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Home » Spettacoli

“Anna”, la serie Sky di Ammaniti è una favola al contrario cruda e potente

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Cruda. Spaventosa. Potente. “Anna”, la serie tv in sei puntate scritta e diretta per Sky da Niccolò Ammaniti (tratta dal suo libro “Anna”), è una storia nella storia. Perché racconta un’epidemia che non lascia scampo agli adulti ma tiene in vita solo i bambini uccidendoli quando entrano in pubertà, e dopo i primi sei mesi sul set in Sicilia, l’epidemia è arrivata davvero. Quando la realtà diventa uno spin-off della fantasia, insomma. E a rendere tutto ancora più incredibile c’è il dopo: il set, inevitabilmente, si ferma.

C’è l’epidemia, quella vera, che un po’ somiglia a quella sul set: gli adulti sono i più colpiti, i bambini il Covid li risparmia davvero. Ma soprattutto, c’è la paura, come nella serie, che i bambini crescano. Che stiano fermi troppo a lungo, prima di poter tornare sul set. Che nelle ultime scene sembrino troppo grandi rispetto al girato già pronto. Insomma, la distopia nella distopia: i bambini non dovrebbero mai crescere nella serie (perché a 13 anni moriranno) e non dovrebbero crescere nella realtà (perché morirebbe il film). Immaginate il panico per la produzione, nei mesi di lockdown. Dopo quasi un anno i bambini tornano sul set e in effetti sono cresciuti. In maniera impercettibile certo, ma soprattutto Astor (che bambino meraviglioso) in alcune scene ha un’aria più adulta. Qualcuno ha perso i dentini, gliene applicano di finti grazie a dentisti specializzati. E alla fine, “Anna”, arriva all’ultimo ciak, sopravvissuta pure lei – la serie su un’epidemia – a un’epidemia.

E menomale, perché se non fosse uscita ci saremmo persi qualcosa. “Anna” è una favola al contrario: un luogo in cui non esiste quella dicotomia rassicurante tra la purezza dei bambini e il mondo ostile e superficiale. I bambini, soli in un mondo senza adulti, senza la bussola del passato e di uno schema sociale acquisito, nella lotta spietata per la conquista dei beni primari, sono dei primitivi in un mondo inospitale e spietato. Per molti “Anna” parla di speranza. Io trovo che parli anche e soprattutto di indole. I bambini, nel loro mondo senza favole, diventano ciò che sono. Nel nuovo ordine si collocano dove vogliono.

Nella favola brutta del reale senza ammaestramenti scelgono il loro ruolo, che non è necessariamente quello dell’innocenza. E così, la casetta di marzapane in cui Hansel e Gretel mangiucchiano dolci e vengono catturati dalla strega che la abita, in “Anna” diventa il supermercato in cui il gemello sopravvissuto Mario attira i coetanei per imprigionarli nelle gabbie per cani. Da Hansel e Gretel a una sorta di Canaro, in cui l’aguzzino sadico è un bambino. Astor, il piccolo protagonista della serie assieme alla sorella Anna, diventa una sorta di Pinocchio sballottato in un mondo tragico e mostruoso, un mondo di insidie e fratellanze primitive, in cui il teatro dei burattini, quello cattivo di collodiana memoria, diventa il teatro dei pupi siciliani in cui lo conduce un coetaneo.

E diventa, in questa favola rovesciata, l’ultimo luogo felice dell’infanzia per Astor. Perfino la strega cattiva delle fiabe è una bambina, Angelica, e la sua perfidia attinge della competizione spietata del suo tempo: quella dei talent, dei reality. È da lì che l’indole malvagia di Angelica ha tratto nutrimento: i perdenti vengono eliminati. Nel gioco, nella vita. La sopravvivenza, in “Anna”, si gioca in una spaventosa, surreale puntata di Masterchef in cui la bambina fragile soccombe o in una specie di “X Factor” in cui i bambini sono giudici spietati e il format tv torna ad essere Colosseo e pollice verso che decide la morte del “gladiatore”. E poi ci sono le bande dei bambini crudeli e fedeli alla regina, i bambini che come nobili decaduti si fingono proprietari di terre di nessuno, magari di un vulcano. Che in assenza di futuro, si aggrappano a un presente di finti privilegi come quegli aristocratici in disgrazia che vivono in ville enormi, senza luce e acqua e il giardino di sterpaglie.

C’è Pietro, ormai a un passo dalla pubertà, che invece è arreso al presente e muore come gli hanno insegnato che si muore, con la dolce brutalità di questo mondo: una busta di plastica sulla testa, stretta da mani amiche. C’è l’ermafrodita Picciridduna, unica adulta, che sopravvive a un crudele rito apotropaico ma non alla malinconia del sentirsi diversa in un mondo di “blu”. Un mondo che la condannerà all’eterna solitudine, che poi è quella della sua anima dilaniata e infelice. E poi i blu, appunto, schiavi e seguaci della regina cattiva che li vuole tutti del colore evocativo della sua ferita primaria, come a ricordare che il male si riproduce più facilmente laddove c’è un’offesa antica da riparare. L’indole, appunto, che decide chi siamo, e mai così tanto come nelle condizioni più estreme.

Che decide il colore in cui immergeremo noi stessi, gli altri. Blu. Bianco. Mentre “la Rossa” si porta via tutti. Infine Anna, che resiste e lotta per quel lampo di vita che le resta tra morte e macerie, che si innamora di un’anima rassegnata e non si rassegna. Le basta un braccio per riabbracciare suo fratello, ha con sé il “Quaderno delle cose importanti” lasciato da sua mamma, una sorta di libretto di istruzioni del mondo che è l’unico legame col suo passato e finisce in mare quando c’è odore di futuro. Anna, che il futuro lo cerca su un pedalò e approda su un’Arca di Noè, sperduta tra acque sconosciute. Una visione, forse, in cui la testa calva di un neonato è il miraggio sognante e salvifico di un mondo in cui sopravvive il più forte: chi sa sperare.

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