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Home » Esteri

Houthi: i ribelli del Mar Rosso che combattono Israele

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Credit: AP Photo

Bersagliano le navi degli alleati di Tel Aviv per indurre Netanyahu a fermare l'invasione a Gaza. E hanno anche partecipato all’attacco dell’Iran contro lo Stato ebraico. Così, da piccolo gruppo armato, sono arrivati a ridisegnare il commercio internazionale

Quattro mesi di attacchi che hanno ridisegnato le rotte del commercio internazionale. Anche nel Mar Rosso, il 7 ottobre e l’offensiva israeliana su Gaza hanno segnato uno spartiacque. Da novembre, quando le milizie yemenite Houthi hanno iniziato a minacciare le navi legate a Israele, migliaia di imbarcazioni hanno rinunciato a percorrere la rotta che porta al Canale di Suez, una delle più trafficate al mondo.

Un nuovo scossone alle catene di fornitura globali dopo gli shock seguiti alla pandemia e alla guerra in Ucraina, che ha fatto lievitare i costi dei trasporti in tutto il globo e ha spinto i Paesi occidentali a intervenire ancora una volta in Medio Oriente.

Da novembre sono più di 40 gli attacchi lanciati dagli Houthi contro navi commerciali nel Mar Rosso e nel Golfo di Aden. Fino a metà marzo, secondo la Bbc, i missili e i droni del gruppo filo-iraniano hanno danneggiato 34 imbarcazioni. Attacchi che sono proseguiti a cadenza regolare nonostante l’intervento di due nuove coalizioni occidentali. Il blocco imposto dagli Houthi ha finito così per ridurre del 70 per cento il numero di navi transitate nel Mar Rosso meridionale rispetto ai livelli di inizio dicembre. Si tratta, secondo gli esperti, del dirottamento più significativo degli ultimi decenni.

Fede e solidarietà
Prima dell’inizio degli attacchi, circa il 15 per cento del commercio marittimo mondiale transitava per il Canale di Suez, snodo fondamentale negli scambi tra Asia e Europa. I raid, che hanno visto per la prima volta l’utilizzo di missili balistici anti-nave, hanno costretto molte compagnie di navigazione a deviare verso il Capo di Buona Speranza, circumnavigando l’Africa.

Una scelta che aumenta i tempi di navigazione di 10 giorni, con effetti a cascata su tutto il settore. Rispetto a un anno fa, secondo Drewry Shipping, il costo per spedire un container da Shanghai a Rotterdam è aumentato del 110 per cento. Ma le tariffe sono raddoppiate anche per spedire a New York (+98 per cento) e a Los Angeles (+101 per cento). Il cambio di tratta pesa anche sul piano delle emissioni di anidride carbonica (CO2). Secondo Sea-Intelligence, le emissioni derivanti dalla maggiore distanza percorsa sono aumentate del 31 per cento e del 66 per cento, per i viaggi dall’Asia verso, rispettivamente, il Nord Europa e il Mediterraneo.

Gli Houthi, che controllano la capitale e le aree più popolose dello Yemen, hanno dichiarato che gli attacchi continueranno fino a quando non cesseranno il blocco e l’offensiva di Israele nella Striscia di Gaza, in cui sono morti più di 30mila palestinesi. In caso di cessate il fuoco e via libera all’ingresso di aiuti umanitari nella Striscia il gruppo filo-iraniano ha annunciato che rivedrà la sua posizione. Finora è comunque riuscito a resistere ai tentativi occidentali di fermare i suoi attacchi. Una dimostrazione di forza che lo legittima agli occhi del mondo islamico, a nove anni dall’inizio della guerra contro la coalizione guidata dall’Arabia Saudita.

Un nuovo attore regionale
Tuttora quella nello Yemen rimane una tra le peggiori crisi umanitarie del mondo. Dal 2015, quando Riad e altre capitali arabe sono intervenute nella guerra civile tra gli Houthi e il governo internazionalmente riconosciuto, si stima che più di 370mila persone sono morte a causa dei combattimenti o per altre cause come fame o malattie, di cui 150mila direttamente a causa del conflitto. Oltre alle conseguenze umanitarie disastrose, l’intervento militare non è riuscito nell’intento di sconfiggere i ribelli filo-iraniani, che non hanno esitato a passare all’offensiva, lanciando attacchi missilistici e droni contro l’Arabia Saudita. A settembre 2019 il movimento yemenita ha colpito due importanti raffinerie, che hanno ridotto del 50 percento la produzione saudita. A marzo 2022 un altro attacco ha colpito un deposito di carburante a Gedda mentre era in corso il gran premio di Formula 1. Il mese successivo è entrata in vigore una tregua che ha portato a una riduzione delle violenze, scaduta però l’ottobre successivo. Più di un anno dopo, lo scorso dicembre, le parti si sono impegnate ad avviare un processo per un nuovo cessate il fuoco.

Come scritto dal think tank statunitense Brookings, le decisioni prese in questi mesi dagli Houthi possono segnare «un punto di inflessione» nei loro rapporti con la comunità internazionale. Ergendosi a difesa dei diritti dei palestinesi, hanno compattato il fronte interno e si sono proposti come attori di livello regionale. Secondo un sondaggio condotto dal Palestinian Center for Policy and Survey Research in Cisgiordania e Gaza a fine 2023, la risposta degli Houthi all’offensiva israeliana sulla Striscia è stata giudicata la migliore da parte delle forze mediorientali. Gli Houthi hanno anche garantito alle forze che fanno riferimento all’Iran la possibilità di influire sugli accessi a tre dei passaggi considerati vitali per il commercio internazionale: oltre allo Stretto di Hormuz, su cui si affaccia l’Iran, lo Stretto di Bab el-Mandeb, che dà l’accesso al Mar Rosso, e indirettamente il Canale di Suez. Ma l’escalation con gli Stati Uniti e gli altri Paesi occidentali potrebbe finire per destabilizzare ulteriormente un Paese che rimane diviso tra una fazione legata all’Iran al nord, una al sud che fa riferimento agli Emirati Arabi Uniti e un’ultima, quella governativa, fedele all’Arabia Saudita.

Nove anni di conflitto
A fine marzo il conflitto è entrato nel suo decimo anno. L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha dichiarato che oltre la metà della popolazione ha un disperato bisogno di aiuti. Si stima che circa 17,8 milioni di persone richiedano assistenza sanitaria, il 50 per cento dei quali sono bambini, ha affermato l’organizzazione in una nota. Secondo il Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo (Undp), quattro yemeniti su cinque vivono nella povertà. Metà della popolazione yemenita, oltre 18 milioni di persone, ha urgentemente bisogno di assistenza umanitaria per sopravvivere. A dicembre il Programma alimentare mondiale (Wfp), che secondo l’ong Acaps fornisce l’80 per cento dell’assistenza alimentare nel Paese, ha sospeso gli aiuti alle regioni settentrionali a causa dei finanziamenti limitati e di una disputa con le autorità locali su come distribuire il cibo. «È quasi come se i conflitti in corso fossero diventati una parte accettata della realtà quotidiana della vita nella regione. È importante fare un passo indietro e ricordare che i bambini affamati, le epidemie, la chiusura degli ospedali… tutto questo non deve essere normalizzato», ha dichiarato la dottoressa Hanan Balkhy, direttrice regionale dell’Oms per il Mediterraneo orientale.

L’11 gennaio sono ripresi i bombardamenti sullo Yemen. A poco meno di un mese dall’annuncio dell’operazione Prosperity Guardian, gli Stati Uniti e il Regno Unito hanno colpito obiettivi Houthi in territorio yemenita, causando 5 morti e 6 feriti. Da allora hanno lanciato a più riprese raid aerei in Yemen, mentre le navi schierate per Prosperity Guardian hanno tentato di garantire la libera circolazione nel Mar Rosso. Secondo il dipartimento di Difesa statunitense, quasi 4.700 navi cargo sono transitate nel Mar Rosso da dicembre a fine febbraio, circa il 90 per cento delle quali ha usufruito della protezione della coalizione guidata dagli Stati Uniti (a cui partecipano Paesi come Canada, Paesi Bassi, Norvegia e Bahrein).

A questa si è aggiunta la missione europea lanciata il 19 febbraio, quando diversi Paesi dell’Unione europea hanno dato il via alla missione Aspides (dal greco “scudi”). Oltre alla Grecia, che ha il comando della missione, e all’Italia, che ha il “comando tattico”, hanno dato la propria adesione Belgio, Danimarca, Francia e Germania. L’Alto rappresentante dell’Unione per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell, ha definito la decisione «una reazione rapida e decisa agli attacchi degli Houthi». La missione europea ha un mandato difensivo e non prevede la partecipazione ad attacchi contro Houthi, limitandosi al pattugliamento, alla sorveglianza e all’intercettazione. In un documento preparato da Francia, Germania e Italia e trapelato sulla stampa erano stati delineati due obiettivi strategici della missione, ossia quello di generare «fiducia con gli Stati arabi della regione» senza «entrare mai in conflitto con l’Iran». Finora le coalizioni, e i raid, non sono bastate a fermare gli attacchi contro le navi legate a Israele e ad altri Paesi.

Rischi di escalation
Il 2 marzo è stata la prima volta in cui è affondata una nave colpita dalle milizie sciite. La Rubymar, di proprietà britannica, era stata colpita due settimane prima da due missili balistici anti-nave. Poi era stata abbandonata al largo dello Yemen dopo il salvataggio di tutti e 24 i membri dell’equipaggio. Quattro giorni dopo, il 6 marzo, sono state registrate le prime vittime degli attacchi Houthi: tre membri dell’equipaggio della nave mercantile True Confidence, morti in un attacco missilistico. Si sarebbe trattato di una nave «americana» secondo il portavoce militare Houthi Yahya Sarea, smentito però dai proprietari. Fino a una decina di giorni prima dell’attacco, la nave risultava ancora legata a una società finanziaria statunitense, che però aveva cessato di avere rapporti con l’imbarcazione battente bandiera delle Barbados. Al momento dell’attacco, le informazioni non sarebbero state aggiornate in tutti i database, traendo forse in inganno gli Houthi. Un errore simile a quello in cui potrebbero essere cadute nel caso della Huang Pu, una nave di proprietà cinese. 

Le forze armate statunitensi hanno dichiarato che la petroliera è stata colpita dagli Houthi, pochi giorni dopo la firma di un accordo tra il gruppo sciita e i governi di Russia e Cina. Un’intesa che garantisce il passaggio alle navi dei due Paesi, senza rischio di essere attaccate. In cambio, secondo quanto riporta Bloomberg, i due Paesi potrebbero aver garantito al movimento «sostegno politico». Già a gennaio Mosca e Pechino si sono astenuti sulla risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che ha condannato gli attacchi nel Mar Rosso. Nello stesso mese una delegazione del gruppo yemenita aveva incontrato a Mosca il vice ministro degli Esteri russo, con cui ha parlato del conflitto in corso nella Striscia di Gaza. Secondo diversi analisti occidentali, il caso della Huang Pu solleva comunque interrogativi sulle reali garanzie che gli Houthi possono offrire in un contesto di tensioni crescenti.

Un problema difficile
Per i militari dei Paesi occidentali, non è chiaro quando sarà possibile riportare la situazione alla normalità. «È un problema difficile su cui non abbiamo molte certezze», ha dichiarato il contrammiraglio Marc Miguez, comandante del gruppo da battaglia della portaerei statunitense Eisenhower. Uno dei motivi è che, a differenza dell’attenzione rivolta ad altri avversari come Russia e Iran, gli Stati Uniti non avevano seguito da vicino gli Houthi. Per questo, ha ammesso Miguez alla Cnn, non è ancora noto quanti missili le milizie yemenite abbiano accumulato o quanti ne abbiano nascosti.

A bordo delle navi, i tempi per reagire agli attacchi sono molto serrati. A volte il preavviso per rispondere ai missili è di appena 30 secondi. Alla domanda su come l’equipaggio stia facendo i conti con la tensione, uno dei membri ha ironizzato con il New York Times parlando di un «legame traumatico» con gli altri marinai. L’intensità dei lanci di missili e droni da parte degli Houthi ha impedito alla portaerei di tornare in porto per ben cinque mesi.

Secondo Miguez, l’intervento finora è riuscito a provocare un rallentamento degli attacchi degli Houthi, che adesso ricorrono maggiormente ai droni. Ma la situazione rimane ancora troppo pericolosa per molte compagnie di navigazione, che continuano a evitare l’area. Rimane inoltre il mistero sulle munizioni a disposizione degli Houthi. Il loro numero è «una specie di buco nero per l’intelligence statunitense», ha affermato il contrammiraglio.

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