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AstraZeneca: perché è stato sospeso un vaccino sicuro? Populismo, interessi economici, Brexit: tutte le ipotesi

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Illustrazione di Emanuele Fucecchi

I dati a disposizione mostrano come il vaccino di AstraZeneca sia sempre stato sicuro, al pari degli altri: perché allora è stato sospeso per alcuni giorni? Ci sono almeno tre tesi in campo: il pregiudizio nei confronti di questo vaccino e il conseguente panico mediatico generato dai casi sospetti, che avrebbe fagocitato anche le istituzioni politiche. C'è chi chiama in causa anche la competizione commerciale tra case farmaceutiche. Infine, c'è la politica e lo stretto legame tra AstraZeneca e il "sovranismo vaccinale" rappresentato dalla Brexit. Si è trattato, in ogni caso, di una decisione pericolosa, che avrà ripercussioni potenzialmente pesanti sul farmaco dell'azienda anglo-svedese e sulla campagna vaccinale in generale

Tre giorni di stop forse non possono compromettere una campagna vaccinale. Ma possono compromettere un vaccino. La decisione di sospendere AstraZeneca in via precauzionale, presa da quasi tutti gli Stati Ue con un effetto domino innescato dalla Germania e senza attendere il pronunciamento dell’Ema (che poi, come ampiamente previsto, ha stabilito che si tratta di un vaccino sicuro), da sola non basterà di certo a fermare la poderosa macchina anti-Covid che da un anno vede Stati, enti sovranazionali e imprese provare a collaborare (tra numerosi conflitti e incomprensioni) per sconfiggere la pandemia.

Ma il “danno di fiducia” che dovrà scontare AstraZeneca rischia di ripercuotersi in maniera irrimediabile sull’azienda anglo-svedese, con pesanti conseguenze sulla sua partecipazione al processo di distribuzione dei vaccini in tutto il mondo. Perché con un virus che con ogni probabilità diventerà endemico, la necessità di vaccinare la popolazione anno dopo anno e una pluralità di vaccini prodotti da diverse case farmaceutiche, la guerra al Covid non può che trasformarsi, anche, in una guerra commerciale.

E in questa guerra il vaccino di AstraZeneca, da principio considerato il più controverso dal punto di vista scientifico, il meno efficace sulle varianti, quello più a rischio per alcune fasce di età, ha a questo punto altissime probabilità di soccombere a vantaggio dei principali competitor.

Ecco perché la decisione dei Paesi europei, a cui l’Italia si è accodata, di sospenderne la somministrazione, va analizzata in un quadro non solo scientifico o “sociologico” (le istituzioni irrazionali “contagiate” dal panico generato dai media), ma anche economico e, infine, politico. Perché di “decisione politica” hanno parlato apertamente in tanti: non solo attori attualmente fuori scena, come l’ex direttore dell’Aifa Luca Pani (in questa intervista al direttore di TPI Giulio Gambino) o l’ex direttore dell’Ema Guido Rasi, ma anche chi quella decisione l’ha presa, come l’attuale direttore generale dell’Aifa Nicola Magrini. Una scelta politica, dunque, a cui le autorità regolatorie hanno solo apposto un bollino, avallando il principio della “precauzione totale” che però, ad uno scrutinio più attento dei dati, risulta ingiustificato.

Sospensione ingiustificata: i dati

Partiamo dunque dai dati. In questo articolo del Foglio, è stato fatto un confronto tra i possibili effetti avversi dei diversi vaccini sulla base dei dati forniti da Ema e Ecdc, il centro europeo per la prevenzione e il controllo delle malattie. “Secondo i dati raccolti dall’Ema, aggiornati al 13 marzo scorso, Pfizer è quello che in assoluto ha anche il maggior numero di reazioni avverse (di ogni genere, anche blande): ne sono state segnalate 102.100 in totale, di AstraZeneca 54.571, mentre di Moderna 5.939”.

Quanto ai disturbi vascolari, di cui fa parte la trombosi, la situazione è in questi termini: “Pfizer: 4.820 casi e 74 decessi (57 casi di trombosi, zero decessi); AstraZeneca: 1.656 casi e 11 decessi (10 casi di trombosi, zero decessi); Moderna: 368 casi e 32 decessi (7 casi di trombosi, un decesso)”. Infine, quanto alle segnalazioni di disturbi cardiaci e ai decessi sospetti, “secondo i dati Ema nel caso di AstraZeneca 2.080 casi in numero assoluto sul totale delle dosi somministrate sono ricollegabili a ‘disturbi cardiaci’, con 63 morti sospette. Con Pfizer ci sono state 4.636 sospette reazioni avverse e 276 decessi sospetti e sono stati 501 i casi registrati in seguito all’uso del vaccino Moderna, di cui 96 fatali”.

La lettura dei dati evidenzia quindi come gli eventi avversi verificatisi dopo la somministrazione del vaccino (che è cosa ben diversa, ovviamente, dall’affermare che si siano verificati a causa del vaccino) non presentano differenze significative tra i vari vaccini attualmente autorizzati. Le autopsie finora effettuate, anche in Italia, hanno escluso (o stabilito come fosse impossibile stabilire) una correlazione tra decessi e vaccino.

A questo va aggiunto come nel Regno Unito siano circa 17 milioni le persone vaccinate con AstraZeneca. E, secondo quanto riportato dalla Mhra, l’agenzia regolatrice britannica per i medicinali, “il numero di coaguli di sangue riportati dopo il vaccino non è maggiore del numero che si sarebbe verificato naturalmente nella popolazione vaccinata”.

AstraZeneca, dopo la sospensione della maggior parte dei Paesi Ue, ha chiarito in una nota: “Finora in tutta l’Europa e nel Regno Unito, su un totale di 17 milioni di soggetti vaccinati con il vaccino anti-Covid di AstraZeneca, ci sono stati 15 eventi di trombosi venosa profonda e 22 eventi di embolia polmonare segnalati tra coloro a cui è stato somministrato il vaccino, in base al numero di casi che la Società ha ricevuto all’8 marzo. Il dato è molto più basso di quanto ci si aspetterebbe che si verifichi naturalmente in una popolazione generale di queste dimensioni ed è simile per altri vaccini Covid-19 autorizzati. L’attenta revisione dei dati di oltre 17 milioni di persone vaccinate in Ue e UK con il vaccino Covid-19 AstraZeneca non ha mostrato evidenza di un aumento del rischio di embolia polmonare, trombosi venosa profonda (TVP) o trombocitopenia, in qualsiasi fascia di età, sesso, lotto o in un determinato Paese”.

Del resto, anche l’Ema ha chiarito a più riprese (anche prima del parere rilasciato giovedì 18 marzo che ha permesso la ripresa delle vaccinazioni) che i benefici del vaccino anglo-svedese superano ampiamente i potenziali rischi. L’Aifa, appena 24 ore prima di sospendere il farmaco in via precauzionale, aveva dichiarato che “l’allarme legato alla sicurezza del vaccino AstraZeneca non è giustificato”.

Infine, giovedì 18 marzo, l’Ema ha ribadito che il vaccino AstraZeneca è “efficace e sicuro”. Sebbene per l’agenzia europea per i medicinali, al momento, non sia possibile escludere del tutto una correlazione tra la somministrazione del vaccino e alcuni casi più rari di trombosi (su questo saranno necessari ulteriori studi e approfondimenti), si tratta nel complesso di 25 casi (di cui 9 mortali) su 20 milioni di vaccinati, con un’incidenza quindi di poco più di uno su un milione.

Nel Regno Unito, non solo non si sono registrate problematiche significative quanto agli effetti avversi, ma la vaccinazione (che è avvenuta in maniera prevalente con AstraZeneca) ha permesso di riaprire le scuole e sembra poter prefigurare un lento ma graduale ritorno alla normalità.

L’insieme di questi dati, insomma, mostra in maniera abbastanza chiara come non ci fosse motivo per trattare il vaccino AstraZeneca diversamente dagli altri. Il principio di massima precauzione, insomma, sembra essere stato adottato solo col farmaco dell’azienda anglo-svedese. Ciò porta a pensare che vi fossero fattori non meramente statistici alla base della decisione. Quali, dunque?

Un primo elemento ha probabilmente a che vedere col già citato scetticismo che ha circondato il vaccino di AstraZeneca fin dall’inizio. Al di là dei ritardi della stessa azienda nel fornire ad Ema il dossier per l’approvazione, che ha provocato uno slittamento rispetto ai tempi inizialmente previsti (da ottobre a gennaio), uno degli elementi di scetticismo riguardava la minore efficacia di questo vaccino rispetto a quelli di Pfizer e Moderna. Un’efficacia attestabile, nel caso di AstraZeneca, attorno al 60 per cento.

Come spiegato in maniera dettagliata qui, ciò non implica però che 4 individui su 10 non siano coperti contro l’infezione da Covid: “L’efficacia del vaccino non descrive il suo grado di copertura, cioè quante persone esso immunizzi, ma indica quanto il vaccino fa diminuire il rischio di ammalarsi della malattia in una determinata popolazione in un determinato periodo di tempo”. Da questo punto di vista, l’efficacia del vaccino AstraZeneca può essere considerata ampiamente superiore al 60 per cento.

Oltre a questo, va rilevato come la vaccinazione immunizzi comunque dalle forme gravi della malattia. Chi prende il Covid pur essendosi vaccinato con AstraZeneca, in altre parole, lo prende in forma molto lieve. Anche i dubbi sulla possibilità di somministrare il vaccino agli over 65 sono progressivamente stati superati. I dati forniti dall’azienda all’Ema per l’approvazione mostravano un’efficacia del 94 per cento per tutte le fasce di età. Un dato confermato anche da studi indipendenti, come quello dell’Università di Edimburgo e di Wellington.

Resta certamente vero che il vaccino AstraZeneca ha, nel complesso, alcuni elementi di “debolezza” rispetto agli altri vaccini approvati finora (Moderna, Pfizer e Johnson&Johnson). Ad esempio, secondo uno studio pubblicato dal New England Journal of Medicine, ha un’efficacia di appena il 10 per cento sulla variante sudafricana. L’Ema, lo scorso 15 marzo, ha dichiarato che i vaccini Rna messaggero (Moderna e Pfizer) hanno “un’ottima efficacia contro le nuove varianti del Covid” e che lo stesso si può dire del vaccino Johnson & Johnson. Quanto ad AstraZeneca, “secondo un piccolo studio su duemila casi il vaccino è risultato invece non efficace contro la variante sudafricana”. La stessa Ema ha però chiarito come sia necessario attendere “studi più ampi”. La minore efficacia contro alcune varianti non dovrebbe comunque compromettere l’immunizzazione dalle forme gravi della malattia.

Considerato tutto, in particolare i dati dei paesi come il Regno Unito in cui AstraZeneca è stato già somministrato su larga scala, questo vaccino risulta estremamente efficace nel bloccare l’infezione da Covid, e anche i dubbi sulla sua minore efficacia rispetto agli altri attualmente autorizzati non sembrano giustificare in alcun modo lo stop imposto da quasi tutti i Paesi dell’Ue, Italia compresa.

Una decisione emotiva: il “populismo precauzionista”

Perché allora il vaccino AstraZeneca è stato sospeso? Una tesi piuttosto in voga è di natura potremmo dire sociologica, e chiama in causa la deriva “emotiva” che avrebbe fagocitato le istituzioni politiche in Europa. In mancanza di un’oggettiva base scientifica che giustificasse la sospensione, e senza che vi fosse ancora stato nemmeno il pronunciamento dell’Ema, i governanti sarebbero stati in qualche modo contagiati da un panico generalizzato, senza applicare il giusto “filtro” razionale e nonostante la necessità, nel contesto di una pandemia, che ogni decisione politica venga presa sulla base di dati sanitari certi e con piena consapevolezza delle conseguenze che può innescare.

Mattia Ferraresi, in questo articolo sul Domani, ha chiamato in causa la teoria del “panico morale” del sociologo Stanley Cohen, così articolata: “Nel primo stadio qualcuno o qualcosa viene individuato come una minaccia alla sicurezza o alla pace sociale; nel secondo stadio la minaccia viene semplificata e resa facilmente riconoscibile nel racconto mediatico; nella terza fase si sperimenta una rapidissima crescita della preoccupazione a livello pubblico. Poi arriva il quarto stadio, quello cruciale, perché è il momento in cui le autorità politiche e gli opinion-maker, cioè i massimi detentori di quel bene preziosissimo che è la credibilità, prendono posizione rispetto alla preoccupazione montante. Se questi si oppongono alle ingiustificate ragioni del panico, dice Cohen, la paura viene contenuta e può sgonfiarsi; se invece le incoraggiano, legittimandole, queste producono cambiamenti sociali anche durevoli, ad esempio l’interiorizzazione di un sentimento di paura e avversione verso un vaccino di cui oggi sappiamo con certezza soltanto che è straordinariamente efficace contro il Covid-19”.

Una teoria di questo tipo chiama in causa una sorta di circolo mediatico-istituzionale, in qualche modo legato alle derive “iper-emozionali” dell’informazione digitale, in cui la corsa ai click porta a una semplificazione estrema delle informazioni, a privilegiare allarmismo, paura, notizie sensazionalistiche, con conseguenze che poi si ripercuotono persino sulle decisioni politiche.

Si è ampiamente discusso di come il tema della presunta (e mai dimostrata) correlazione tra decessi e vaccino AstraZeneca sia stato trattato e amplificato in maniera allarmistica dalla stampa italiana. Seguendo questo ragionamento, quindi, le istituzioni politiche sarebbero ormai del tutto prive di “anticorpi” in grado di arginare il panico che può generarsi in questi casi e che i media contribuiscono ad amplificare.

Il vaccino AstraZeneca, come detto, era quello che dall’inizio scontava il maggiore scetticismo e persino infondati pregiudizi. Di conseguenza, le reazioni avverse nei confronti di questo vaccino hanno superato quella soglia di attenzione mediatica che non avevano raggiunto casi analoghi verificatisi per altri vaccini. Le istituzioni politiche, invece di porre un freno a tutto questo e di rassicurare la popolazione sulla base delle evidenze scientifiche, si sarebbero piegate a quello che il sociologo Gérald Bronner ha definito un “populismo precauzionista” basato sull’assurda pretesa del “rischio zero”.

La decisione di Germania, Francia, Italia e degli altri Paesi, secondo questa lettura, sarebbe stata quindi presa “sull’onda dell’emozione”, generando una ingiustificabile cecità rispetto ai dati, nonché una miopia rispetto alle conseguenze che la sospensione temporanea di AstraZeneca si porterà dietro (migliaia di persone che si rifiuteranno comunque di farlo, un potenziale scetticismo che potrebbe estendersi anche agli altri vaccini e rinfocolare posizioni No Vax in grado di rallentare pesantemente la campagna di immunizzazione).

Gli interessi economici: chi ci guadagna dalla sospensione di AstraZeneca

È sufficiente “accontentarsi” di questa spiegazione sociologica, incentrata sull’irrazionalità dei nostri governanti, sul populismo mediatico che fa breccia nelle istituzioni politiche, o la decisione di una sospensione non basata su dati scientifici va spiegata in altro modo? Una tesi che ha iniziato a circolare ha a che fare con gli interessi economici legati alla commercializzazione dei vaccini.

È evidente, come già accennato, che il danno di immagine e di fiducia che sconterà AstraZeneca dopo questo “stop and go” penalizzerà moltissimo l’azienda anglo-svedese rispetto ai suoi competitor. Il giro di affari legato alla distribuzione dei vaccini, nel solo 2021, si attesta tra i 120 e i 150 miliardi di dollari per i gruppi di Big Pharma. Nell’atlante geopolitico dei vaccini, AstraZeneca e Pfizer-Biontech si contendono una buona fetta del mercato europeo.

Qui emerge un primo dato significativo, quello del costo dei vaccini: quello di AstraZeneca è infatti il più economico, perché ha un prezzo di vendita di 2,80 euro a fiala. Con gli altri vaccini i prezzi salgono notevolmente: quello di Johnson&Johnson costa circa 7 euro a fiala, quelli di Pfizer e Moderna hanno invece un prezzo di circa 15 euro a dose. In un quadro di questo genere, è evidente come il vaccino di AstraZeneca risulti il più appetibile per Paesi con scarse risorse economiche, quelli del resto più penalizzati dall’attuale distribuzione dei vaccini stessi. Un danno di immagine e di fiducia per il vaccino anglo-svedese potrebbe quindi comprometterne l’esportazione su larga scala nelle nazioni più povere, favorendo al contempo i vaccini più costosi di aziende che, rispetto ad AstraZeneca, hanno alle spalle multinazionali più forti e influenti.

Come già evidenziato, la distribuzione dei vaccini rappresenterà il principale business dal punto di vista farmaceutico nei prossimi anni. Il direttore di Pfizer Frank D’Amelio, in un recente intervento alla Global Healthcare conference, parlando agli investitori della banca britannica Barclays ha chiarito come una “rivaccinazione annuale” rappresenti uno scenario sempre più probabile: l’azienda, di conseguenza, starebbe valutando anche l’ipotesi della somministrazione di una terza dose. D’Amelio ha spiegato quali sono le opportunità commerciali di un “Covid endemico”, chiarendo come i profitti della compagnia siano già aumentati a dismisura nel corso di quest’anno e di come, a fronte delle maggiori entrate previste, l’obiettivo dell’azienda resti quello di pagare dividendi più alti agli azionisti.

Ovviamente si tratta di una dinamica del tutto normale, che ha a che fare con l’economica di mercato, e non problematica nella misura in cui l’interesse degli azionisti e della compagnia coincide con quello della popolazione mondiale a vaccinarsi e immunizzarsi il prima possibile (e in maniera stabile negli anni a venire). Secondo la tesi “economica” del blocco ad AstraZeneca, tuttavia, sarebbero proprio interessi di natura commerciale, basati sulla necessità di mettere il bastone tra le ruote al vaccino meno costoso di tutti, a spiegare la forzatura che le istituzioni politiche avrebbero messo in atto, scavalcando le autorità regolatorie.

Non c’è chiaramente alcuna evidenza rispetto a questo, e per avallare tale tesi bisognerebbe in sostanza presupporre che i competitor di AstraZeneca abbiano fatto pressioni sulle istituzioni politiche per forzare la sospensione. La tesi “economica” è stata comunque esplicitamente sostenuta anche da esponenti politici, tra cui il leader della Lega Matteo Salvini, che in un’intervista al Messaggero ha dichiarato: “Non vorrei che dietro questi allarmismi possa nascondersi una battaglia economica per sfavorire alcuni vaccini a vantaggio di altri”.

Chiaramente, alla base di questa interpretazione c’è il fatto che l’americana Pfizer ha sviluppato il vaccino assieme alla tedesca BioNTech, e che molti Paesi europei si siano in sostanza accodati alla Germania rispetto alla decisione di sospendere il vaccino AstraZeneca. Nello specifico, la decisione di fermare AstraZeneca è partita dopo che il Paul Ehrlich Institut, l’agenzia tedesca per la sicurezza dei medicinali, ha messo in luce una possibile connessione tra il vaccino anglo-svedese e alcuni casi di trombosi venosa cerebrale (7 su 1,6 milioni di somministrazioni).

Si trattava, a parere dell’ente, di elementi nuovi che avrebbero giustificato l’applicazione del principio di massima precauzione. La decisione del governo di Angela Merkel di procedere in quella direzione ha generato un effetto domino su altri Paesi, tra cui l’Italia. Come dichiarato dallo stesso ministro della Salute Roberto Speranza, infatti, la decisione di sospendere AstraZeneca anche in Italia “è emersa dopo una valutazione dell’istituto tedesco per i vaccini”.

Alla base del processo decisionale c’è stata quindi l’autorevolezza riconosciuta a livello europeo alle istituzioni regolatorie tedesche (interpretazione benevola) e/o l’eccessiva subalternità politica alla Germania da parte, anche, del nostro Paese (interpretazione meno benevola). Quanto deciso dalla Germania, peraltro, non è stato poi privo di conseguenze sul piano politico e diplomatico, tanto che numerose fonti giornalistiche hanno riferito di una “irritazione” del presidente francese Macron nei confronti della cancelliera Merkel. Macron, infatti, avrebbe appreso della decisione tedesca mentre era a colloquio con il premier spagnolo Sanchez, allineandosi (come Italia e Spagna) a una presa di posizione che non era stata preventivamente concordata (sebbene il premier Draghi, nella conferenza stampa di venerdì 19 marzo, abbia invece parlato di un preventivo coordinamento tra i Paesi europei e di una “preoccupazione generale” per il dossier aperto dell’Ema, su cui i Governi si sarebbero confrontati prima delle decisione sulla sospensione).

Due elementi devono essere messi in campo per comprendere meglio le implicazioni economiche della distribuzione dei vaccini, oltre a quello già richiamato sui prezzi delle fiale. Il primo è che l’inevitabile competizione commerciale tra le multinazionali si innesta all’interno di un dibattito sulla necessità di rendere il vaccino un “bene comune”, proprio per favorirne, tra le altre cose, la produzione in loco da parte di Paesi poveri che non hanno le risorse per approvvigionarsi direttamente dalle compagnie farmaceutiche. La questione della proprietà intellettuale e dei brevetti è infatti ampiamente dibattuta.

Secondo un accordo (Trips: Trade Related Intellectual Property Rights) dell’Organizzazione mondiale del commercio, in situazioni di emergenza sanitaria i governi possono permettere ad aziende non detentrici di brevetti di produrre i farmaci, pagando una royalty all’azienda che ne detiene la proprietà intellettuale. Rendere pubblici i brevetti, secondo numerosi politici, medici, esperti di salute pubblica e organizzazioni non governative, faciliterebbe una più equa distribuzione dei vaccini in tutto il pianeta.

Medici Senza Frontiere ha pubblicato un appello a tutti i governi per appoggiare la proposta di India e Sudafrica per la sospensione temporanea dei brevetti: “La proposta di India e Sudafrica – si legge nell’appello di MSF – rappresenterebbe una soluzione agile e globale di cui i governi potrebbero disporre per semplificare alcuni passaggi nella produzione dei vaccini e consentire a più aziende di produrre, senza dipendere esclusivamente dalla volontà delle imprese farmaceutiche di concedere una licenza su base volontaria. […] Gran parte dei paesi ostruzionisti tra cui l’UE, Stati Uniti, Australia, Brasile, Canada, Giappone, Norvegia, Svizzera e Regno Unito, si sono assicurati la maggior parte dei vaccini disponibili, prenotando dosi per un numero superiore rispetto alla loro popolazione”.

È evidente come il tema della proprietà intellettuale risulti particolarmente “sensibile” per le aziende che quei brevetti li detengono. Secondo un’inchiesta di The Intercept, Pfizer avrebbe chiesto al presidente americano Joe Biden di “punire” alcuni Paesi come Cile e Colombia per aver tentato di aumentare la produzione propria di vaccini senza l’autorizzazione delle compagnie farmaceutiche.

Tutto questo serve a chiarire come, inevitabilmente, la corsa per accaparrarsi ampie porzioni del mercato dei vaccini determini un altrettanto inevitabile lavoro di lobbying da parte delle aziende produttrici nei confronti della politica. In questo quadro, come detto, è stata avanzata l’ipotesi che la decisione della Germania, che è poi diventata una decisione europea, possa essere stata influenzata da presunte pressioni della stessa Pfizer-BioNtehc (quest’ultima, come già ricordato, è un’azienda tedesca).

Si tratta, come ovvio, di tesi tutte da dimostrare. Sulla base dei dati, il ragionamento che si può fare è comunque il seguente. Uno stop definitivo ad AstraZeneca avrebbe rappresentato un sicuro danno economico anche per i Paesi europei, per il semplice fatto che tale vaccino, come già evidenziato, è il meno costoso. La Commissione Europea si è impegnata per l’acquisto di 300 milioni di dosi (più altre 100 opzionali) da AstraZeneca, per una spesa di circa 550 milioni di euro. Per l’acquisto dei vaccini Pfizer, la spesa per l’Ue ammonta invece a oltre 4 miliardi (corrispondenti a 300 milioni di dosi, con un’opzione di altri 200 milioni). Anche i costi delle forniture di Moderna e Johnson&Johnson sono ampiamente superiori a quelli di AstraZeneca. Secondo i calcoli fatti da Today in questo articolo, i costi complessivi di uno stop definitivo ad Astrazeneca, che includono quelli per rimpiazzare le dosi non utilizzate con quelle di altri vaccini, erano stimabili per l’Ue attorno ai 2,5 miliardi di euro.

Questo scenario, ovviamente, era però quello estremo (e ormai scongiurato) della sospensione definitiva. Uno “stop and go” genera danni economici certamente inferiori, sebbene il maggiore scetticismo della popolazione rispetto al vaccino AstraZeneca potrebbe comunque rendere necessaria una revisione del piano di forniture (a vantaggio, anche in questo caso, dei concorrenti dell’azienda anglo-svedese, ovvero Pfizer, Moderna e Johnson&Johnson, che vedrebbero aumentare le loro forniture e di conseguenza i loro introiti).

Il vaccino della Brexit? La teoria di uno stop politico su impulso tedesco

Oltre agli interessi economici, c’è chi ha ipotizzato che dietro alla sospensione temporanea del vaccino AstraZeneca possa celarsi una battaglia di tipo politico. Che quella dei governi europei, Germania in primis, sia stata una “decisione politica”, è stato del resto riconosciuto da più parti (compresi, come detto, i vertici dell’Aifa).

Sebbene siano aziende private ad aver prodotto i vaccini, come è noto il tutto è avvenuto nella maggior parte dei casi anche attraverso cospicui finanziamenti pubblici di governi e istituzioni sovranazionali come l’Ue. Inoltre, l’occupazione di porzioni di mercato e il successo di un vaccino rispetto a un altro porta con sé un enorme capitale simbolico e politico che trasforma, anche qui inevitabilmente, la competizione tra i diversi vaccini in una competizione tra superpotenze politiche.

La Russia ha il suo vaccino, lo Sputnik V, e il tentativo di accelerarne la distribuzione anche in Occidente, ad esempio finanziando laboratori e aziende private (come avvenuto anche in Italia) per produrlo in loco (la Russia non ha una capacità produttiva autonoma tale da poter soddisfare le esigenze dei mercati che vorrebbe coprire), risponde ovviamente anche e soprattutto a una logica geopolitica. La stessa cosa può dirsi del vaccino prodotto dalla Cina. Quanto ai Paesi occidentali, ci sono ben tre aziende statunitensi coinvolte nella produzione dei vaccini: Moderna, Johnson&Johnson e Pfizer. Quest’ultima ha sviluppato il proprio vaccino assieme alla tedesca BioNTech.

AstraZeneca, invece, è una multinazionale anglo-svedese e ha realizzato e brevettato il proprio vaccino assieme al Jenner Institute di Oxford, centro di ricerca pubblica inglese, e all’azienda Irbm di Pomezia. Qui c’è la prima circostanza importante da segnalare: è stato proprio il governo britannico di Boris Johnson, infatti, a fare pressioni sul Jenner Institute di Oxford affinché il vaccino fosse prodotto con licenza esclusiva da AstraZeneca, facendo valere un cospicuo finanziamento dello stesso governo britannico (circa 130 milioni di euro) per la ricerca e la sperimentazione sul vaccino.

In altri termini, quello di AstraZeneca è un vaccino su cui, in qualche modo, è stato apposto un “bollino” politico britannico. Questo anche perché l’Unione Europea, che pure ha puntato su AstraZeneca prenotando 300 milioni di dosi quando ancora non vi erano certezze sulla sua successiva approvazione, si è però mossa in ritardo. Boris Johnson, già da aprile-maggio 2020, aveva avviato le trattative per l’acquisto di 100 milioni di dosi di questo vaccino, mentre l’Ue ha mosso i primi passi ad agosto dello scorso anno.

In generale, si può affermare che le istituzioni europee siano andate perlopiù all’inseguimento del Regno Unito: ciò non vale solo per i finanziamenti ad AstraZeneca, ma anche per l’approvazione del vaccino, che nel Regno Unito (fuori dall’Ue e dunque non dipendente dall’Ema) è avvenuta in anticipo rispetto all’Europa. Il rapporto privilegiato con AstraZeneca e la partenza anticipata della campagna vaccinale hanno quindi permesso al Regno Unito di procedere molto più speditamente nella campagna di vaccinazione rispetto ai Paesi Ue.

Al contrario, le relazioni tra AstraZeneca e l’Unione europea si è col tempo fortemente incrinate, in particolare per la questione dei tagli alle consegne dei vaccini. L’azienda anglo-svedese, infatti, ha dapprima annunciato un taglio del 60 per cento delle forniture nel primo semestre del 2020. L’amministratore delegato di AstraZeneca Pascal Soriot, all’epoca, affermò che le catene di produzione per Europa e Regno Unito erano separate, giustificando i ritardi con presunti problemi su un impianto di produzione in Belgio (poi smentiti dalla multinazionale americana Thermo Fisher che gestisce quello stesso impianto). Soriot inoltre aveva dichiarato che il governo di Boris Johnson era stato più rapido a firmare i contratti di fornitura, chiamando in causa la clausola del “best effort” che, in sostanza, svincolava l’azienda da obblighi sulle consegne.L’Ue, per tutta risposta, rese pubblico il contratto con AstraZeneca smentendo Soriot su tutta la linea. AstraZeneca, in seguito, avrebbe comunicato un ulteriore taglio sulle forniture del secondo trimestre, di ben il 50 per cento.

In questo scenario, è stato avanzato anche dalle istituzioni europee e dai governi dei Paesi membri dell’Ue il sospetto che il “braccino corto” di AstraZeneca sulle consegne all’Europa dipendesse dalla volontà di approvvigionare in maniera massiccia proprio il Regno Unito il quale, come visto, sul vaccino aveva messo da principio il proprio “bollino”. Sebbene anche Pfizer abbia avuto alcuni ritardi nelle consegne ai Paesi Ue, i rapporti con la multinazionale americana e l’Europa non si sono mai inaspriti come avvenuto con AstraZeneca.

Il vaccino AstraZeneca si è quindi progressivamente trasformato in un vaccino “britannico” (sebbene abbia ricevuto cospicui finanziamenti anche dagli Stati Uniti dove poi però, per diverse ragioni, non è praticamente stato ancora utilizzato). Tutto questo lo ha trasformato anche in una sorta di simbolo dei possibili vantaggi della Brexit. A fronte della lentezza dell’Ue, infatti, l’autonomia decisionale di Boris Johnson ha permesso al Regno Unito di fare più in fretta (anche, come detto, rispetto all’approvazione del vaccino, col conseguente via libera anticipato alle somministrazioni).

Del resto, le lentezze dell’Ue sono state criticate anche da diversi Paesi membri come Danimarca e Austria, che lo scorso 2 marzo hanno comunicato di non voler più contare solo sulle istituzioni europee e di voler lavorare assieme a Israele per la ricerca e la produzione dei vaccini. Il sovranismo vaccinale, insomma, che in qualche modo la Brexit ha reso possibile per il Regno Unito (e invocato da altri sovranisti di casa nostra, a partire da Salvini), avrebbe messo in imbarazzo diversi Paesi europei a partire dalla Germania, che dell’Ue è la guida dal punto di vista politico ed economico.

In questa situazione, l’unico vaccino in qualche modo configurabile come “anche” europeo rimaneva quello Pfizer-BioNTech. Quest’ultimo è stato finanziato dall’Ue attraverso il contratto di acquisto di 300 milioni di dosi (più altre 200 opzionali). La parte del leone, però, l’ha fatta la Germania, che ha stanziato per questo vaccino (in maniera autonoma rispetto ai finanziamenti europei) ben 445 milioni di dollari. Che la Germania tenga particolarmente al successo di questo vaccino è fuori discussione.

Del resto, numerose polemiche sono sorte anche per le 30 milioni di dosi extra di vaccino Pfizer-BioNTech che la stessa Germania si era assicurata lo scorso dicembre, in aggiunta alle 55,8 milioni di dosi dello stesso vaccino che i tedeschi avrebbero avuto tramite l’accordo stipulato dall’Ue.

La decisione di sospendere in via precauzionale AstraZeneca, come più volte ricordato, è arrivata col decisivo impulso della Germania. Quanto all’Italia, come già evidenziato, l’Aifa non aveva dato alcuna disposizione in tal senso. Né, tantomeno, l’aveva fatto l’autorità regolatoria europea, l’Ema, di fatto scavalcata da una scelta politica della Germania. Perché se è vero, come ha affermato Draghi nella conferenza stampa di venerdì 19 marzo, che c’era un dossier aperto dell’Ema, è anche vero che la stessa Ema aveva affermato a più riprese in quegli stessi giorni che si trattava di analisi portate avanti in via precauzionale, ma che non esisteva nessun problema nell’uso del vaccino AstraZeneca, invitando tutti i Paesi a continuare ad utilizzarlo.

Comunque la si voglia vedere, il processo decisionale che ha generato la sospensione del vaccino AstraZeneca, in questo intreccio tra Governi e autorità sanitarie, è stato perlomeno controverso. Anche perché lo stop di tre giorni ha già fortemente compromesso la fiducia di una parte significativa della popolazione nel vaccino AstraZeneca, e difficilmente la decisione dell’Ema potrà modificare questo stato di cose. Il danno derivante dalla sospensione, insomma, a fronte di un rischio statisticamente irrilevante, assolutamente fisiologico quando si somministra un vaccino e in linea con quello degli altri vaccini attualmente autorizzati, rischia di essere enorme.

Se anche, come più che possibile, la decisione della Germania fosse stata presa per ragioni meramente emotive, assecondare un tale atteggiamento, al confine col “populismo precauzionista” e senza una piena valutazione delle conseguenze, appare una scelta quantomeno discutibile.

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