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Primario di Bari a TPI: “La persone fuggite dal nord hanno contagiato la stragrande maggioranza dei ricoverati: non dovevano arrivare. Ora a casa, altrimenti la città è a rischio”

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La maggior parte dei positivi al Coronavirus ricoverati al Policlinico di Bari è stata infettata dalle persone fuggite dal nord mentre il governo annunciava la stretta sugli spostamenti. Sono 30mila quelle arrivate dalla Lombardia e dal Veneto in Puglia da inizio marzo a oggi. Noi di TPI ne abbiamo parlato con il primario del reparto di Malattie Infettive, Gioacchino Angarano

“Persone fuggite non dovevano arrivare”: parla il primario del Policlinico di Bari

Gioacchino Angarano è il primario del reparto di malattie infettive del Policlinico di Bari, dove nelle scorse settimane sono stati riscontrati come positivi al Coronavirus e ricoverati parenti e genitori delle persone fuggite da Lombardia e Veneto nei giorni in cui il governo annunciava la stretta sugli spostamenti, quando il virus aveva ormai contagiato migliaia di persone. Angarano ha confermato a TPI che l’esodo ha messo a rischio il territorio, soprattutto considerando che circa 10mila delle 30mila persone arrivate dal nord in Puglia non si sono manifestate, e che non vi è certezza che stiano rispettando la quarantena.

I casi rilevati in Puglia dall’inizio dell’epidemia sono 581, i decessi 28, ma negli ultimi giorni c’è stato un leggero aumento: 103 contagiati in più dal 19 al 20 marzo secondo la Protezione Civile. La responsabilità è di chi è fuggito?

Le strettoie di questa situazione sono due: la prima è che le persone non sarebbero dovute arrivare. Come ha detto anche il presidente della Regione, Michele Emiliano, sarebbe stato meglio che non fossero venute. Ormai non ci possiamo fare niente, quando son venuti c’era la libertà di movimento quindi va bene. La seconda è che già da allora c’era l’obbligo di segnalarsi, ma di 30mila persone, 20mila si sono registrate, 10mila no. E c’era anche l’obbligo di ridurre o interrompere i rapporti sociali: bisogna capire se l’hanno fatto. Il guaio adesso è che continuano ad arrivare 10mila persone alla settimana, specialmente nei fine settimana, la gente continua a partire nonostante la mobilità sia vietata. Spero che i comportamenti siano proporzionali al rischio. Mettono a rischio la città specialmente ora perché la probabilità che qualcuno che arriva da quella zona geografica abbia contratto l’infezione è ancora più alta.

Come avete appurato che ci fosse un link diretto tra i contagiati e le persone arrivate a partire dal primo fine settimana di marzo? 

Siamo partiti da quelli che abbiamo ricoverato e abbiamo ricostruito la storia clinica: è risultato evidente  che molti, la stragrande maggioranza avevano rapporti diretti con un luogo di lavoro o di studio nel nord o con figli, nipoti, conoscenti, familiari che erano rientrati dal nord, prevalentemente da Lombardia e Veneto. Adesso le cureremo, ma non devono trasmettere ad altri le infezioni: la cosa importante è che interrompano i contatti sociali e che stiano a casa, devono restare a casa.

Qual è adesso la situazione nel reparto di malattie infettive del Policlinico?

Ci stavamo preparando da un mese all’aumento del numero dei casi, e per il momento non ci sono gravi problemi, né per il mio reparto né per quelli di terapia intensiva. Se i ricoveri aumentano, si verificherà la stessa situazione che c’è adesso al nord.

Vi aspettate questo aumento? C’è chi teme un “ecatombe” anche al sud.

Ci aspettiamo un aumento aldilà di quello che succederà dal punto di vista dell’efficacia delle misure messe in atto, aldilà del blocco dei contatti. Secondo me arriverà un consistente numero di casi di infezioni che sono già avvenute prima dell’avvio delle restrizioni obbligatorie. La mia impressione tra i contagiati è che ci siano più giovani: la classe di età più rappresentata sono quelli nati intorno agli anni 60′.

Cosa pensa della tesi secondo cui condurre screening di massa e effettuare tamponi anche sugli asintomatici sia più efficace per controllare l’epidemia?

Questo screening agli sintomatici ogni quanto lo facciamo? Quando uno fa il tampone ha una fotografia, un’immagine di quello che c’è nel momento in cui lo sta effettuando, ma la situazione può essere diversa tre giorni dopo. Il tampone nasce per identificare le persone malate, andrebbe fatto prontamente a tutti i sintomatici. Bisognerebbe spiegare, e molti non l’hanno capito nonostante sia stato detto, che la cosa da fare è che appena ci sono sintomi bisogna ricorrere agli ospedali ai centri di riferimento e sottoporsi al tampone: chi ha qualsiasi sintomo, dalla tosse al raffreddore, si deve far valutare.

Cosa provate in ospedale guardando le immagini che arrivano da Bergamo, di un sistema sanitario al collasso? 

Abbiamo paura, la paura è quella come medici di dover essere nella condizioni di non trattare pazienti che avrebbero bisogno, chi è dentro è dentro e chi è fuori e fuori, e questa non è una cosa che un medico può fare. Tra l’altro stiamo rischiando anche la nostra pelle.

Ci sono abbastanza protezioni per gli operatori sanitari, oggi tra i principali contagiati dall’epidemia per mancanza di strumenti adeguati in ospedale?

Tutto è proporzionato al fatto che stiamo all’inizio, per ora siamo preparati. Quando saremo più avanti non so cosa succederà, forse ci aiuterà la Cina.

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