli alti funzionari americani del dipartimento di Stato ritenevano che la guerra sarebbe durata poche settimane, al limite un paio di mesi, e che in ogni caso sarebbe cessata prima di Natale. Così non è stato.

Questa percezione “monca” del conflitto, così come del comportamento di chi come Israele ha prima subìto e poi innescato la peggior carneficina di sempre, ha fatto sì che le cose prendessero una piega molto diversa da quella che in molti pensavano plausibile.

Fatto ancor più grave se si pensa che chi ha sbagliato i calcoli è anche chi muove le pedine del grande gioco mediorientale.

Così, decine di migliaia di morti palestinesi dopo (di cui un terzo bambini), la guerra prosegue il suo tragico corso. Più che un conflitto: una tragedia pensata, calcolata e reiterata nella sua gravità. Una punizione collettiva del popolo palestinese.

Dovete immaginare che Gaza sia l’equivalente di un’area pari a poco meno di un terzo del cComune di Roma; una striscia di terra grande quasi quanto il cComune di Enna o, se preferite, quanto Las Vegas ma con una popolazione tre volte superiore.

Israele ha trasformato Gaza in una regione che non esiste più. I circa 2 milioni di abitanti sono sfollati, muoiono di fame, sono in gabbia senza poter scappare.

È il più grande campo di prigionia di fatto autorizzato dalla comunità internazionale i cui prigionieri sono intrappolati con il consenso di tutti.

Senza che nessuno abbia avuto la forza e il coraggio di dire una parola per fermare questa tragedia.

Che Hamas faccia schifo è chiaro a tutti, ma che tutti i civili di Gaza siano controllati e assimilabili ad Hamas significa avallare una punizione collettiva della peggior specie.

Il punto è unicamente riconducibile ai due pesi e due misure della comunità internazionale; alla sovranità territoriale; alla protezione umanitaria.

L’aggressione vile e ingiustificata di un gruppo terrorista ha innescato il più vergognoso e indecoroso spettacolo militare e guerrafondaio da parte di Israele.

Con l’intento di annullare un gruppo terrorista si è finito per punire un popolo intero.

E nessuno, proprio nessuno, è riuscito a fermare questo scempio. 

La naturalezza di Israele nel mettere in atto il proprio legittimo diritto a difendersi – presto tramutato in vendetta collettiva di un popolo e perpetrato per sei mesi consecutivi – ha reso vano qualsiasi reale tentativo di dialogo e di arrivare a un cessate il fuoco.

C’è a chi tutto ciò, ancora oggi, appare scontato quando invece rivela solamente il reale peso delle potenze mondiali e il limite del controllo che esse credono di esercitare nel mondo. Un cane che si morde la coda; il ben servito di chi, un tempo addomesticato, oggi addomestica il padrone.

Nonostante Biden abbia criticato Netanyahu, mai infatti è riuscito a fermarlo. Il premier israeliano ha trasformato la sua battaglia politica in una lotta per la salvezza personale: annullare Hamas in quanto Gaza e Gaza in quanto Hamas. Il governo stesso di Netanyahu in Israele ha i suoi problemi: molti non vogliono più che esista qualsiasi cosa chiamata Gaza, ma molti altri ancora incolpano Bibi per il fatto stesso che si sia potuto verificare l’attentato terroristico del 7 ottobre e lo accusano di aver abbandonato gli ostaggi. In tanti chiedono nuove elezioni.

Gli Usa sono stati il primo Paese al mondo a riconoscere l’indipendenza e la sovranità di Israele nel 1948.

Almeno fino ai primi anni del Ventunesimo secolo, quel rapporto speciale è sempre stato incentrato su ciò che Washington poteva ottenere da Israele nella regione mediorientale. Di fatto, controllava il Paese come fosse il suo braccio armato e operativo, nonché valido deterrente, nell’area.

E anche se fornivano armi e munizioni a Israele,  gli Usa avevano un peso e un’influenza tali da poter di fatto porre un veto sottile e invisibile nei confronti dello Stato ebraico.

L’evento forse più significativo avvenne nel 1957 quando il presidente Usa Dwight Eisenhower fermò l’occupazione del Sinai da parte delle forze armate israeliane.

Il conflitto di questi mesi, con le sue circostanze specifiche, dimostra i reali limiti del potere e dell’influenza americana su Israele.

Oggi il Medio Oriente è disseminato dei resti di quelle che furono le grandi potenze mondiali, ancora erroneamente convinte di poter esercitare il proprio potere e imporre le proprie decisioni su una regione che non è mai sino in fondo appartenuta davvero a nessuno.

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