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Manuale per un golpe: in Brasile è stato applicato il “Modello Capitol Hill” e potrebbe accadere anche in Italia

Immagine di copertina
Credit: AP

Fake news, influencer e complicità nelle istituzioni. L’assalto a Brasilia e la rivolta del 2021 a Washington seguono lo stesso schema eversivo, replicabile anche in Europa

C’è un elenco impressionante di parallelismi che esistono tra l’assalto al Congresso Usa del 6 gennaio 2021 e l’invasione dei tre poteri (le sedi del Parlamento, della presidenza della Repubblica e della Corte suprema) a Brasilia l’8 gennaio scorso. Un vero e proprio manuale del golpe nel XXI secolo. Dietro i due atti ci sono strategie sovrapponibili.

S&D

La complessa e ben finanziata macchina di disinformazione, che nei due casi ha messo in discussione la legittimità del voto popolare, denunciando brogli inesistenti. La battaglia giudiziaria pretestuosa, creata ad arte per impedire il passaggio del potere (da Trump a Biden, da Bolsonaro a Lula).

L’appello al ricorso di leggi di eccezione, per evitare l’assunzione del potere del presidente legittimamente eletto. Dopo il caos, l’accusa – senza alcun fondamento – di presenza negli scontri di “infiltrati della sinistra”, per criminalizzare la parte avversa. Lo stesso modus agendi che si è ripetuto, prima a Washington e poi a Brasilia.

Deus vult
C’è molto di più, in realtà. Capitol Hill e la “Esplanada dos tres poderes” sono due crisi parallele, ma, nel contempo, due puntate di un format della destra radicale che, dal 2014 in poi, ha iniziato a costruire pazientemente una strategia globale. L’obiettivo è comune, dichiarato, ormai evidente: mettere in crisi lo Stato moderno fondato sui principi illuministici della Rivoluzione francese. Allo spirito repubblicano si vorrebbe sostituire una sorta di messianismo oscurantista, da “ancien régime”, pre-conciliare. Ed è questo un altro elemento che unisce i tentativi di rovesciamento violento dello Stato democratico a Washington e a Brasilia.

A guidare una parte della folla che ha invaso i palazzi dei tre poteri l’8 gennaio c’era uno stuolo di pastori evangelici, religione che da quando i papi Wojtyła e Ratzinger hanno iniziato, negli anni ’80, a fare la guerra alle pastorali sociali della teologia della liberazione è cresciuta enormemente in Brasile. Così come dietro l’assalto di Capitol Hill e la politica trumpiana c’è un fenomeno relativamente nuovo, particolarmente pericoloso, ovvero l’unione tra le visioni più reazionarie del cristianesimo. Padre Antonio Spadaro già sei anni fa intuiva il pericolo: «Facendo leva sui valori del fondamentalismo, si sta sviluppando una strana forma di sorprendente ecumenismo tra fondamentalisti evangelicali e cattolici integralisti, accomunati dalla medesima volontà di un’influenza religiosa diretta sulla dimensione politica», si legge in una analisi pubblicata su Civiltà Cattolica nel 2017, firmata dallo studioso gesuita con Marcelo Figueroa.

Il nemico per questa nuova crociata ultraconservatrice è ormai chiaro a tutti: «Nell’universo che minaccia il loro modo di intendere lo “American way of life” si sono avvicendati nel tempo gli spiriti modernisti, i diritti degli schiavi neri, i movimenti hippy, il comunismo, i movimenti femministi e via dicendo, fino a giungere, oggi, ai migranti e ai musulmani». Nella retorica golpista di Trump e Bolsonaro il nemico “comunista” continua a mantenere una posizione alta, soprattutto se si parla di America Latina. Su questo non sono soli, il partito neo-franchista spagnolo, forte alleato di Giorgia Meloni, Vox ha una vera e propria ossessione per il “pericolo rosso”, che vede annidato proprio dietro la presidenza di Lula. Jair Bolsonaro, per questo fronte, è l’uomo che doveva liberare il Paese dal demone rosso.

Roma, ottobre 2021
Quando poco più di un anno fa venne assaltata la sede della Cgil, la memoria visiva e politica tornò immediatamente a Capitol Hill. Intendiamoci bene, il contesto e il peso dell’atto erano completamente diversi rispetto a quanto era accaduto mesi prima a Washington. Non dobbiamo però dimenticare che quella folla da giorni e giorni chiedeva di assaltare i palazzi custodi del sistema democratico. Il 9 ottobre 2021, mentre gli scagnozzi di Forza Nuova sfondavano l’ingresso della sede del principale sindacato italiano, migliaia di manifestanti provavano a forzare con la violenza i blocchi davanti al Parlamento e a Palazzo Chigi.

Furono respinti, soprattutto perché lo Stato italiano funzionò. La magistratura ha deciso, nelle indagini sull’assalto alla Cgil, di non contestare l’aggravante eversiva, escludendo, dunque, un pericolo concreto per la democrazia italiana. Ma quella giornata fu appena la parte più visibile di un pericolosissimo fermento durato mesi, che ha utilizzato la crisi della pandemia come uno stratagemma politico. Anche in questo caso, ricordiamolo, il motore che alimentava la rabbia era composto da notizie false, battaglie giudiziarie pretestuose (centinaia di ricorsi presentati contro le norme di tutela sanitaria) e una forte connotazione messianica e ultra-religiosa, elemento caratteristico di Forza Nuova, principale attore degli scontri in piazza.

Come difendere la democrazia
Luiz Inácio Lula da Silva non ha dubbi. Quello che è avvenuto a Brasilia l’8 gennaio scorso è stato un tentativo di golpe, ovvero un sovvertimento violento dello Stato democratico. Non è andato in porto solo grazie alla prontezza della sua reazione, alla capacità politica di creare, in poche ore, un ampio fronte civile – trasversale ai partiti – di reazione. Il primo passo è stato la firma di un decreto di commissariamento del governo del Distretto Federale, smontando così quello che probabilmente era un nucleo istituzionale che stava agendo dietro i manifestanti. La seconda mossa, ancora più di peso, è stata la decisione di chiamare tutti i governatori del Brasile attorno a sé, mostrando che la classe politica – al di là degli schieramenti – non aveva nessuna voglia di seguire l’avventura golpista di Jair Bolsonaro.

Ha quindi deciso, la mattina dopo l’assalto al Congresso, al palazzo presidenziale e al Supremo tribunale, di mostrarsi pubblicamente insieme ai vertici del potere legislativo e giudiziario: non c’è spazio per gli eversori all’interno del potere costituzionale, era il messaggio. E, alla fine, ha mandato un segnale chiarissimo ai militari: «Le forze armate non sono un potere moderatore, come pensano loro», ha dichiarato Lula il 12 gennaio, in un incontro con i giornalisti. Non sono state solo parole le sue. A chi gli chiedeva di applicare le leggi di emergenza (il cosiddetto Glo, “Garanzia della legge e dell’ordine”, ovvero la richiesta di un intervento dell’esercito in funzione di ordine pubblico) ha risposto picche, ben sapendo che quello era l’obiettivo della folla e, soprattutto, di chi la manovrava. La crisi, in altre parole, è stata affrontata e, almeno momentaneamente, risolta esclusivamente all’interno del quadro costituzionale e dei poteri civili. 

C’è un ulteriore elemento da osservare. Nelle ore più difficili, tra la notte dell’8 e la mattina del 9 gennaio, Lula è intervenuto pubblicamente solo una volta, per annunciare la firma del decreto di commissariamento della gestione della sicurezza nella capitale. Ha lasciato ampio spazio ai suoi ministri e ai funzionari di alto livello, per mostrare l’unità e la collegialità del nuovo esecutivo appena eletto. Solo molte ore dopo il presidente ha iniziato ad apparire frequentemente, e non sempre per parlare di golpe. La cerimonia di insediamento delle ministre per la politica indigena (Sonia Guajajara, una rappresentante di una tribù) e per l’uguaglianza razziale (Anielle Franco, la sorella di Marielle, l’attivista dei diritti umani uccisa a Rio de Janeiro in un agguato il 14 marzo 2018) è stato probabilmente il segnale più forte dato al Paese. 

Il passo più importante è arrivato, però, prima del tentativo di golpe, il 1 gennaio, giorno dell’insediamento di Lula alla carica di nuovo presidente del Brasile. Il 30 dicembre Jair Bolsonaro era partito per gli Stati Uniti, facendo sapere di non avere alcuna intenzione di passare la fascia presidenziale al suo successore. Anche in questo caso il parallelismo con l’assalto a Capitol Hill è chiarissimo. Lula ha preso la palla al balzo, ha rotto ogni protocollo, ricevendo la fascia da un gruppo che rappresenta simbolicamente la parte più fragile della società, netta maggioranza della popolazione in Brasile: una donna di colore raccoglitrice di rifiuti a San Paolo, un ragazzo disabile, un bambino di una favela ed un indigeno. Era quasi possibile rileggere in un fiato il capolavoro della letteratura brasiliana in quel momento, “Macunaima”, il romanzo precursore del realismo magico di Mário de Andrade, dove l’incrocio delle culture diventa l’asse portante e costitutivo del Paese. La genialità multiculturale del Brasile è stata in grado di ribaltare il gesto di sfida politica arrivato da Bolsonaro.

Pericolo globale
Le prime indagini sul tentato golpe stanno dimostrando l’esistenza di un’organizzazione molto ben strutturata, con finanziatori, organizzatori, gruppi di influencer – chiamati “milizia digitale” – e politici pronti a manovrare vasti gruppi di cittadini, molto spesso vicini alle chiese evangeliche più conservatrici. Una prima ricostruzione dei finanziamenti arrivati per organizzare le manifestazioni a Brasilia mostrano la presenza delle mani di alcune imprese dell’agri-business, il settore economico cresciuto a dismisura attorno allo sfruttamento intensivo della terra. Sono i principali mandanti della deforestazione (e Lula ha richiamato Marina Silva, l’ex compagna di lotta di Chico Mendes, al ministero dell’ambiente), come abbiamo raccontato su TPI.

La organizzazione no profit brasiliana “De olho nos ruralistas” ha ricostruito in un report divulgato in questi giorni come questo settore economico abbia avuto un ruolo chiave nel rafforzamento del potere di Jair Bolsonaro e nelle campagne di odio nel Paese. Quello che sembra essere un movimento spontaneo – così sono sempre state presentate negli Usa e in Brasile le folle antidemocratiche da parte della destra – è in realtà un classico esempio di “Astroturf”, termine che nel linguaggio politico indica campagne pianificate per creare e sostenere dall’alto gruppi di opinione apparentemente di base.

Non ci sono dubbi, ormai, sull’esistenza di una vera e propria internazionale sovranista, che ha il suo centro propulsivo nell’alt-right statunitense, a sua volta braccio armato di interessi economici ben precisi. Grandi holding, come le famiglie Mercier e Koch, a livello globale da anni finanziano organizzazioni e campagne della destra estrema, con l’obiettivo di contrastare soprattutto i movimenti di difesa del clima e per la giustizia sociale. Quello che è avvenuto a Washington e a Brasilia ci riguarda da vicino. Ed è anche evidente lo scontro a livello politico internazionale: Manuel Macron e John Biden hanno espresso immediatamente e direttamente solidarietà a Lula; il tweet – freddo e burocratico, senza citare il nome del presidente brasiliano – da Palazzo Chigi è invece arrivato dopo diverse ore. Forse certe amicizie del passato, come quella con Steve Bannon, ancora hanno un peso.

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