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“Dottoressa, dica a mia moglie che la amo”: il dolore dei pazienti all’ospedale di Bergamo

Immagine di copertina
Terapia intensiva Credits: Ansa

“Stiamo in piedi con la rabbia. Non abbiamo gli strumenti per intervenire su tutti, oltre che le protezioni. Il paziente va in arresto respiratorio, gli pratichi il massaggio cardiaco perché no, tu medico non riesci a lasciarlo morire, ti guarda. E quando lo devi intubare? Il tubo ce l’hai ma non hai il ventilatore. Quindi? Età e comorbidità sono criteri di esclusione dalle manovre. Adesso dobbiamo intubare i quarantenni. Se domani arrivo io con il diabete, per fare un esempio, vengo dopo di lui. Si discute tanto di eutanasia, ma queste sono persone che, se avessimo i presidi, potrebbero farcela”.

Questo è il racconto che un medico chirurgo di Treviglio (Bergamo) fa al Corriere della Sera. Si tratta di un medico e di una madre di famiglia che spiega con rabbia cosa accade in corsia. “Noi medici non dobbiamo essere messi nelle condizioni di fare quello che facciamo. Qui ci sono delle responsabilità con nomi e cognomi. La zona rossa della Valle Seriana andava istituita subito. Gli studi epidemiologici erano chiari, dall’inizio di Wuhan, e la scienza non è un’opinione”.

 

A Bergamo l’emergenza si sente forte. Nell’ospedale Papa Giovanni XXIII i posti letto in Terapia intensiva sono finiti. Anche l’ultimo degli 80 letti riservati ai pazienti ricoverati in gravi condizioni per il Coronavirus è stato occupato. La gravità dell’emergenza Coronavirus in Lombardia e soprattutto a Bergamo passa anche dalle toccanti immagini di decine di bare, contenenti i feretri delle vittime del Covid-19, allineate nelle chiese della città in attesa di una degna benedizione e di una qualche sepoltura. Il numero di decessi, nella città lombarda, cresce infatti a un ritmo così alto da obbligare il sindaco, Giorgio Gori, non soltanto a chiedere ad altri colleghi la disponibilità di forni crematori, ma anche a fare un appello in diretta tv.

La dottoressa di Treviglio racconta lo strazio dei pazienti, costretti a vivere momenti tragici attraverso vetri di separazione: “Il paziente sa che cosa sta succedendo, glielo leggi negli occhi. ‘Dica a mia moglie che la amo’ o ‘mandi un saluto alla mia nipotina appena nata che non ho potuto vedere’, ti dicono. Ai pazienti riportiamo le parole che i loro familiari ci consegnano al telefono, i bigliettini con i messaggi e i disegni dei nipotini che ci portano, restando fuori. Ai parenti, diamo al telefono le notizie dei decessi. Ho dovuto comunicarlo a due figli di un paziente che abitano distanti l’uno dall’altra. Non hanno nemmeno potuto piangerlo insieme. Non dico tenergli la mano, perché nemmeno noi possiamo farlo. Muoiono soli e vengono portati in camera mortuaria avvolti in un telo con il disinfettante. Noi medici resistiamo, dobbiamo, ma siamo già vicini al crollo psicologico per la fatica, le ansie, e perché stiamo perdendo amici cari.

 

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