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Home » Esteri

Turchia-Francia, cosa si nasconde dietro lo scontro tra Erdogan e Macron

Immagine di copertina
Credit: ANSA

Lo scontro tra i presidenti di Francia e Turchia nasconde la profonda rivalità, anche geografica, tra Parigi e Ankara

I presunti “problemi mentali” di Emmanuel Macron, denunciati dal presidente turco Recep Tayyip Erdogan, e il “separatismo islamista”, a cui l’inquilino dell’Eliseo ha dichiarato guerra, provocando un appello al boicottaggio delle merci francesi in vari Paesi musulmani, subito appoggiato dal Sultano, rappresentano soltanto la punta dell’iceberg della crescente rivalità tra Francia e Turchia, che coinvolge il Mediterraneo e buona parte dell’Africa boreale, e viaggiano in parallelo a un altro boicottaggio internazionale, promosso dall’Arabia Saudita contro Ankara, e alla contesa in corso nel Golfo.

La nuova querelle che vede coinvolto il capo di Stato turco sembra avere ben poco a che fare con l’islamofobia, contro cui ad esempio sono scese in piazza migliaia di persone in Bangladesh. Eppure Erdogan ha chiamato in causa anche la cancelliera tedesca Angela Merkel, la Germania e l’Unione europea, definite “eredi dei nazisti” paragonando i musulmani in Europa agli ebrei vittime della Shoah. La polemica segue la decapitazione dell’insegnante francese Samuel Paty, avvenuta la scorsa settimana fuori da una scuola media di un sobborgo di Parigi, e un attacco che a fine settembre ha provocato due feriti nei pressi dell’ex redazione di Charlie Hebdo.

Da dove nasce la polemica tra Erdogan e Macron

Entrambi i fatti di sangue sono collegati a una matrice fondamentalista: il docente aveva mostrato in classe alcune vignette su Maometto pubblicate dalla testata satirica mentre il responsabile dell’aggressione compiuta lo scorso mese aveva giustificato la propria azione con la ripubblicazione delle caricature del Profeta decisa dal giornale in concomitanza con l’inizio del processo per l’attentato del 7 gennaio 2015.

A seguito di queste violenze, temendo un’ulteriore escalation, le autorità d’Oltralpe si sono impegnate in un vero e proprio giro di vite contro moschee e associazioni islamiche sospettate di contiguità con ambienti estremisti. A inizio ottobre, il presidente francese aveva inoltre già annunciato un progetto di legge volto a “rafforzare la laicità”, svelando un piano basato su “cinque pilastri” per contrastare il “separatismo islamista”, che secondo l’Eliseo minaccia le comunità musulmane integrate nel Paese.

Nonostante le precisazioni dei ministri francesi della Cultura, Roselyne Bachelot, e degli Esteri, Jean-Yves Le Drian, secondo cui Parigi intende combattere “il terrorismo di matrice islamista” e “non i musulmani”, i progetti e le parole di Macron hanno suscitato la reazione sdegnata di migliaia di persone nei Paesi arabi e persino dell’Università di Al-Azhar al Cairo, luogo di massima importanza per l’intero Islam sunnita.

Da qui e dalla ripubblicazione delle vignette su Maometto sono cominciate le campagne per il boicottaggio dei prodotti francesi, a cui si è unito il presidente turco Erdogan, unico governo ad appoggiare finora queste iniziative, insieme al gruppo terroristico palestinese Hamas che controlla la striscia di Gaza dal 2007.

La situazione è diventata talmente incandescente da costringere Parigi a invitare le autorità dei Paesi interessati da queste campagne a “fermare” gli appelli lanciati da quella che viene definita una “minoranza radicale”, chiedendo di “garantire la sicurezza” dei francesi residenti in questi territori. Il segretario al Commercio Estero, Franck Riester, ha riconosciuto un impatto di queste campagne su alcune aziende d’Oltralpe, con cui si dice “in contatto permanente”, in particolare con quelle dell’industria alimentare, come “Bel, Lactalis e Danone”.

Tuttavia, se le conseguenze economiche della querelle sono ancora da quantificare, le radici politiche dello scontro, ormai l’ennesimo scoppiato tra Parigi e Ankara, sono profonde: non solo in senso temporale ma anche geografico. A partire dal più recente conflitto riacceso un mese fa nel Nagorno-Karabakh, una regione contesa da 30 anni tra Armenia e Azerbaigian, passando dalle dispute su Cipro e nell’Egeo, alla Libia, alla Siria e al Sahel, la rivalità tra Francia e Turchia si estende ormai su ben tre continenti, proiettando la propria ombra sul Mediterraneo, sul Mar Rosso e sull’Oceano indiano, dove è forte la presenza di altri attori.

Viaggio fino all’8° parallelo nord: la profondità geografica dello scontro

L’espansionismo turco e la risposta francese vanno infatti inseriti in un contesto geopolitico che coinvolge anche le potenze del Golfo e l’Egitto. Non è un caso che il primo finanziatore della Turchia sia quel Qatar sottoposto da anni a un blocco economico promosso da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti ed Egitto – a cui partecipa anche il Bahrein – tre dei principali avversari di Ankara in Medio Oriente, Maghreb e Corno d’Africa e tra i migliori alleati di Parigi in queste regioni e nel Mediterraneo.

La recente vicinanza dell’Eliseo alla posizione armena in Nagorno-Karabakh, l’appoggio dichiarato alla Grecia nelle dispute marittime con la Turchia e il sostegno, anche militare, a Cipro riguardo le rivendicazioni territoriali e lo sfruttamento delle risorse energetiche al largo dell’isola, hanno inasprito ancora di più i rapporti tra i due governi, arrivando a coinvolgere anche l’Unione europea, a cui Ankara sembra essere eternamente candidata senza mai potervi accedere, che per ora ha scelto di non imporre sanzioni, soprattutto per evitare nuove crisi come quella dei migranti del 2015.

Il terreno su cui resta più forte lo scontro tra Parigi e Ankara resta in primis l’Africa, dove la Francia mantiene una fortissima presenza militare ed economica e in quindici anni la Turchia ha aumentato da 12 a 42 le proprie rappresentanze diplomatiche, di cui 26 inaugurate soltanto tra il 2010 e il 2016, portando l’interscambio commerciale pre-Covid fino a oltre 24 miliardi di dollari l’anno.

In questo senso, il primo semestre del 2020 si impone come un periodo chiave per comprendere l’intervento turco in Africa in zone tradizionalmente considerate all’interno dell’area di influenza dell’Eliseo: a partire dal tour diplomatico del presidente Erdogan, che a gennaio ha visitato Algeria, Senegal e Gambia, fino al decisivo coinvolgimento militare a sostegno del Governo di Accordo Nazionale di Tripoli, che ha cambiato le sorti della guerra in Libia a sfavore degli alleati libici di Francia, Emirati Arabi Uniti ed Egitto.

Nell’arco dei primi sei mesi dell’anno è esemplificato lo sviluppo ventennale dell’espansione turca in Africa: l’impronta di Ankara nel continente, promossa sin dalle prime politiche adottate nel 1998, ha cominciato a crescere sensibilmente dal 2003 quando era ancora incentrata sulla fornitura di aiuti economici, in particolare ai Paesi del Corno d’Africa, al fine di accrescere il futuro interscambio commerciale. A partire dal 2017 invece, con l’apertura di una base turca a Mogadiscio, in Somalia, l’impegno di Ankara in Africa è diventato anche militare, fino ad esplicarsi nelle recenti operazioni in Libia, dove la Turchia ha schierato armi, personale e persino mercenari stranieri.

Il sostegno a Tripoli non è stato certo disinteressato, avendo fruttato ad Ankara un prezioso accordo sui confini marittimi, che potrebbe permettere alla Turchia di entrare nel gioco dello sfruttamento dei depositi di idrocarburi al largo del Paese africano che, secondo lo US Geological Survey, potrebbero contare diversi milioni di barili di petrolio e migliaia di miliardi di metri cubi di gas naturale per un valore di centinaia di miliardi di dollari.

Questi interessi energetici, che hanno favorito la militarizzazione della crisi nel Mediterraneo orientale, con i nuovi investimenti degli Stati Uniti nella base navale di Suda, a Creta, e l’invio di navi da guerra francesi a Mari, sulla costa meridionale dell’isola di Cipro, costituiscono uno dei motori dello scontro tra Parigi e Ankara ma non solo.

La strategia turca volta a superare le limitazioni imposte cent’anni fa dal Trattato di Losanna e a proiettare la potenza di Ankara verso il golfo di Guinea e il Mar Rosso, recuperando un ruolo egemone nel Mediterraneo, si scontra infatti con le aspirazioni degli Emirati Arabi Uniti e dell’Egitto, che si muovono nel quadro di un maggior peso, anche economico, a cui queste medie potenze aspirano nel Mare Nostrum. La complicata matassa degli opposti interessi diventa più chiara ricordando come la Francia rappresenti il terzo fornitore di armi dell’Egitto e mantenga una base navale negli Emirati Arabi Uniti.

Anche alla luce di questo contesto vanno poi letti gli accordi di normalizzazione dei rapporti con Israele da parte di Abu Dhabi e del Bahrein, in una corsa a contare sempre di più sullo scenario mediorientale e a ritagliarsi una fetta della torta energetica mediterranea, serrando i ranghi delle rispettive alleanze e favorendo i tentativi di ricomposizione della crisi libica. Non a caso, in attesa dei negoziati politici previsti il mese prossimo in Tunisia, di fronte all’accordo di cessate il fuoco permanente raggiunto a Ginevra tra le parti in guerra in Libia Erdogan si è subito chiesto polemicamente “quanto durerà” quest’intesa, definita “poco attendibile” perché “non negoziata ai più alti livelli”: cioè senza il coinvolgimento diretto di Ankara.

Gli interessi turchi in Libia si inseriscono infatti nel solco dell’espansionismo del Paese nella regione. Da diversi anni, il governo turco cerca di rafforzare i propri legami con le nazioni del Nord Africa e del resto del continente, operando lungo due direttrici geografiche principali, a Ovest e a Est, e coniugando l’economia alla forza militare. “L’Algeria è una delle porte più importanti per la Turchia verso il Maghreb e l’Africa”, aveva spiegato lo stesso Erdogan durante la sua visita di inizio anno ad Algeri, in cui annunciò l’obiettivo di aumentare il commercio bilaterale fino a 5 miliardi di dollari, spingendo per un accordo di libero scambio.

La Francia, l’ex potenza coloniale, resta il maggior esportatore in Algeria dopo la Cina, con un interscambio arrivato nel 2019 a 3,8 miliardi di dollari. Il Paese africano è però un partner fondamentale anche per Ankara, che grazie a un accordo tra la società statale algerina Sonatrach e la turca Botas può importare ogni anno 5,4 miliardi di metri cubi di gas naturale liquefatto, rendendo Algeri il quarto maggior fornitore di gas della Turchia. Soltanto lo scorso anno, l’Algeria ha poi importato 1,86 miliardi di dollari di prodotti turchi, manifestando interesse per i sistemi d’arma prodotti da Ankara, in particolare i droni da combattimento Bayraktar. Inoltre, la Turchia è uno dei principali investitori stranieri nel Paese africano, dove ha già investito fino a 3,5 miliardi di dollari.

Non solo: a luglio, Ankara ha firmato diversi accordi di cooperazione economica e in materia di difesa con il Niger, uno Stato chiave all’interno della regione del Sahel per gli interessi energetici e militari di Parigi. L’intesa permette alla Turchia di esplorare nuove risorse minerarie nel Paese africano, da dove proviene quasi il 30 per cento dell’uranio usato nelle centrali nucleari francesi. Inoltre, seguendo il modello già adottato in Somalia e Libia, dove la Turchia coniuga la propria presenza militare con l’addestramento delle forze locali, l’intesa con Niamey prevede anche la formazione dei militari nigerini.

Nel contesto geopolitico del Maghreb, del Sahel e del Mediterraneo, l’avanzata turca in Libia e la penetrazione del Paese nel resto del continente africano costituiscono una svolta strategica per Ankara che mira a riprendere il ruolo guida ottomano come crocevia storico e culturale tra Europa, Africa e Asia. Si tratta però di un percorso irto di ostacoli e  basi militari. A fronte della variegata presenza turca in Libia, Parigi mantiene infatti una cintura di sicurezza intorno al Nord Africa, con una serie di strutture militari in Mauritania, Mali, Burkina Faso, Niger e Ciad, sostenute dalle basi permanenti in Senegal, Costa d’Avorio e Gabon. E le difficoltà non finiscono qui.

In questo quadro si inseriscono le nuove restrizioni imposte a metà ottobre dal Marocco alle merci turche, in concomitanza con una revisione dell’accordo di libero scambio firmato tra il regno africano e Ankara nel 2004 ed entrato in vigore nel 2006. Motivata ufficialmente con la necessità di correggere “gli squilibri nella bilancia commerciale” emersi negli ultimi anni, questa misura segue di pochi giorni un appello lanciato all’inizio del mese dal presidente della Camera di commercio saudita, Ajlan al-Ajlan, che ha chiesto il boicottaggio di “tutto ciò che è turco”, inclusi investimenti, turismo e importazioni, “in risposta alla continua ostilità del governo” di Ankara, un’iniziativa a cui non è estraneo il peggioramento dei rapporti bilaterali dovuto al brutale omicidio di Jamal Khashoggi nel 2018.

Nonostante la vicinanza tra Rabat e Riad, non è chiaro se la scelta del Marocco sia legata all’appello saudita ma rappresenta comunque una battuta d’arresto per l’espansionismo di Ankara in un’area tradizionalmente influenzata da Parigi, tanto da costringere la ministra turca del Commercio, Ruhsar Pekcan, a promettere una revisione dell’accordo e maggiori investimenti in Marocco, che lo scorso anno rappresentava il principale mercato africano per le esportazioni della Turchia, arrivate a oltre 2,24 miliardi di dollari.

Allargando lo sguardo da Ovest a Est e scendendo fino all’ottavo parallelo nord, dove corre il confine tra Etiopia e Somalia, si comprendono meglio i motivi di preoccupazione delle potenze del Golfo, in tanti teatri alleate della Francia, rispetto all’interventismo di Erdogan. Infatti, se il Marocco è la principale destinazione delle esportazioni della Turchia in Africa, l’Etiopia è il primo Paese del continente per investimenti turchi, penetrati dalle coste somale sempre più verso l’interno dell’Africa, irritando ancora una volta l’Egitto la cui irrisolta disputa con Addis Abeba sulla Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD), l’ormai quasi conclusa mega-diga costruita dall’italiana Salini sul Nilo, ha spinto il Cairo a valutare un avvicinamento all’autoproclamata repubblica del Somaliland.

In risposta all’espansione turca in Etiopia e Somalia e al progetto, poi bloccato, di creare una struttura navale a uso civile a Suakin, in Sudan, gli Emirati Arabi Uniti hanno poi iniziato a finanziare le regioni separatiste e semi-autonome di Somaliland e Puntland, investendo 440 milioni di dollari nel porto di Berbera e 336 milioni di dollari nello scalo di Bosaso, alimentando una disputa sugli approdi nel Corno d’Africa che coinvolge da vicino anche il Qatar, da cui passa la controversia tra Parigi e Ankara e che sembra aver aderito al boicottaggio delle merci francesi.

Il Qatar: terzo incomodo tra Parigi e Ankara

Nonostante l’annunciato avvicinarsi di una soluzione di compromesso, a giugno il Consiglio di Cooperazione del Golfo ha “celebrato” il terzo anno del boicottaggio diplomatico ed economico decretato contro il Qatar dal “Quartetto” composto da Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Bahrein ed Egitto, una spaccatura che ha avuto inevitabili conseguenze sulle più ampie relazioni estere dei Paesi coinvolti, comprese quelle con Francia e Turchia, visti i legami sempre più stretti tra l’emirato e Ankara e i forti investimenti e il finanziamento delle fondazioni islamiche d’Oltralpe da parte di Doha.

Turchia e Qatar intrattengono solide relazioni, rafforzate dal blocco imposto all’emirato nel 2017: da allora Ankara sostiene Doha con forniture alimentari e beni di prima necessità e riceve ingenti investimenti, nell’ordine di oltre 80 miliardi di dollari, e gas naturale, di cui il Paese arabo è il principale produttore al mondo. Negli anni, i due governi hanno anche rafforzato i legami militari, con l’istituzione di una base militare turca in Qatar nel 2015 e frequenti esercitazioni congiunte.

Neanche le relazioni tra Parigi e Doha sono trascurabili: il volume degli scambi bilaterali tra Qatar e Francia ha infatti raggiunto lo scorso anno i 4,94 miliardi di dollari, in crescita di oltre il 28 per cento rispetto all’anno precedente, eppure questi legami non hanno impedito la diffusione della campagna anti-francese nell’emirato. La scorsa settimana ad esempio, la nota catena qatariota di supermercati Al Meera ha rimosso tutti i prodotti francesi dai propri scaffali, seguita da diverse altre società, mentre l’Università del Qatar ha rinviato la prevista Settimana della Cultura francese, definendo “del tutto inaccettabile qualsiasi violazione della fede musulmana e dei simboli sacri islamici”.

La forte adesione in Qatar al boicottaggio delle merci francesi ha provocato la reazione dell’estrema destra francese, con Marine Le Pen in prima fila, mentre torna alla mente quanto rivelato lo scorso anno dai giornalisti Christian Chesnot e Georges Malbrunot, che nel libro “Qatar Papers” avevano documentato il finanziamento con diversi milioni di dollari da parte di Doha di decine di moschee e centri islamici in Europa, in particolare in Francia, la maggior parte attraverso una rete legata ai Fratelli Musulmani. Proprio le irruzioni delle forze dell’ordine in oltre 50 moschee e associazioni islamiche avvenute negli scorsi giorni in Francia hanno alimentato il boicottaggio in Qatar, che figura tra i Paesi sensibilizzati dal ministero degli Esteri francese per limitare i danni.

Il Quai d’Orsay si è infatti premurato di annunciare la mobilitazione della propria rete diplomatica “per ricordare e spiegare le posizioni della Francia in termini di libertà fondamentali e rifiuto dell’odio”, un “invito” che suona abbastanza minaccioso in un contesto così complicato e bellicoso come quello delineato.

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