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Home » Esteri

La nuova mappa delle alleanze in Medio Oriente

Immagine di copertina
Credit: AGF e AP

L’Occidente e le monarchie del Golfo dalla parte di Israele. La Russia, con Cina e Turchia, al fianco dell’Iran. Il nuovo scontro diretto fra Teheran e lo Stato ebraico fa emergere il mutato assetto del Medio Oriente. Fondato sui rispettivi interessi commerciali

Cosa si nasconde nella lunga notte del Medio Oriente, quella illuminata da droni, missili e bombe? Cosa c’è davvero dietro l’attacco del 13 aprile, l’operazione militare meno segreta della storia, e dietro la tiepida risposta israeliana? Che obiettivi voleva raggiungere la Repubblica islamica dell’Iran? E che danni ha ricevuto Israele? O quali vantaggi?

La verità è una strana bestia. Tutti la cercano, molti credono di averla trovata, ma lei si nasconde nei meandri della storia e ha tante facce. Moltissime ne ha nello strano caso di quella strana notte, quando 170 droni, 30 missili da crociera e 120 missili balistici sono decollati dai confini persiani alla volta della Terra Santa. Strano, perché un attacco militare ha, nella sua ragione costitutiva intrinseca, la segretezza.

Al contrario, invece, questo è stato annunciato per telefono, fax, mail, tv e social tre giorni prima. Strano, perché è stato concepito come un’azione programmaticamente dimostrativa, come la lettera di Giacomino, scritta più per essere scritta che per essere letta. E infatti ha provocato danni limitati, circoscritti e irrilevanti. Con esatte specularità, Israele ha risposto con un fuoco appena più che fatuo e un attacco egualmente simbolico e inefficace.

Ma strano soprattutto perché, per la prima volta nella storia, l’Iran ha attaccato direttamente Israele, dopo decenni di contrapposizioni per procura e di guerriglie in rappresentanza, fatte da Hezbollah, Hamas, Houthi. Tutti, come è noto, ampiamente foraggiati da Teheran di armi e di denari.

Prima di conoscere la rappresaglia della rappresaglia della rappresaglia della rappresaglia, tracciamo una linea di frazione e vediamo cosa, invece, è già successo.

Gli ayatollah
Khamenei & co. hanno dato una risposta, prima che ad Israele, al proprio popolo e alle fazioni più estremiste. Non bisogna dimenticare che, da quando Khomeini spodestò lo Scià nel 1979, il programma di politica estera iraniano ha come suo cardine la distruzione definitiva dello Stato ebraico.

Debbono essere cancellati dalla faccia della terra. Sebbene la teocrazia iraniana sia intimamente gerarchizzata e la guida suprema metta il proprio becco su ogni cosa, era necessario mostrare ai più intransigenti che l’attacco al consolato iraniano di Damasco del primo di aprile non poteva rimanere privo di una contromisura.

Una risposta tanto scenografica quanto inefficace è stata perfettamente orchestrata. Prova ne sia il corredo che ha preceduto l’attacco: il riferimento al diritto internazionale, la calendarizzazione pubblica dei lanci e i toni moderati che lo hanno accompagnato. Per non parlare, poi, della minaccia di misteriose armi segrete.

Quindi era necessario mostrare, a vecchi e nuovi alleati, che l’Iran è l’alfiere del contromondo. Non solo la Repubblica islamica è in prima fila nella realizzazione di nuovi armamenti, ma oramai è l’avanguardia della produzione dei droni militari, ampiamente usati anche nella guerra russo-ucraina.

Il secondo risultato raggiunto è proprio quello della prova delle armi sul campo. La notte delle comete è valsa più di mille collaudi e di mille esercitazioni. Anche se molti missili sono stati intercettati dai sistemi di difesa dell’Israel Defence Forces o dai caccia occidentali, ben nove siluri aerei hanno violato lo spazio aereo israeliano, hanno raggiunto degli obiettivi militari e creato dei danni, seppur limitati, a Israele.

Gli iraniani sanno, ora, molte cose di più su Iron Dome e conoscono molto meglio il funzionamento e i punti deboli degli Arrow, i potenti razzi terra-aria antimissilistici. Ordigni ad alta accelerazione capaci di fermare gli attacchi aerei già nella stratosfera.

Netanyahu
Ma dove si fermano i risultati positivi per gli Ayatollah, cominciano quelli per Benjamin Netanyahu, il primo ministro d’Israele che, nel breve volgere di qualche ora, è passato dall’essere considerato un criminale di guerra a incarnare l’eroe che ha difeso il suo popolo.

Bibi era oramai un politico isolato, a causa della progressiva presa di distanza dell’opinione pubblica occidentale dal massacro di Gaza. Ora, a leggere anche solo il Wall Street Journal, sembra Churchill. Il G7, a presidenza italiana, ha preso posizione in maniera fortissima: «Condanniamo inequivocabilmente e nei termini più forti l’attacco diretto e senza precedenti dell’Iran contro Israele. (…) Esprimiamo la nostra piena solidarietà e sostegno a Israele e al suo popolo e riaffermiamo il nostro impegno per la sua sicurezza», hanno detto i leader di Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Germania, Italia, Canada e Giappone.

Gaza e i palestinesi sono stati relegati al campo della retorica e Netanyahu, come si usa da quelle parti, è risorto in tre giorni. Il sanguinario protagonista del massacro sistematico dei palestinesi della Striscia è tornato a essere il democratico presidente di uno Stato amico sotto attacco di un nemico comune. Un bel capolavoro di fregolismo.

Le azioni del primo ministro israeliano sono risalite anche sul fronte interno, non così disposto a dargli molto credito prima dell’attacco persiano e della controffensiva israeliana. E ai suoi concittadini, Netanyahu, ha mostrato efficacemente cosa sa fare: nel pomeriggio del 14 aprile, gli israeliani affollavano i bar e le spiagge di Tel Aviv e ovunque hanno ripreso la loro vita, mostrando di aver interiorizzato il messaggio di forza che è venuto dall’aver respinto un attacco così spettacolare. Business as usual, a difenderci c’è Bibi.

Amicizie inedite
Ma bisogna guardare ancora più in fondo, perché il più importante effetto della improvvisa accelerazione del conflitto è quello di una scomposizione e ricomposizione del quadro geopolitico mondiale.

Nella notte dei droni e dei missili, a difendere Israele, senza neppure pensarci un attimo, hanno acceso i motori i caccia dell’aviazione degli Stati Uniti, gli eurofighter della Royal Air Force britannica e i mirage parigini. Hanno abbattuto droni e missili con la diretta collaborazione logistica e informativa del Regno hascemita di Giordania e, udite udite, dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti. Gli stessi protagonisti che hanno accettato con disinvolto silenzio i missili israeliani su Isfahan. Un sol colpo e, improvvisamente, cambia la mappa delle alleanze del vicino e del Medio Oriente.

Quegli Accordi di Abramo del 2020, che la strage del 7 ottobre aveva cercato di fermare (e in parte c’era riuscita) riprendono corpo e attuazione, nei fatti più che nelle dichiarazioni. Fonti vicine alla famiglia reale Al Saud cominciano a prospettare l’instaurazione in tempi rapidi di relazioni diplomatiche stabili tra Arabia e Israele e, di fatto, gli Emirati Arabi Uniti e Bahrein seguiranno e raggiungeranno Egitto e Giordania nella lista dei Paesi arabi che hanno normalizzato i rapporti con Israele e cancellato l’idea (malsana) di eradicare lo Stato ebraico dal pianeta.

Contemporaneamente non si può non osservare che un altro Paese Nato, confinante con l’Iran, la Turchia di Erdogan, si è ben guardata dal prendere parte alle operazioni militari che hanno visto impegnati i suoi principali partner nell’Alleanza atlantica. Anche se le sue basi sarebbero state di grande utilità. Segno che la storica mappa del Medio Oriente cambia.

A Israele si affiancano, oltre agli alleati occidentali, le monarchie del Golfo: guardacaso quelle che controllano, dall’altro lato, lo stretto di Hormuz, il grande crocevia del petrolio, il luogo commercialmente più desiderato del pianeta. Dall’altra parte dello stretto c’è la Repubblica islamica dell’Iran. E i suoi nuovi (e vecchi) alleati: Cina, Russia, Turchia. Si svela così quale è il vero obiettivo del riposizionamento, non certo la povera sorte dei palestinesi.

Così, leggendo la carta geografica alla luce degli interessi economici, diventa più comprensibile il risiko delle guerre: il controllo militare delle rotte commerciali. Questa è la vera posta in gioco. Le carte si rimescolano e si prepara un nuovo sistema di alleanze per una nuova spartizione delle vie di scambi di merci e affari. Come i giardini pensili di Babilonia, anche gli equilibri di Yalta hanno fatto il loro tempo.

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