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Home » Politica

Mancata zona rossa, Conte: “Rifarei tutto”. Ma per i pm lui e Fontana diedero retta agli imprenditori

Immagine di copertina
Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte

Mancata zona rossa Alzano e Nembro, il premier Conte: “Rifarei tutto”

“Non ho paura di finire indagato, ho agito in scienza e coscienza. Mi sono subito messo doverosamente a disposizione dei magistrati per informarli sulle circostanze di cui sono a conoscenza”. Così parla il premier Giuseppe Conte in un’intervista a Repubblica, poche ore prima di presentarsi davanti ai pm di Bergamo come persona informata dei fatti sulla mancata zona rossa di Alzano lombardo e Nembro. “No – giura – non temo affatto di finire indagato”.

S&D

Il presidente lo aveva già affermato, ribadendo che la sua non è “arroganza o sicumera”, ma serenità nei confronti dello svolgersi dei fatti. Alla domanda “Potesse decidere oggi, farebbe zona rossa quei due comuni?”, Conte risponde di no, “rifarei tutto quello che ho fatto, perché come ho detto ho agito in scienza e coscienza”. Eppure, l’indagine che lo vede testimone, potrebbe trasformarlo — già durante il colloquio con i magistrati — in indagato. Il premier si dice sereno, ma in cuor suo sa che potrebbe entrare in Procura da testimone e uscire con in mano un avviso di garanzia per il reato di epidemia colposa.

La procura, per l’audizione del premier Conte di oggi, ha anche acquisita la nota formale inviata a TPI il giorno 7 aprile 2020 in esclusiva.

Come rivela Marcello Sorgi sulla Stampa, “I magistrati, se vogliono andare avanti nella loro inchiesta, hanno bisogno di spiccare un avviso di garanzia nei confronti di Conte, del governatore della regione Fontana e dell’assessore alla Sanità Gallera. Il bivio dei pm è questo: o riconoscono che in quel frangente il sistema, nel suo complesso, è andato in tilt, anche perché non aveva ancora tutti gli strumenti per giudicare. Oppure trasformano in indagati il premier, il presidente della regione e l’assessore (peggio ancora se decidono di prendersela con il premier e non con le autorità locali), ciò che sarebbe distruttivo per Conte e il governo, ma almeno eviterebbe che l’inchiesta di Bergamo diventi un argomento della prossima campagna elettorale per le regionali”.

Decisioni difficili. Sofferte. Contrarie a quella che in quel momento era la volontà degli imprenditori o degli amministratori locali. Eppure, ci sono molti punti da chiarire. Quando a essere sentiti in procura a Bergamo sono stati il presidente leghista della Lombardia Fontana e l’assessore al Welfare Gallera, la pm aveva definito la mancata zona rossa “una decisione governativa”. Cioè, responsabilità del presidente del Consiglio. Il quale, successivamente, ha ricordato che la zona rossa poteva essere istituita, in base alla legge, anche dalla Regione. Ma questo non risolve la questione.

Nonostante ciò, Conte è sereno. “Sono certo che il Governo e gli esperti che ci hanno aiutato abbiano fatto tutto quello che era umanamente possibile. Perché non c’era un manuale da seguire nella gestione della crisi, ma decisioni da prendere giorno per giorno”. Decisioni che ora possono costare al presidente del Consiglio un avviso di garanzia, con tutto ciò che comporterebbe anche da un punto di vista politico.

L’inchiesta della Procura di Bergamo per epidemia colposa è partita l’8 aprile 2020 grazie alle numerose denunce di operatori sanitari e cittadini raccolte anche da Francesca Nava su TPI, che ha portato avanti un’inchiesta giornalistica in più parti e sul caos presso il pronto soccorso di Alzano (e sulla mancata zona rossa di Alzano e Nembro), che ora si è trasformata anche in un e-Book. Lì dove tutto iniziò: quel 23 febbraio, come abbiamo denunciato lo scorso marzo, al Pesente Fenaroli succede un po’ di tutto: nonostante fossero stati accertati due casi Covid-19, il pronto soccorso chiude e riapre inspiegabilmente dopo 3 ore, senza essere sanificato.

La tesi prevalente nell’indagine per epidemia colposa avviata dalla Procura di Bergamo e dal pm Maria Cristina Rota della Procura di Bergamo si basa su un’azione di pressing, più che di lobbyng, da parte delle numerose e produttive aziende della Val Seriana. Una pressante “interlocuzione”, dettata dal rischio di vedere sfumare affari, interrompersi catene produttive decisive in un distretto che, da solo – con le sue 376 aziende, alcune con 800 dipendenti, poche con meno di 100 -, genera 680 milioni l’anno di fatturato. Agli imprenditori lombardi e bergamaschi l’idea che il governo, o la Regione, potessero chiudere andò indigesta da subito. E da subito – ipotizzano i magistrati – titolari e dirigenti delle fabbriche, rappresentanti delle associazioni di categoria, intermediari dell’economia e della politica si sarebbero attivati per scongiurare lo stop.

L’inchiesta di TPI sulla mancata chiusura della Val Seriana per punti:

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