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    Gallera a TPI: “Ma quale disastro? La Lombardia è stata la migliore contro il Covid”

    Confindustria? "Alcune associazioni di categoria erano contro il lockdown. Questo ha pesato su tutti, ma la Regione non si è fatta influenzare. E i Dpcm non li scrivevamo noi"

    Di Francesca Nava
    Pubblicato il 10 Giu. 2022 alle 08:50 Aggiornato il 10 Giu. 2022 alle 08:51

    «Il modello Lombardia nel Covid è stato vincente». Dopo la sovraesposizione mediatica del 2020, dopo gli attacchi feroci, le accuse, i meme, il sarcasmo del web, dopo la bufera del Covid, che solo in Lombardia ha ucciso almeno 40mila persone, Giulio Gallera, l’ex assessore regionale alla Sanità, è tornato. E lo ha fatto con un libro dai toni epici: “Diario di una guerra non convenzionale. La nostra lotta contro il virus” (edizione Guerini e Associati). «Un diario umano e professionale», che prende spunto dalle accuse rivolte contro Regione Lombardia senza voler «fare la requisitoria della difesa»: «Non ho ritenuto né utile né interessante compierla», ci dice, «quindi, come vedete, non ci sono pagine di autodifesa, ho pensato che fosse più interessante raccontare la mia esperienza a coloro che hanno vissuto la prima fase dell’emergenza Covid con un po’ di distanza, annoiati sul divano, perché eravamo in lockdown, per dar loro la dimensione del clima nel quale io, i dirigenti della sanità lombarda e gli ospedalieri abbiamo operato e assunto le decisioni, in modo che poi le valutazioni siano fatte anche avendo la dimensione da dentro, da un osservatorio che è unico».

    Non ci sono dubbi: l’osservatorio di Gallera è senz’altro eccezionale per chi, per mesi, si è interrogato su che cosa accadesse realmente nella stanza dei bottoni della regione italiana più martoriata dal Covid. Tuttavia, diciamolo subito: il buon Gallera racconta la “sua” verità, scarica ogni responsabilità sul Governo, omettendo molti passaggi cruciali e dimenticandosi – quando «cita» i dati per dimostrare la realtà con «inconfutabile evidenza» – di fornire anche riferimenti bibliografici verificabili. Quindi sì, il suo è senza dubbio un diario, ricco di passaggi emotivamente forti, ma senza rigore scientifico. Anzi, a dirla tutta, quello che l’ex assessore mette in campo in questo suo personalissimo racconto di «una guerra non convenzionale» è una tecnica comunicativa piuttosto nota in campo scientifico per evidenziare risultati a favore della propria tesi: si chiama cherry picking. Una locuzione inglese che richiama l’idea di scegliere solo le migliori ciliegie da una scodella piena, ignorando quelle peggiori, per convincere il pubblico ad accettare le proprie posizioni, evitando di menzionare tutte le contro-argomentazioni possibili. Dunque, se sorvoliamo sulla fallacia logica di questo racconto, che non è una pubblicazione scientifica, emerge uno spaccato della prima fase dell’emergenza Covid su cui Gallera ha le idee chiarissime: «Noi fino a fine marzo eravamo gli eroi d’Italia e poi dal 26 marzo diventiamo, anche in maniera immotivata, il male assoluto. Parlare di fallimento di Regione Lombardia è totalmente sbagliato. Grazie alle nostre azioni abbiamo salvato migliaia di vite».

    Partiamo da un fatto: lei nel libro non cita mai i grafici che il matematico Stefano Merler vi invia il 28 febbraio 2020 sulla situazione epidemiologica di Regione Lombardia e nella bergamasca. Quei dati (che noi pubblichiamo), tra l’altro sottostimati, indicavano un R0 superiore a 2 in regione e nella bergamasca un valore medio di 1.8, con un potenziale fino a 3.17. Perché questi numeri non vi fanno saltare sulla sedia quel giorno stesso? Perché interloquite con il Governo e con il Cts solo il 3 di marzo?
    «I dati di Merler li riceviamo, ma erano proiezioni di come sarebbero potute andare le cose».

    No, erano calcoli sull’indice di trasmissione basati sui dati raccolti da Regione Lombardia in tempo reale, non erano proiezioni.
    «Erano solo proiezioni, ma è evidente che noi abbiamo la consapevolezza della necessità di mantenere quelle misure, come minimo, del 23 febbraio».

    Cioè voi, alla luce dei dati di Merler di fine febbraio, chiedete ufficialmente al Governo di mantenere le stesse misure del 23 febbraio, quelle della “zona gialla”?
    «Esatto! E invece quello che esce il primo di marzo è un allentamento di quelle misure, tranne che nella bergamasca, dove il sabato e la domenica restano chiusi i centri commerciali».

    Ma quelle misure erano blande! Voi a fine febbraio non eravate già consapevoli che servisse inasprirle?
    «Dopo 7 giorni come si faceva a dire? I dati si valutano a 15 giorni di distanza. I numeri crescevano, ma c’era una gran parte della Lombardia dove i numeri erano molto bassi. Noi chiamiamo tutti gli esperti e diciamo di mantenere quanto meno quelle misure. La trattativa sul Dpcm del primo di marzo inizia il 28-29 febbraio. Noi mandiamo le nostre proposte al Governo, che le ignora e fa uscire il Dpcm come vuole lui e ci sono delle scene di miei dirigenti che la notte si mettono a piangere per dire “Qui non hanno capito niente”. Da lì nasce l’idea di convocare Speranza il 4 marzo».

    Perché, se eravate convinti che servisse una zona rossa in Val Seriana, non avete mai messo per iscritto questa richiesta?
    «Quando il ministro Speranza viene a Milano il 4, noi gli diciamo: “Se continuiamo così non lo arrestiamo più questo Covid”. E quando gli rappresentiamo che va fatta la zona rossa – glielo dico io – il ministro risponde: “Stasera vedo il presidente Conte e gli dico di farla”. Il giorno dopo arrivano i militari. Cioè, noi che cosa dovevamo scrivere? Il livello di collaborazione istituzionale era quello: telefonico, costante, in quei momenti lì non pensavamo alla formalità dell’atto, era un momento convulso. Pensi che solo due giorni dopo, il 6 marzo, sulla tv di Stato a Porta a Porta ci sono Rezza (Istituto Superiore di Sanità, ndr) e Ricciardi (consulente tecnico del ministro Speranza, ndr) che dicono “Ma qui si sta esagerando, non è vero che c’è tutto questo allarme”. Noi abbiamo fatto la nostra battaglia praticamente da soli».

    Eppure il decreto n. 6 del 23 febbraio, quello da cui discende la prima zona rossa in Lombardia, dava la possibilità anche alle Regioni di istituire zone rosse «nelle more» dei Dpcm. Voi dite che «more non ce ne furono» perché i Dpcm venivano emanati ogni giorno e per questo Regione Lombardia non ha mai chiesto una zona rossa. Però dal Dpcm del 25 febbraio a quello del primo marzo passarono cinque giorni: in quel lasso di tempo (in quelle “more”) non avreste potuto chiedere una zona rossa? Le more possono durare anche poche ore e la legge permette di agire.
    «Non c’era motivo, dal 26 febbraio al primo marzo, di assumere una decisione del genere. Il tema di Alzano e della bergamasca è emerso tra il 29 febbraio e il primo marzo. Fino a quella data la nostra attenzione era completamente concentrata su Lodi, su Pavia, su Cremona, erano queste le zone più colpite».

    Il governatore Fontana in Commissione regionale d’inchiesta ha detto di aver saputo dei casi Covid di Alzano solo «due-tre giorni dopo». Lei, come scrive nel libro, ha saputo in tempo reale quello che stava accadendo in quell’ospedale. Perché non ha informato subito il presidente?
    «Erano i primi due casi nella bergamasca, quando c’erano già alcuni casi nel milanese: per noi non era un focolaio, erano due casi. Non c’era motivo di comunicare il fatto che il direttore generale, dopo i primi due casi, avesse deciso di tenere aperto l’ospedale. E gli ospedali non andavano mica chiusi! La situazione della bergamasca ha una sua evidenza a fine febbraio e lì cominciamo a muoverci».

    Conte ad aprile 2020 disse che Regione Lombardia poteva fare tranquillamente la zona rossa se avesse voluto.
    «È stato detto per coprire le responsabilità del Governo».

    Il potere della legge 833 del 1978, che conferisce alle Regioni l’autorità di creare zone rosse, non è mai stato tolto.
    «Non c’era motivo per cui Regione Lombardia avrebbe dovuto agire».

    E perché allora altre Regioni hanno agito, creando autonomamente zone rosse?
    «Nessuno ha fatto zone rosse in quel momento».

    Certo, perché nessuna Regione era colpita come la vostra in quella fase.
    «Quando avviamo un rapporto di collaborazione istituzionale e il 5 marzo arrivano i militari era impensabile che noi agissimo in autonomia. E non è vero che la legge lo permetteva in maniera chiara ed evidente».

    Il 5 marzo era già tardi per chiudere solo la Val Seriana e lei tra l’altro si accorse solo ad aprile, ammettendolo in diretta tv, che la legge 833 dava anche alle Regioni il potere di creare zone rosse.
    «Ho detto una frase che è stata interrotta. La legge in termini astratti consentiva di farlo, ma non c’erano le more»…
    Continua a leggere l’articolo sul settimanale The Post Internazionale-TPI: clicca qui

    L’INCHIESTA DI TPI SULLA MANCATA CHIUSURA DELLA VAL SERIANA PER PUNTI:

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