Leggi TPI direttamente dalla nostra app: facile, veloce e senza pubblicità
Installa
Menu
  • Politica
  • Home » Politica

    Le imprese fermarono la zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro: anche il New York Times dà ragione all’inchiesta di TPI

    Il quotidiano statunitense ripercorre "i giorni che hanno reso Bergamo il lazzaretto d'Italia", confermando che in quel periodo esisteva una "linea diretta" tra i dirigenti locali di Confindustria e l'esecutivo di Giuseppe Conte, il quale non diede riscontro tempestivo alle raccomandazioni del Cts di chiudere la bergamasca. Quando il Covid aveva già colpito

    Di Marta Vigneri
    Pubblicato il 1 Dic. 2020 alle 13:04 Aggiornato il 1 Dic. 2020 alle 16:25

    A nove mesi dall’esplosione del focolaio Covid nelle province di Alzano Lombardo e Nembro, anche il New York Times ripercorre i “giorni che hanno reso Bergamo il lazzaretto d’Italia”, ovvero quelli che vanno dal 23 febbraio al 9 marzo, quando l’epidemia aveva già colpito la Val Seriana ma le richieste del Comitato Tecnico Scientifico di istituire una zona rossa come a Codogno per contenere il virus non trovarono tempestivo riscontro. Il corrispondente del quotidiano statunitense in Italia, Jason Horowitz, ricostruisce i passaggi cruciali su cui il lavoro d’inchiesta di TPI realizzato dalla giornalista Francesca Nava e supportato dalla redazione ha gettato luce per la prima volta, contribuendo alla decisione della procura di Bergamo di aprire un’indagine per epidemia colposa (qui l’inchiesta completa, a puntate).

    C’è la richiesta disperata del Dottor Giuseppe Marzulli, primario dell’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano, alla direzione sanitaria dell’ASST Bergamo Est di chiudere il Pronto Soccorso dopo i primi casi di Coronavirus accertati, c’è la risposta negativa delle autorità regionali sanitarie, così come la nota dell’Istituto Superiore di Sanità rimasta inascoltata che raccomandava all’esecutivo di chiudere le province di Alzano Lombardo e Nembro già il 2 marzo 2020.

    Horowitz racconta la tragedia della Val Seriana descrivendo “i 10 giorni dell’indecisione” che hanno portato le province della bergamasca a registrare oltre il 1000 per cento in più di morti rispetto al 2019 nei primi 20 giorni di marzo, dopo che il virus aveva iniziato a circolare a febbraio “senza che nessuno avesse avuto contatti con la Cina” – “We were screwed” (eravamo rimasti fregati) dichiara Marzulli – e senza che nessuno si prendesse la responsabilità di rendere le province zona rossa come avvenuto a Codogno, mentre le industrie facevano pressione per rimanere aperte.

    La pressione delle industrie sul governo

    Nel reportage Horowitz cita anche il famoso spot diffuso da Confindustria Bergamo proprio nei giorni in cui il bilancio dei morti stava raggiungendo quello di Lodi (103 il 28 febbraio a Bergamo, quando a Lodi erano 182), “Bergamo is running“, che racchiude in un video il tentativo degli industriali della Val Seriana di rassicurare le aziende estere e minimizzare la portata di un’emergenza che a partire dalle corsie del nosocomio di Alzano aveva già generato le sue prime vittime. Ma, come raccontato a TPI da Marco Bonometti, presidente di Confindustria Lombardia “non si poteva fermare la produzione“.

    Il ministro della Salute Roberto Speranza ha dichiarato al quotidiano statunitense che il governo non ha “mai” fatto considerazioni di natura economica quando ha deciso di non dare riscontro immediato alle raccomandazioni del Cts, e che la priorità dell’esecutivo in quei giorni è sempre stata quella di “salvaguardare la salute dei cittadini” pur conoscendo bene le preoccupazioni degli industriali in una zona che conta 376 aziende, in cui lavorano quasi 4mila lavoratori per un fatturato pari a 680 milioni. Licia Mattioli, allora vicepresidente di Confindustria, ha raccontato a Horowitz che in quel momento “c’era una linea diretta tra Confindustria e l’esecutivo”.

    “La dirigenza aveva fatto notare direttamente a Conte che la rapida chiusura degli stabilimenti di Lodi aveva fatto perdere inutilmente posti di lavoro e che nelle fabbriche sarebbero state sufficienti misure di distanziamento sociale”, racconta Mattioli nell’intervista al New York Times. “Quello che volevano dire era che fermare tutta l’industria anche a Bergamo sarebbe stato davvero molto pericoloso”. “Non so se Conte e i suoi ministri hanno capito – continua l’ex dirigente – ma almeno hanno ascoltato.” “Le fabbriche sono rimaste aperte fino alla fine di marzo e molte non hanno mai chiuso”, ricorda Horowitz.

    “No one to blame” (nessuno da incolpare)

    Per la tragedia della Val Seriana, continua il corrispondente del New York Times in Italia, non c’è ancora “nessuno da incolpare”, “No one to blame“, sottolineando che l’inchiesta della procura di Bergamo è ancora in corso e che l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha rivendicato la ragionevolezza delle raccomandazioni diffuse in quei giorni, quando c’erano pochi tamponi e secondo le circolari ministeriali era necessario effettuare i test solo sulle persone che avevano avuto contatti diretti con la Cina: “Bisognava limitare le risorse per la fascia di popolazione più a rischio”, ha dichiarato un ufficiale dell’Oms. Nel frattempo, il premier Conte – il quale ha respinto la richiesta d’intervista del New York Times – ha ribadito che “non ci sono stati ritardi“, difendendo la scelta di rendere l’intera Lombardia (e l’Italia) “Zona rossa”, con il lockdown deciso una settimana dopo la nota dell’Iss, il 9 marzo. Troppo tardi.

    “Funzionari locali e famiglie in lutto a Nembro e Alzano Lombardo sostengono che la chiusura delle città a febbraio avrebbe rallentato la diffusione. Un procuratore locale sta indagando su cosa è successo e cosa non è successo e perché”, conclude il corrispondente. Andrea Crisanti, il microbiologo ex membro della task force sanitaria veneta chiamato dalla procura a svolgere il ruolo di consulente scientifico nell’ambito dell’inchiesta per “Epidemia colposa” ha definito a TPI la vicenda “peggio di un incidente aereo, un mistero d’Italia” di cui “non si trova nemmeno la scatola nera”.

    Premio Ischia Internazionale di giornalismo per le inchieste sulla Val Seriana

    Per le inchieste sulla gestione sanitaria in Lombardia (qui l’inchiesta completa, a puntate) TPI ha vinto il prestigioso Premio Ischia internazionale di giornalismo 2020, giunto alla sua 41esima edizione, per la sezione “web”. Il 12 settembre 2020, a Lacco Ameno (Ischia), si è svolta la cerimonia di premiazione a cui ha preso parte anche il direttore di TPIGiulio Gambino. Il premio vinto dal nostro giornale è il risultato del grande lavoro d’inchiesta sul campo svolto dai giornalisti di TPI, a cominciare da quanto scoperto da Francesca Nava ad Alzano Lombardo, sia per quel che riguarda il pronto soccorso che per la mancata istituzione di una zona rossa, e per le rivelazioni e le analisi di Selvaggia Lucarelli sul caso Lombardia, così come sulle RSA.

    Un lavoro enorme, supportato da tutta la redazione di TPI. Quel lavoro di inchiesta, in seguito al quale la Procura di Bergamo ha aperto l’indagine per epidemia colposa, è anche diventato un e-Book, pubblicato da Piemme Mondadori dal titolo “Epidemia colposa? Le verità nascoste sulla mancata zona rossa nella Val Seriana”. Il libro digitale fa parte di “Molecole”, la collana di Piemme dedicata al Covid-19, e gli autori sono i giornalisti di TPI che nei primi tre mesi di emergenza non hanno mai smesso di lavorare per trovare le responsabilità dietro il focolaio che ha messo in ginocchio il paese.

    L’inchiesta di TPI sulla mancata chiusura della Val Seriana per punti:

    TUTTE LE ULTIME NOTIZIE SUL CORONAVIRUS IN ITALIA E NEL MONDO
    Leggi l'articolo originale su TPI.it
    Mostra tutto
    Exit mobile version