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L’antropologo dell’Aquila: I virologi che minimizzano il Covid sono come quegli esperti che nel 2009 rassicurarono sul terremoto

Immagine di copertina
Illustrazione di Emanuele Fucecchi

Il professor Antonello Ciccozzi insegna antropologia culturale all’Università dell’Aquila. Dopo il devastante terremoto che colpì il capoluogo abruzzese nel 2009, coniò il termine “rassicurazionismo”, poi inserito nel dizionario Treccani. L’occasione fu la sua consulenza tecnica al processo alla Commissione Nazionale per la Previsione e la Prevenzione dei Grandi Rischi, processo che costò la condanna a due anni a Bernardo De Bernardinis, allora vicecapo della Protezione Civile.

Una condanna per aver rassicurato la popolazione attraverso un’intervista in cui De Bernardinis sottovalutava il rischio sismico (“Non c’è pericolo”) e induceva alcuni aquilani – poi deceduti sotto le macerie – a rientrare nelle proprie case (molti abitanti in quei giorni dormivano in macchina per il timore di una scossa notturna).

L’antropologo Ciccozzi individua nella comunicazione di alcuni esperti “mediatici” sulla pandemia da Covid-19 la stessa dinamica pericolosamente “rassicurazionista” che vi fu a L’Aquila undici anni fa.
Professore, lei fu incaricato dal tribunale dell’Aquila di fornire una consulenza che analizzasse la comunicazione scientifica dei membri della commissione grandi rischi alla vigilia del terremoto del 6 aprile 2009. Ascoltò molte testimonianze di cittadini, all’epoca. Cosa la colpì in particolare?
“Dopo quella riunione, in città si era estesamente diffusa l’idea che il crescendo di scosse in atto da mesi non dovesse più destare il timore che fino ad allora era salito insieme alla frequenza e all’intensità delle scosse. Questo in quanto De Bernardinis dichiarò, nel corso di un’intervista televisiva ai margini della riunione della Commissione Grandi Rischi appositamente convocata in città da Bertolaso (all’epoca capo della Protezione Civile, ndr), che si sarebbe trattato di uno ‘sciame sismico’ con cui avveniva uno ‘scarico di energia’. Questa diagnosi rassicurante, per cui le scosse continue sarebbero state segno di una sorta di rateizzazione capace di dilazionare il terremoto, condizionò diversi cittadini a restare a casa dopo due forti scosse che, a una settimana dalla riunione, precedettero di qualche ora quella fatale. In quel momento molta gente si telefonò ripetendo quanto aveva sentito in tv per tranquillizzarsi: ‘Sta scaricando!’”.

Invece, dopo pochissimo il terremoto distruttivo arrivò.
“Dall’analisi delle testimonianze dei parenti delle vittime emergeva che, così come non si sarebbe potuto generalizzare un condizionamento a tappeto per tutti gli abitanti della città, in alcuni casi particolari era rintracciabile un nesso causale tra quella rassicurazione esperta e la decisione di non uscire di casa per precauzione, come si era invece fatto altre volte. Infatti, il processo non riguardava tutte le oltre 300 vittime del terremoto, ma la morte di 29 persone e le lesioni di 4. L’iter processuale ha sostanzialmente stabilito che alcuni morirono per tre concause: l’energia terremoto, la vulnerabilità dell’abitazione e l’esposizione portata da quella rassicurazione, in termini di condizionamento efficiente. Vale a dire che la giurisprudenza italiana ha essenzialmente riconosciuto che diagnosi esperte infondatamente rassicuranti, ossia basate su presupposti pseudoscientifici e contraddette dalla realtà, possono contribuire produrre esiti catastrofici”.

Un ricordo particolarmente rappresentativo della sottovalutazione del rischio in quella tragedia.
“A livello mediatico nazionale e internazionale la vicenda passò come un folle processo voluto da una città di zoticoni traumatizzati in cerca di capri espiatori da sacrificare sull’altare delle loro case mal costruite, che quindi accusavano illustri scienziati di mancato allarme, li volevano mettere al muro con l’accusa assurda di non aver previsto il terremoto. Una narrazione, quella del cosiddetto ‘processo alla Scienza’, che funzionava benissimo sul calco di stereotipi regionali o nazionali implicitamente consolidati: rozzi montanari abruzzesi, cafoni siloniani ingrati verso le istituzioni o italiani retrogradi e ingrati verso il loro patrimonio di conoscenze che, al solito, se la prendono con qualche Galileo di turno.

Una narrazione commestibile ma fasulla, che rovesciava una questione chiave: nessuno accusava degli scienziati di non aver previsto il terremoto (di mancato allarme), all’opposto alcuni esperti erano accusati di aver previsto un ‘non terremoto’, ossia di aver dato una rassicurazione disastrosa nella forma di una diagnosi di non pericolosità, infondata scientificamente e contraddetta dai fatti”.

Anche dire che un terremoto non ci sarà è comunque una previsione.
“Non dare un’informazione di pericolosità è del tutto diverso dal dare un’informazione di non pericolosità. In tal senso il processo dell’Aquila non è stato un ‘processo alla Scienza’ ma un ‘processo per la Scienza’, per comprendere che la comunicazione degli esperti non è a priori scientifica ma può cadere in una pseudo scientificità che la parvenza di autorità rende ancora più pericolosa. La spiegazione che ho cercato di fornire come consulente riguardava anche questa confusione di fondo che subito si era affermata a livello di saperi esperti e di senso comune. Tutto ciò, le conseguenze del prevedere un ‘non terremoto’ quando poi il terremoto invece arriva, poggia sullo sfondo di un principio antropologico per cui la percezione umana del rischio non è un fatto naturale, istintuale, ma un costrutto culturale. Pertanto vi sono dei casi in cui delle rappresentazioni del rischio infondatamente rassicuranti aumentano l’esposizione ai pericoli. A volte affermare ‘non c’è pericolo!’ aumenta il rischio”.

Lei pensa che ci sia un’analogia tra la sottovalutazione del rischio della scienza, allora, e di ciò che comunica la scienza oggi durante la pandemia da Coronavirus?
“Dall’inizio dell’emergenza Coronavirus assistiamo a una sequenza costante di rappresentazioni rassicuranti, da parte dei media e da parte di esperti. Qui, insieme a delle analogie sostanziali con la vicenda aquilana, vi sono delle differenze significative. A L’Aquila la diagnosi rassicurante si presentò come un come segnale netto, riferito e circoscritto a un ambito locale, espressione unitaria di saperi che in quel momento si presentavano istituzionalmente in una veste di autorevolezza assoluta, incarnando la Verità della scienza ufficiale.

Questa narrazione persuasiva e pervasiva si propagò nel tempo breve di un disastro esplosivo, che si rivelò nettamente qualche giorno dopo la diagnosi rassicurante, nell’attimo devastante di un terremoto distruttivo. Gli esperti erano altrove, immuni dal rischio che, da uno di essi, fu diagnosticato come assente. Con l’emergenza Covid-19 assistiamo invece a un affollamento di continue diagnosi contraddittorie, la scienza ufficiale è polarizzata in esperti che si presentano ai media in modo spesso litigioso, con un linguaggio che troppo spesso non è quello della scienza, del dubbio, ma si accomoda in codifiche assertive, parla in termini di certezze e si concede il vezzo divinatorio della previsione”.

Ci sono però diverse correnti anche tra esperti.
“Siamo di fronte a una conclamata schizofrenia della scienza pubblica, che si divide tra allarmisti e rassicurazionisti, delineando un conflitto su una linea di trincea che si presta meglio sia a esigenze di notiziabilità mediatica che di analisi critico-problematizzante. A ciò finisce con il corrispondere una tribalizzazione del senso comune, che si divide in base alle rappresentazioni del rischio che i cittadini scelgono di adottare nei loro repertori interpretativi individuali, tra quelle disponibili nel supermercato dell’informazione”.

Quando sentiva frasi come “Il virus è clinicamente morto”, “Il virus è mutato”, “Basta isteria, la seconda ondata non ci sarà”, la modalità comunicazione di alcuni esperti le suonava evocativa, “familiare”?
“Già, nell’alluvione di infodemia che caratterizza questa emergenza, vi sono stati dei picchi rassicurazionistici che più di una volta sono emersi dalla cacofonia di pareri contraddittori o ambigui in modi a volte davvero eclatanti. In questi casi l’impressione che ho avuto è stata quella di trovarmi di fronte a una situazione sovrapponibile a quella aquilana ma moltiplicata per cento. Qualcuno si è ammalato ed è morto per una serie di concause dove, tra virus, mascherine indossate male, aria condizionata o altri fattori vi era anche l’aver sentito qualche persona in televisione vestita da scienziato che diceva di non preoccuparsi? Ci sono casi in cui si può ricostruire un nesso causale che collega certe diagnosi di non pericolosità a persone decedute per Covid-19? Questi esperti capiscono che la comunicazione è sempre contestuale e che un conto è parlare a un convegno e un conto è parlare alla televisione nazionale durante l’ora di punta? In questo si assiste a una desolante leggerezza sia in termini di comunicazione del rischio sia in termini di responsabilità, morale e giuridica, inerente alla comunicazione. Le parole sono pietre, e parole sbagliate possono risultare alleate del virus”.

I social e la paura rendono poi virale qualsiasi messaggio.
“Dobbiamo capire che non esiste solo un contagio biologico: dal momento in cui siamo animali culturali, esiste anche un contagio delle credenze, delle rappresentazioni del rischio, un contagio culturale che retroagisce sul primo contagio, quello inerente al virus. E qui la questione, invece, assume una connotazione ancora più grave di quella dell’Aquila: se in quel caso i nessi riguardavano il condizionamento in termini individuali, durante una pandemia la responsabilità sulla comunicazione del rischio concerne anche il fomentare comportamenti collettivi che aumentano l’esposizione al contagio. Con la pandemia questo contagio delle idee funziona due volte. In caso di terremoto un’idea contagiosa di fallace non pericolosità aumenta l’esposizione dei singoli che ci credono, in caso di pandemia un’idea contagiosa di fallace non pericolosità aumenta non solo l’esposizione dei singoli che ci credono ma anche la forza dell’agente d’impatto, perché il virus usa quella credenza per diventare un terremoto più forte, per aumentare la sua diffusione anche contro chi non si è fatto persuadere da certe diagnosi. Ricordiamoci che il reato di ‘procurata pandemia’ esiste. Per cui la questione è assai delicata”.

Lei utilizza il termine “rassicurazionismo”. Come si potrebbe spiegare questa espressione?
“Il fulcro della consulenza che ho svolto al processo dell’Aquila era proprio il concetto di rassicurazionismo. Studiando il caso mi resi conto che nella lingua italiana, e non solo, non esiste un opposto puro del termine ‘allarmismo’ che significa ‘segnalazione immotivata di pericolo’. Così ho indicato con il significante ‘rassicurazionismo’ il significato della segnalazione immotivata di sicurezza in riferimento a situazioni di rischio. Certe circostanze risultano difficilmente comprensibili proprio perché manca la parola per spiegarle, non siamo attrezzati culturalmente per comprenderle.

Ritengo che il rassicurazionismo sia un fenomeno che risponde a una domanda di senso fondamentale, in un certo senso arcaica, sia da parte del ricevente che dell’emittente: la massa vuole essere tranquillizzata, i decisori, gli esperti, a volte vogliono essere portatori di ottimismo, di buone notizie per ottenere in cambio consenso, ammirazione. Si tratta di un corto circuito taumaturgico con una domanda di salvezza del popolo a cui corrisponde un’offerta di guarigione da parte del sovrano. Il rassicurazionimo è ‘andrà tutto bene!’, all’opposto l’allarmismo radicale è la negazione di questa formula apotropaica in un tetro ‘andrà tutto male!’”.

Sono entrambe certezze, comunque.
“Dovremmo chiederci: ‘Andrà tutto bene?’. Il punto è che possiamo sapere se una diagnosi di rischio è allarmistica o rassicurazionistica solo a posteriori. Quando il rischio è in divenire si assiste a una tendenziale polarizzazione tra posizionamenti su diagnosi allarmanti o rassicuranti: potremo dire solo dopo, con ragionevole certezza, chi è che aveva più o meno ragione o torto, ma nel manifestarsi dei fenomeni emergenziali si comprende che anche nel ‘durante’ si rivelano gradualmente dei segni per interpretare abduttivamente in quale scenario più probabilmente siamo”.

Può essere pericoloso anche l’eccesso di allarmismo, come qualche esperto sostiene?
“L’eccesso rassicurazionistico finisce con l’essere pericoloso, come finisce con esserlo anche quello allarmistico. Le politiche del rischio devono accollarsi il difficile onere di stare in equilibrio tra queste opposte tentazioni. Il coraggio che diventa imprudenza porta alla negligenza rispetto al bisogno di cure, all’opposto la prudenza che sfocia nella paura porta all’eccesso di cure che produce effetti collaterali che possono essere peggiori del male che si combatte. Per quanto ci riguarda, significa tenere a mente che esiste tanto la minaccia pandemica del virus Covid-19 quanto la minaccia governamentale data dalla tentazione biopolitica di usarlo come pretesto disciplinare per instaurare regimi emergenziali che tenderanno autopoieticamente a perpetuarsi anche dopo l’emergenza. In tal senso, in queste circostanze più che mai, è vitale saper distinguere la scienza dal dogmatismo scientista messo in gioco in funzione politica per sacralizzare i processi decisionali”.

Che differenza c’è tra rassicurazionismo e negazionismo?
“In questi mesi c’è stata un’affermazione per molti versi fuorviante del termine ‘negazionismo’, prestito improprio dalla Shoah che, oltre ad annacquare il senso storico del termine, opacizza il fatto che, rispetto alla percezione attuale del rischio pandemico, spesso è stato ed è il diffuso e martellante rassicurazionismo di molti esperti a alimentare eccessi di ottimismo tra la popolazione, a partire da un rilancio dei loro messaggi da parte di media e esponenti politici. Il termine ‘negazionismo’ porta l’opinione pubblica a una spaccatura tra la meta-tribù di chi si preoccupa del virus e quella di chi si preoccupa della dittatura emergenziale, come se le due questioni fossero del tutto opposte. Oggi il focalizzarsi su fenomeni folkloristici come la tale Angela di Mondello del ‘Non ce n’è coviddi’, distoglie l’attenzione dal legame eziologico che spesso sussiste tra certe visioni popolari e il contagioso rassicurazionismo di esperti che, in prima serata, proclamarono a milioni di persone che ‘non ci sarà nessuna seconda ondata’”.

Si potrebbe obiettare che alcuni di questi “rassicuratori” non hanno incarichi o ruoli istituzionali. In questo senso la responsabilità rispetto alla famosa Commissione Grandi Rischi dell’Aquila è diversa, no?
“In comune c’è una questione di responsabilità dei saperi esperti in termini di diagnosi e comunicazione del rischio. Di diverso c’è che oggi, con la pandemia, la questione rimanda a un piano di comunicazione pubblica, mentre nel caso della Commissione Grandi Rischi la comunicazione, oltre ad essere pubblica, era anche e soprattutto istituzionale”.

Perché chi ha sbagliato analisi o, peggio, previsioni in maniera così macroscopica viene interpellato ancora in tv e sui media?
“In questo circo mediatico gli esperti servono non tanto a indicare la strada verso la verità o a più o meno presunte rette vie. Gli esperti servono maggiormente come figure profetiche, per incarnare modelli di riferimento da scegliere rispetto a una controparte. E i media gli danno spazio perché hanno bisogno di audience per sopravvivere. In mezzo a una pandemia un virologo funziona, in termini di industria dello spettacolo, come Hendrix a Woodstock. Prima del Covid19 la desiderabilità di un virologo in tv era paragonabile a quella di un becchino in un reparto maternità, nel nuovo habitat culturale della pandemia i virologi, epidemiologi, infettivologi, coviddologi vari, sono le star del momento: tutti le cercano. Non è un caso che diversi tra questi esperti si sono trasformati in veri e propri personaggi pubblici, con tanto di pagine sui social affollate da torme di ammiratori”.

Qual è l’esperto che dal punto di vista della comunicazione scientifica secondo lei si muove meglio? Crisanti? Galli? Capua?
(…) “Non saprei, mi viene in mente che le situazioni emergenziali sono momenti di efflorescenza di personalità carismatiche. In tal senso mi pare che, nel loro insieme, gli esperti oggi circolazione che parlano del Covid-19 delineino un pantheon di diversità di vedute, di alternative profetiche da cui ognuno può scegliere il proprio modello di riferimento, un po’ come si faceva una volta con i santi del calendario. C’è l’ottimista propiziatore dallo sguardo penetrante, che mentre esclude d’imperio l’eventualità di seconde ondate, invita nientedimeno che a fare l’amore, una roba che si commenta da sé, da John Lennon della pandemia. C’è quello più attempato che fa la Cassandra, il pessimista triste, stile “movesi il vecchierel canuto e bianco”. C’è il neoliberista commendatoriale, il Pravettoni dei coviddologi, espressione magnificente di efficienza meneghina, che pare che il virus lo guardi dall’alto al basso, nonostante le cantonate prese dai fatti.

L’elenco potrebbe seguitare ma non serve, in quanto si tratta di parti che da un po’ vediamo tutti i giorni. Tutti i giorni assistiamo a passerelle dove è sempre più difficile distinguere la competenza scientifica da un certo narcisismo di fondo. Non si capisce bene chi sia titolato a parlare, tra accuse reciproche d’incompetenza e un’oscillazione perenne tra la scienza e l’avanspettacolo. Direi qui che la fiducia nella Scienza va distinta dalla fiducia negli esperti. Uno conto è Dio un conto sono i sacerdoti, e il titolo di scienziato non è un titolo di santità; tanto più che è un titolo spesso abusato e, paradossalmente, non scientifico: si diventa scienziati per acclamazione, non esiste un titolo istituzionale, un diploma, una patente di “scienziato”.

Da un punto di vista antropologico, che tipo di fenomeno sono i no-mask? E i no-vax? Perché le epidemie sono terreno fertile per il complottismo?
“Penso che il complottismo, che oggi si esprime prevalentemente nelle forme dei no-mask e dei no-vax, sia un fenomeno in crescita non solo perché le emergenze sono un terreno fertile per le tensioni sociali e le polarizzazioni culturali ma anche in quanto soddisfa un bisogno, direi archetipico, di appartenenza e di rivalsa antagonista verso le istituzioni. In una società laicizzata come la nostra il complottismo fa le veci di quelli che in altri ambiti possono essere culti di salvezza, in cui si affermano movimenti religiosi che rispondono a una domanda di richiesta di riconoscimento, d’identità. Non a caso non di rado si tratta di persone con un livello di istruzione bassa che, attraverso il web, hanno trovato un totem attraverso cui riconoscersi nel comune bisogno di scaricare frustrazioni varie. Il complottismo fornisce letture alternative del mondo pavlovianamente opposte a quelle della scienza ufficiale, delle istituzioni, di chi ha studiato”.

Il complottismo è una forma di rivalsa sociale, quindi?
“Il complottista può appagare il suo complesso d’inferiorità non tanto contro lo scienziato ma soprattutto contro il laureato della porta accanto, e gridargli finalmente uno sprezzante e liberatorio ‘non hai capito niente!’ che funge da balsamo nei confronti di una serie di umiliazioni subite, dai quattro in matematica delle superiori in poi. Costruendo un mondo alla rovescia insieme al riconoscimento di simili con cui condivide questa visione della realtà, il complottista rovescia la marginalità che vive, spesso per proprie carenze, la ribalta in forma di superiorità, di elevazione dalla cecità e grettezza altrui. Insomma, la Terra piatta non è un fine che i complottisti vorrebbero dimostrare essere realtà, la Terra piatta è un mezzo per raccontarsi insieme con qualcuno che ha le stesse esigenze, quelle di essere migliori degli scienziati. È un rito, un cerimoniale di accusa e consolazione”.

Il complottismo è anche qualcosa di molto aggregante.
“Il complottismo funziona spesso come una ‘rivoluzione dei somari’, disponibile in un pacchetto di contenuti web pronti per essere indossati come schemi mentali in grado di fornire un orizzonte confortante di valori, di dare senso al mondo e alla vita di chi vi aderisce. Ritengo però che un’eccessiva spettacolarizzazione del complottismo come forma di idiozia, irrazionalità di massa possa essere controproducente nei termini in cui crea una polarizzazione della verità tra complottisti ignoranti, farneticanti e, all’opposto, bravi cittadini colti e fiduciosi. Se il vizio dei complottisti è un’aprioristica cultura del sospetto, della sfiducia contro un indefinito ‘loro’, ‘il sistema’ e via dicendo, la reazione di radicalizzazione che questo stimola non dovrebbe portare, per prendere le distanze dai complottisti, all’eccesso dell’adesione ingenua, acritica al mainstream. In generale oggi, in un simile scenario polarizzato, il rischio di essere tacciati di complottismo, di finire nelle fila di questo strambo esercito culturale, minaccia di inibire qualsiasi posizionamento critico, anche quelli più sensati che farneticanti”.

Un esperto a L’Aquila ragionò e fece previsioni in base a “una sequenza sismica” (lo sciame): in che senso, lei dice, le statistiche diluiscono la pandemia?
“Ultimamente ho dovuto constatare che oggi L’Aquila è finita dentro una sorta di ‘nuovo terremoto’ dato da un picco localizzato in città di contagi Covid-19, paradossalmente accompagnato da una nuova forma di rassicurazionismo. Se, come dicevo, il primo rassicurazionismo riguardò il rappresentare il rischio del terremoto nei termini di uno sciame sismico che lo avrebbe diluito in innocue scossette, oggi un secondo rassicurazionismo deriva dall’uso istituzionale di statistiche generalizzanti, che rappresentano l’incidenza del contagio in città non a partire dalla realtà locale effettiva ma diluendola nelle incidenze più basse a livello nazionale, regionale o provinciale”.

A L’Aquila cosa sta succedendo?
“In una provincia come quella dell’Aquila con una città di modeste dimensioni attualmente flagellata dal virus, qualche centro intermedio meno colpito e un vasto arcipelago di paesi minimamente sfiorati dal contagio, le statistiche tarate su scale territoriali troppo ampie possono più confondere che indicare la direzione giusta. Si tratta in fondo del problema inerente ai paradossi implicati dall’uso sociale delle medie statistiche, così noto da diventare poetico ma evidentemente ancora non abbastanza preoccupante da suggerire precauzioni nell’utilizzo: se da noi Trilussa ci avvertì che secondo la media statistica due persone mangiano un pollo a testa anche quando uno resta a stomaco vuoto e l’altro ne mangia due, oltreoceano Charles Bukowski dichiarava di non fidarsi molto delle statistiche perché ‘un uomo con la testa nel forno acceso e i piedi nel congelatore statisticamente ha una temperatura media’. La questione è sia faceta che seria, si pensi al celebre testo di Darrell Huff ‘Mentire con le statistiche’, che quasi settant’anni ci metteva in guardia rispetto alle interpretazioni, distorsioni, costruzioni possibili con questi numeri”.

Secondo lei cosa resterà (se resterà qualcosa) di tutta questa esperienza (quando l’epidemia finirà) nella società, nella cultura, nel sentire comune e nella politica?
“Non saprei. In termini di coscienza collettiva le pandemie sono un po’ come i terremoti: restano sospese in una tensione tra rimozione e memoria. In questi giorni abbiamo riesumato antiche fotografie della cosiddetta influenza ‘spagnola’, che ritraevano i nostri avi addobbati delle mascherine che ora hanno invaso tutti gl’interstizi della nostra vita quotidiana. Insomma, ci eravamo già passati. Cosa è restato? Per ora dobbiamo solo sperare che finirà e, soprattutto, che quest’emergenza non inneschi emergenze derivate”.

LEGGI ANCHE La videolettera di Riccardo Bocca: “Cari virologi, siete i testimonial del caos”

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