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ESCLUSIVO TPI: Una nota riservata dell’Iss rivela che il 2 marzo era stata chiesta la chiusura di Alzano Lombardo e Nembro. Cronaca di un’epidemia annunciata

Immagine di copertina
Illustrazione di Emanuele Fucecchi

Parte II dell’inchiesta di Francesca Nava dalla Bergamasca. Una nota riservata dell’Istituto Superiore di Sanità - che noi di TPI abbiamo potuto visionare - evidenziava, già lo scorso 2 marzo , “l’incidenza di contagi da Covid-19 nei comuni bergamaschi di Alzano Lombardo e Nembro, e anche in quello bresciano di Orzinuovi, raccomandandone l’isolamento immediato e la chiusura, con la creazione di una zona rossa come quella di Codogno”. Ciò tuttavia non è mai avvenuto. E tutt’oggi quell’area è il focolaio principale che ha fatto diventare Bergamo il lazzaretto d’Italia

 

 

 

 

 

 

 

ESCLUSIVO TPI, di Francesca Nava – Nel comune bergamasco di Nembro, in Val Seriana, le sirene delle ambulanze hanno smesso di suonare, per non infierire ulteriormente su una popolazione già provata da un bollettino di guerra quotidiano. Sia qui, sia ad Alzano Lombardo – i due comuni della provincia di Bergamo con la più alta incidenza di contagi da Covid19 – molte fabbriche hanno chiuso dopo il decreto ministeriale di sabato 21 marzo. Eppure, come ci raccontano alcuni sindacalisti della zona, diverse aziende si stanno preparando per ripartire già da lunedì. Altre, invece, non si sono proprio fermate, sfruttando la possibilità di andare in deroga al decreto nel caso in cui l’attività produttiva sia agganciata a quelle consentite.

Ed è così che, paradossalmente, ci troviamo oggi davanti a situazioni come quella descritta da un operaio in una lettera aperta al premier Conte: “Buongiorno presidente – scrive Fabrizio – sono un sardo residente nella bergamasca e dopo il decreto sulla chiusura totale, che in realtà non ha chiuso niente, mi sono sentito come un figlio che viene pugnalato alle spalle. Io lavoro nel settore della gomma plastica, ma non facciamo beni primari, bensì giocattolini”. Come la sua, scrive l’operaio, c’è un elenco infinito di ditte – accanto a quella in cui lavora lui – che non fanno beni primari, ma che restano aperte. E’ il nord produttivo che non vuole fermarsi, nonostante tutto. Nonostante questa strage.

Fabrizio si sente abbandonato e racconta nella lettera la sua atroce quotidianità: “Non sa che cosa vuol dire lavorare con la mascherina per otto ore. Con pensieri brutti, concentrazione bassa, guardando i colleghi con gli occhi lucidi. Non sa che cosa vuol dire paura. Di infettarsi. Di infettare. Tornare a casa dopo aver incrociato ancora tante ambulanze. Posti di blocco. Arrivare a casa e non abbracciare mia figlia di un anno e mezzo, che vuole le coccole che le davo sempre. Ora che siamo allo stremo e tutti gli ospedali sono al collasso, chiediamo solo di chiudere tutte le ditte, perché il contagio avviene anche in fabbrica. Aiutateci a esser più sereni a casa con i nostri cari. Chiuda tutto. A nome di tutta la bergamasca. Fabrizio, un umile cittadino”.

Ancora una volta le fabbriche. Ancora una volta la produttività. Ancora una volta il dilemma tra salute ed economia. E’ questo il grande nodo su cui si è incagliata la macchina dello Stato nella gestione di questa emergenza e su cui ancora di più oggi – che si sono strette le maglie – si gioca la grande partita dell’Italia contro il coronavirus. A partire anche da zone come quelle di Nembro e Alzano, con 25 mila abitanti, 370 aziende, quattromila lavoratori e 680 milioni di fatturato all’anno. Una settimana fa su TPI abbiamo raccontato la storia di questi due comuni e del focolaio lombardo partito dall’ospedale “Pesenti Fenaroli”, mai messo in sicurezza. Una storia nella quale appare sempre più evidente come il combinato disposto di una mancanza di protocolli chiari e i forti interessi economici abbiano fatto passare in secondo piano la tutela della salute pubblica.

Secondo quanto riportato recentemente dalla Fondazione Gimbe, organo indipendente di ricerca e informazione in ambito sanitario, “i numeri dimostrano che abbiamo pagato molto caro il prezzo dell’impreparazione organizzativa e gestionale all’emergenza: dall’assenza di raccomandazioni nazionali a protocolli locali assenti o improvvisati; dalle difficoltà di approvvigionamento dei dispositivi di protezione individuale (DPI), alla mancata esecuzione sistematica dei tamponi agli operatori sanitari; dalla mancata formazione dei professionisti in ambito medico, all’informazione alla popolazione”. Tutte queste attività, inclusa la predisposizione dei piani regionali, erano previste dal”Piano nazionale di preparazione e risposta ad una pandemia influenzale” predisposto dopo l’influenza aviaria del 2003 dal Ministero della Salute e aggiornato al 10 febbraio 2006.

“È inspiegabile – afferma il Presidente Gimbe, Nino Cartabellotta – che tale piano non sia stato ripreso e aggiornato dopo la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale, lo scorso 31 gennaio”. In fondo le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità sono sempre state chiare: trova il contagio, isolalo, testalo, traccia tutti i contatti. Modello Corea del Sud, dove il primo focolaio è stato localizzato il 2 febbraio ed è subito scattata la quarantena per tutto il paese, mettendo a disposizione una App per la tracciatura di tutti i cittadini. Risultato: dall’inizio del tracciamento in due settimane i contagi sono passati da 800 a 80 al giorno. Da noi, invece, si è andati avanti un po’ a tentoni, accumulando un errore dietro l’altro, come dimostra questa nuova testimonianza di un’assistente socio sanitaria, che si trovava dentro all’ospedale “Pesenti Fenaroli” di Alzano Lombardo la notte tra il 22 e il 23 febbraio e che ci è stata segnalata dal giornale online “Valseriana News”.

La donna stava seguendo un paziente di 80 anni ricoverato per un check up nel reparto di Medicina generale, in una stanza condivisa con un altro paziente di 60 anni affetto da una grave polmonite. “Il nostro vicino di letto aveva la febbre alta, non riusciva a respirare – racconta l’assistente sanitaria – e chiamava l’infermiera in continuazione, perché era evidente che stesse soffrendo molto, indossava il casco dell’ossigeno, che però continuava a cadere, era agitato, sudava e lo sentivo ripetere ‘non riuscite a capire che io sto morendo, sto morendo’. Queste parole mi sono rimaste impresse nel cervello. Gli infermieri, tra l’altro, avevano iniziato a indossare le mascherine con il filtro, quelle buone, mentre fino a qualche giorno prima li avevo visti solo con quelle chirurgiche e questo dettaglio mi aveva allarmato”.

Il giorno dopo, nell’ospedale di Alzano Lombardo, che dista appena cinque chilometri da Bergamo, vengono diagnosticati due casi di Covid19, uno di loro è transitato dal pronto soccorso e un altro nel reparto di Medicina generale. L’assistente sanitaria viene a sapere che il paziente in camera con il suo assistito è morto e che l’ospedale è stato chiuso e riaperto alcune ore dopo la notizia delle infezioni da coronavirus. Nessuno, però, la contatta, né la sottopone a tampone, così come non vengono contattate le altre sue colleghe, che avevano prestato servizio nella struttura ospedaliera infetta e che nei giorni a seguire si sono spostate liberamente per tutta la provincia di Bergamo. Il paziente che la donna aveva in cura muore una decina di giorni dopo.

Lei, invece, si ammala: febbre, raffreddore e tosse, e mentre la intervistiamo al telefono non riesce nemmeno a finire di parlare, a causa della forte tracheite che ancora la tormenta. “Ho cinque figli – dice – e nessuno in quell’ospedale ha pensato di proteggermi e di tutelarmi, ci ho pensato io a mandare i miei figli da un’altra parte per non contagiarli, perché sono sicura di aver contratto il coronavirus. Lo hanno preso tutti qui, se hai l’influenza è quasi sicuramente covid, ma ormai il tampone non lo fanno quasi più a nessuno”.

Questa storia fa il paio con decine di testimonianze che stanno emergendo in questi giorni, come quella di un uomo di Villa di Serio, che nell’arco di due settimane, a febbraio, ha perso entrambi i genitori transitati per motivi diversi dall’ospedale di Alzano Lombardo. I sintomi prima di morire erano sempre gli stessi, tutti riconducibili al coronavirus. Ma nessuno potrà mai dimostrarlo, perché sono morti senza che venisse fatto loro il tampone. Contagiati molto probabilmente dentro all’ospedale. Da altri pazienti o dagli stessi operatori sanitari. Un disastro insomma. Ce ne sono centinaia di storie così in questi comuni della bergamasca. Storie di abbandono, di disperazione, di rabbia e di solitudine.

Non a caso sono molte le famiglie che stanno pensando di riunirsi in un comitato per chiedere verità e giustizia per le vittime del coronavirus. L’avvocato bergamasco Roberto Trussardi è già stato contattato da alcuni parenti per avere un parere legale e non nasconde lo stupore: “Non si capisce perché la Procura della Repubblica non abbia ancora annunciato l’apertura di un’inchiesta per il reato di epidemia colposa contro ignoti, perché sarebbe utile sapere qual è il magistrato che se ne occupa, in modo tale che i parenti delle vittime e le parti lese possano inviare materiale e fornire una collaborazione per lo sviluppo successivo di un’indagine, che faccia luce su quanto accaduto dentro all’ospedale “Pesenti Fenaroli” di Alzano Lombardo. Il fatto che ancora non si sia mosso nulla mi sembra incomprensibile – aggiunge l’avvocato – così siamo in un vero e proprio limbo”.

Intanto le denunce a mezzo stampa non si fermano. E non ci fermiamo neanche noi. Nel tentativo di fare luce su questa vicenda abbiamo scoperto che l’indicazione tecnico-scientifica di “chiudere” Alzano Lombardo e Nembro era stata messa per iscritto all’inizio di marzo. Per capire meglio facciamo una premessa. Il Governo ha sempre affermato di agire sulla base delle migliori evidenze scientifiche, elaborate anche attraverso una attenta sorveglianza epidemiologica della propagazione del virus su tutto il territorio italiano. Il Comitato tecnico scientifico (Cts), che dal 3 febbraio consiglia il premier Conte sull’emergenza coronavirus, è formato da esperti e dirigenti del settore già inseriti nella pubblica amministrazione per la loro attività in campo sanitario, come ad esempio il direttore scientifico dell’Istituto Nazionale per le malattie infettive “Lazzaro Spallanzani”, il presidente dell’Istituto Superiore di Sanità, un rappresentante della commissione salute designato dal Presidente della Conferenza delle Regioni e Province autonome, oltre a scienziati di fama internazionale, come ad esempio Walter Ricciardi.

Le decisioni del Governo sono informate dal Comitato tecnico scientifico, ma le modalità con cui il Cts lavora, con cui informa il Governo e con cui il Governo prende le decisioni non sono chiare. La cosiddetta “evidence-based policy”, ovvero la politica basata sull’evidenza scientifica prende le decisioni basandosi sulla scienza, ma non solo. Se queste informazioni vengono date al Governo in via informale o vengono messe a verbale non è dato saperlo, quello che è certo è che se dei verbali esistono, non sono pubblici. Sono secretati.

Fatta questa premessa, quello che abbiamo potuto verificare è che in data 2 marzo – una settimana dopo aver diagnosticato i primi pazienti infetti da Covid19 all’ospedale di Alzano Lombardo e mentre la maggior parte dei sindaci della Lombardia, con in testa Giuseppe Sala, sindaco di Milano, e Giorgio Gori, sindaco di Bergamo, lanciavano gli slogan “Milano non si ferma” e “Bergamo non si ferma” – è stata messa per iscritto una nota tecnica dell’Istituto Superiore di Sanità, che evidenziava l’incidenza di contagi da Covid19 nei comuni bergamaschi di Alzano Lombardo e Nembro e in quello bresciano di Orzinuovi, raccomandandone l’isolamento immediato e la chiusura, con la creazione di una zona rossa, come quella di Codogno.

 

 

Per quanto riguarda i due comuni bergamaschi veniva sottolineato un ulteriore fattore di rischio, ovvero la pericolosa vicinanza a un grosso centro urbano, dal momento che Alzano Lombardo e Nembro distano solo una manciata di chilometri da Bergamo, divenuta oggi il lazzaretto d’Italia. Questa nota tecnica veniva successivamente dettagliata e arricchita di nuove informazioni in data 5 marzo. Purtroppo non ci è dato sapere, in qualità di cittadini e nemmeno di giornalisti, se questa nota sia mai stata messa a verbale e quindi firmata da tutti i membri del Comitato tecnico scientifico e sia mai arrivata sul tavolo di Conte.

Quello che sappiamo con certezza oggi è che una zona rossa tra Alzano Lombardo e Nembro non è mai stata decretata – nonostante le evidenze scientifiche, nonostante i contagi e i morti in aumento; sappiamo con certezza che qualcosa è andato storto all’ospedale “Pesenti-Fenaroli”, che la popolazione di quei comuni è stata disorientata e sollecitata da una comunicazione istituzionale a dir poco schizofrenica, che gran parte degli industriali della Val Seriana, alcuni dei quali con un intenso scambio con la Cina, hanno espresso contrarietà, anche a mezzo stampa, rispetto alla creazione di una zona rossa e che si è dovuto aspettare fino all’8 marzo per chiudere tutta la Lombardia e altre 14 province, mentre già da diversi giorni c’era un’indicazione tecnico-scientifica ben precisa che raccomandava l’isolamento di quei due comuni ormai infetti.

Se il Governo ha tentennato ci chiediamo se la regione Lombardia, invece, avrebbe potuto chiudere quella zona o se semplicemente non ha avuto il coraggio di farlo, visti gli interessi in campo. Chi lo sa. Quello che è certo è che la mancata creazione di una zona rossa tra Alzano Lombardo e Nembro è uno dei più gravi errori commessi nella gestione di questa epidemia. “La stragrande maggioranza dei contagi e dei morti che abbiamo oggi – afferma il presidente di Gimbe Nino Cartabellotta – sono il frutto delle azioni fatte e non fatte tra la fine di febbraio e il 10 di marzo. E’ evidente”.

Aggiornamento ore 20,30 – Nel corso della consueta conferenza stampa quotidiana della Protezione Civile, è stato confermato che la nota riservata dell’ISS era stata letta e valutata dal comitato scientifico. A questo link è possibile seguire il botta e risposta tra la giornalista di TPI Veronica Di Benedetto Montaccini e Agostino Miozzo nel corso della conferenza stampa.

 

Leggi anche: 1. Coronavirus, quando il lavoro uccide: la storia di Diego / 2. Le bare di Bergamo simbolo della tragedia che stiamo vivendo (di Luca Telese) / 3. A Bergamo hanno smesso di suonare persino le campane

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