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“È la cosa più importante che ho fatto in vita mia”: parla il volontario portoghese della nave Iuventa che rischia 20 anni di carcere

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Intervista di TPI a Miguel Duarte, 26enne portoghese che rischia 20 anni di carcere in Italia per aver partecipato alle missioni della ong tedesca Jugend Rettet nel Mediterraneo

Intervista a Miguel Duarte, il volontario portoghese della nave Iuventa che rischia 20 anni di carcere in Italia

Miguel Duarte è un giovane portoghese che vive a Lisbona, dove frequenta un dottorato di ricerca in Matematica. In Italia rischia di essere condannato a 20 anni di carcere per favoreggiamento di immigrazione clandestina, a causa delle quattro missioni di salvataggio che ha condotto nel Mediterraneo, come volontario, a bordo della nave Iuventa.

L’imbarcazione si trova sotto sequestro dal 2 agosto 2017 per ordine del gip di Trapani, dopo che la procura siciliana ha aperto un’indagine sull’operato della Ong tedesca Jugend Rettet.

Oltre a Miguel Duarte, altri nove membri dell’equipaggio della Iuventa sono indagati e rischiano di finire a processo. TPI ha contattato telefonicamente il volontario portoghese per sapere come è cambiata la sua vita da quando si è aperta l’inchiesta sulla Iuventa.

Miguel, come ti sei avvicinato alla Jugend Rettet?

Ho finito di studiare per la magistrale nel 2016. In quel periodo leggevo le notizie sulle persone che giungevano ai confini europei dalla Siria e da altri paesi. Come tanta altra gente avevo l’impressione che la risposta fornita dall’Europa non fosse sufficiente e anche un po’ ridicola. Ho fatto delle ricerche, per capire dove potessi essere utile. Ho scoperto la Jugend Rettet attraverso un’amica tedesca. Li ho chiamati e ho chiesto se avessero bisogno di aiuto. Mi hanno detto che stavano cercando persone per l’equipaggio e mi hanno invitato. Così mi sono imbarcato.

Perché questa decisione?

Per me la cosa più triste della situazione delle Ong è che noi non eravamo professionisti. Non sono un marinaio, non sono un infermiere, al momento sto facendo un dottorato in matematica. Quindi la mia attività non c’entra nulla col lavoro umanitario.

Certo, a bordo avevamo capitani, medici, ingegneri, ma la maggior parte dell’equipaggio non era composta da professionisti. Tanti – come me – non si erano mai imbarcati su una nave.

Sicuramente, molte persone che si occupano di salvataggi in mare avrebbero fatto un lavoro migliore, perché noi abbiamo dovuto imparare. Ma questa gente non era lì. Gli Stati non c’erano, le risorse, i soldi, le navi da salvataggio, gli equipaggi dei professionisti non erano lì. Abbiamo dovuto prendere in mano questo problema, fare qualcosa anche se non era proprio quello che sapevamo fare.

Per senso del dovere?

Certamente, è dovere di tutti noi fare qualcosa. Noi in un anno abbiamo salvato 14mila persone, però tanti altri sono morti perché non avevamo le risorse o un equipaggio sufficientemente grande. Quindi non ci siamo mai visti come una soluzione a lungo termine per questo problema, ma soltanto come una risposta di emergenza.

Hai mai avuto la sensazione che la vostra presenza in mare incoraggiasse in qualche modo più persone a partire, come sostengono gli autori della guerra alla Ong?

È assurdo pensare che se non ci fossero le Ong la gente non partirebbe: abbiamo visto esattamente il contrario in tutti questi anni. Nel 2013, quando non c’erano le Ong, ci sono stati i naufragi di cui sappiamo. L’anno successivo sono morte tantissime persone. Così a un certo punto MSF ha deciso di prendere una nave e andare a fare salvataggi in mare. Le Ong sono andate nel Mediterraneo proprio perché la gente partiva comunque.

Ci sono stati sviluppi recenti nella vostra vicenda giudiziaria?

No, in realtà non è cambiato molto. La nave è stata sequestrata ad agosto 2017. A giugno 2018 dieci di noi hanno ricevuto le notifiche dalla procura di Trapani, che ci comunicavano che eravamo ufficialmente sotto indagine con l’accusa di “favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Hanno sequestrato molto materiale che era sulla nave, computer e cose del genere, su cui stanno facendo degli accertamenti. Non sappiamo ancora se andremo in tribunale oppure no.

Sei preoccupato su questo?

Non sono preoccupato per la mia libertà personale. In un anno abbiamo salvato 14mila persone. Poi ci hanno fermati per due anni. Questo fa capire la misura di quanto è successo: nel Mediterraneo c’era bisogno di più navi, non di meno navi. C’è tantissima gente che è morta proprio perché non eravamo lì. È questo che mi preoccupa.

Abbiamo imparato a fare i salvataggi, lo facevamo abbastanza bene anche se non eravamo professionisti. Ma ora dobbiamo stare a casa, a fare iniziative di crowdfunding per raccogliere soldi per le spese legali. Questo richiede impegno e risorse che in realtà potevamo utilizzare per salvare la gente, che è più importante.

I naufragi intanto continuano, l’ultimo a destare reazioni è stato quello del 7 ottobre al largo di Lampedusa.

Le Ong non svolgevano soltanto attività di soccorso in mare, ma anche di monitoraggio. Raccontavano al pubblico europeo cosa stesse succedendo lì, incluso l’operato della cosidetta guardia costiera libica, pagata dal governo italiano. Ora è molto più difficile, perché non ci sono così tante navi come nel 2016 o nel 2017. Quindi non sappiamo esattamente qual è il numero di persone che non riescono ad arrivare e quante vengono respinte.

Nel 2017, quando è scoppiato il caso Iuventa, non c’era ancora Salvini al governo. Secondo te si può parlare di una motivazione politica?

Sì, secondo me è un caso del tutto politico, non ha nulla di giuridico. Per questo richiede una risposta politica e dobbiamo impegnarci a parlare con la gente, a far conoscere il caso Iuventa. Il caso Iuventa ci spiega abbastanza bene a che punto è arrivata la politica italiana sulla questione migratoria. Tutta la campagna elettorale di Salvini e della Lega, ma anche di altri partiti, è stata condotta attraverso una guerra informativa contro le Ong. Secondo me la Iuventa è una delle tante vittime di questo processo.

Una delle talpe che passò le informazioni alla Lega, Pietro Gallo, ha detto di essere pentito e sostiene che il partito lo ha abbandonato. Vuoi dirgli qualcosa?

Credo che lui abbia già capito cosa ha fatto, non ho nulla da dirgli. Credo si senta – e si debba sentire – responsabile per ciò che è successo e continua a succedere ai confini europei. Tantissima gente muore e rischia la vita proprio perché persone come lui hanno compiuto determinate azioni.

Nei vostri confronti c’è stata anche tanta solidarietà, con campagne e raccolte fondi. Te l’aspettavi?

No. È stato bellissimo. Quando abbiamo cercato di far conoscere il nostro caso abbiamo assistito a una mobilitazione gigantesca in Portogallo, Spagna e Germania. Adesso abbiamo una rete di supporto enorme, a livello istituzionale, di attenzione mediatica, ma soprattutto a livello popolare. Questo mi dà speranza.

C’è stato anche un momento in cui il tuo è diventato un caso internazionale, quando Costa ne parlò con Conte. 

Sì, è successo dopo una raccolta fondi qui in Portogallo, che è diventata virale sui social media. A un certo punto i media mainstream hanno cominciato a fare domande al governo portoghese e per due o tre settimane se n’è parlato tantissimo. Alla fine Costa ha fatto questa domanda a Conte, che ha risposto parlando dell’indipendenza della magistratura. Però secondo me è importante arrivare al punto in cui i governi parlano di queste cose, perché sono molto importanti, ben più importanti della nostra libertà personale. Se noi andassimo in galera per qualche ragione, si creerebbe un precedente gravissimo per l’Europa.

Cosa ti rimane oggi dell’esperienza della Iuventa?

Ho fatto 4 missioni con la Iuventa e davanti a me sono passate moltissime persone, uomini, donne e bambini. Mi ricordo i volti di tantissima gente, l’emozione che si vedeva nei loro volti. All’inizio era paura, perché tanti di loro non avevano mai neanche visto il mare prima. Poi quando arrivavano sulla Iuventa potevano rilassarsi un po’.

Moltissimi poco dopo essersi seduti si addormentavano di colpo, nonostante tutto il caos intorno a loro: si sentivano al sicuro per la prima volta dopo tantissimo tempo. Per me è un privilegio essere tra le persone che potevano dare loro questa opportunità. Anche se poi, una volta arrivate in Italia, spesso queste persone si trovano davanti altri problemi di tipo legale.

Hai mantenuto i rapporti con alcune di queste persone?

Sì, ogni tanto avevamo qualche ora per parlare con la gente, quindi sono rimasto in contatto con alcuni di loro, che sono tutti in Italia e hanno una vita difficile.

Rifaresti questa esperienza?

Se non ci fossero conseguenze legali tornerei domani, senza dubbio. È la cosa più importante che abbia fatto nella mia vita.

E se invece tornassimo nel 2016 e tu fossi a conoscenza dei rischi legali, lo rifaresti lo stesso?

Certo, sì. L’indagine della procura di Trapani ha cambiato tantissimo nella nostra vita. Ma non cambia i nostri principi, i valori che ci hanno portati a stare lì. Se succedono queste cose è un motivo in più per fare azioni di solidarietà.

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