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La storia della madre che ha ucciso il figlio di 2 anni mostra l’altro vero problema dell’Italia: la superficialità

Immagine di copertina
Il manifesto funebre del piccolo Gabriel davanti casa sua, a Piedimonte San Germano. Credit: TPI

Subito dopo la tragedia di Piedimonte San Germano si è innescata la solita dinamica del post tragedia: la condanna incondizionata del colpevole

A Piedimonte San Germano, 6.470 anime nell’estremo sud della provincia di Frosinone, una madre di 29 anni ha ucciso il figlio di due. L’episodio ha innescato una delle dinamiche più consolidate del post tragedia all’italiana: quella della condanna totale e incondizionata del colpevole, che non ammette punti di vista differenti.

Il processo di banalizzazione dell’evento è in atto e la ghigliottina mediatica è inevitabile. Basterebbe spendere pochi attimi per guardare dentro la vita di quella ragazza, andare oltre quei capelli biondi e quelle braccia conserte, strette attorno al suo dolore di madre traditrice e di donna orribile.

In quanti si sono chiesti perché Donatella sia arrivata a tanto, prima di correre a sentenziare? Eppure basterebbe sapere delle corse in ospedale in preda agli attacchi di panico, del disagio economico in cui versava la sua famiglia, di quello culturale. Basterebbe guardare il posto in cui vive per capire quanta disperazione si nasconde dietro al gesto più terribile che una madre possa compiere.

Donatella ha 29 anni e la vita di tante coetanee che vivono in una provincia come quella di Frosinone. Dimenticata, abbandonata, ignorata. Chissà in quanti si saranno chiesti pure dove si trovasse quel posto, nascosto tra le campagne verdi e l’enorme colata di cemento dello stabilimento FCA (Fiat-Chrysler).

Depressa è quella terra come depressa è Donatella. Perché posti come Piedimonte a ragazze così offrono poco. È il problema della provincia profonda, quello di essere genuina e povera di stimoli insieme.

Crescere qui significa crescere bene finché non ci si accorge delle tante privazioni che, anno dopo anno, si fanno più pesanti. E gli esempi sono tanti.

Il primo cinema è a una quarantina di chilometri più a nord, a Frosinone. L’alternativa è superare la provincia e finire a Formia. Di musei ce ne sono troppo pochi; le librerie scarseggiano, come i teatri.

Le attività ricreative praticamente non esistono. Si inventano, al massimo, e si riducono alla piazza del paese, dove i bambini giocano a pallone e gli adolescenti si ritrovano sul muretto. Tutto arriva sbiadito, in ritardo, in una provincia come quella di Frosinone.

A 18 anni il giro di boa. Ma solo per alcuni. Chi può scappa, va a studiare a Roma o Napoli, qualcuno arriva a Milano e i più lungimiranti scelgono l’estero. Tanti, però, restano. Per qualcuno è una scelta precisa: una vita più tranquilla rispetto alla città e l’idea che quello che manca non serva – o si ottenga in altro modo.

Tanti altri però restano perché costretti a restare. E restare significa adattarsi. E restare spesso significa subire quel posto, che diventa una gabbia. E la sensazione di claustrofobia non si stacca dalla pelle.

Restare, a volte, significa scivolare nella trappola delle droghe – e per chi non lo sapesse, Frosinone è una delle province in cui si spacciano e consumano più stupefacenti. Restare significa, sì, anche cadere in depressione.

Il lavoro è poco e quello che c’è si modella sulle esigenze dei piccoli comuni e – per fortuna, diranno in tanti – dello stabilimento FCA, che con il suo indotto dà il pane a tante famiglie.

Si resta, a volte, perché l’alternativa non c’è e spesso nemmeno se ne avverte il bisogno, inghiottiti come si è nella consapevolezza che la vita sia quella e basta.

Quello che è successo a Donatella è figlio anche di tutto questo, di una terra che soffre e arranca. È figlio di un disagio invisibile a chi guarda da lontano quello che è successo a Piedimonte; un disagio tangibile per chi là ci vive o ci ha vissuto. Quel disagio si sente sotto la pelle e intorpidisce le ossa per quanto è forte.

Donatella stava male e probabilmente per ragioni che vanno oltre il luogo in cui vive, ma l’emarginazione, l’indifferenza, la superficialità in cui è stata abbandonata e condannata hanno pesato  tanto in questo dramma. Donatella ha ucciso suo figlio, ma quegli occhi nascondono una storia fatta di grida d’aiuto inascoltate e assenze istituzionali, di malessere e fragilità. Di madre, di donna.

Che ci piaccia o no, siamo tutti un po’ responsabili della condizione di quella ragazza. Lo siamo quando ci giriamo dall’altra parte e ignoriamo la depressione di una 29enne e quella di una provincia, di una periferia della periferia, di un posto che è lo specchio di tante realtà sparse per l’Italia.

Il problema di questo paese è la superficialità. Quella di chi punta il dito e giudica e sotto la superficie dell’acqua non guarda mai. Là sotto, però, c’è un pozzo profondo di solitudine e disperazione. Donatella, donna e madre, ha forse conosciuto il conforto di tanti che le stavano attorno, e oggi conosce la spietatezza di chi la condanna senza guardare in quel pozzo, la crudeltà di chi si riduce a colpevolizzare, a banalizzare, a ridurre una tragedia a una sentenza.

Donatella diventa il capro espiatorio di un paese che non vuole guardare dentro alle sue piaghe, che sceglie la strada facile del giudizio. Che mente a se stesso e sotto al tappeto nasconde la polvere dell’approssimazione.

La storia di Donatella è legata a doppio filo a quella della terra che l’ha partorita. Una terra ricca di storia e di bellezza, che si spegne sotto i colpi sordi dell’indifferenza. La stessa in cui è stata lasciata Donatella, a covare il suo dolore.

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