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Le donne che ci salvano dal virus, le donne che facciamo a pezzi: l’Italia del 2020 (di G. Gambino)

Immagine di copertina
Illustrazione Emanuele Fucecchi

Mentre nelle ultime 48 ore venivano barbaramente uccise quattro donne, due ricercatrici del sud isolavano il Coronavirus: uno spaccato di questa Italia 2020

Spesso releghiamo la Ricerca e la Formazione agli ultimi posti nell’elenco delle priorità dei nostri investimenti. Eppure, oggi, la Ricerca e la Formazione hanno fatto sì che l’Italia fosse tra i primi paesi al mondo a isolare il Coronavirus, secondo quanto ha affermato il ministro della Salute Roberto Speranza.

S&D

Un’equipe di 15 ricercatori – composta da 14 donne (!) e 1 uomo – ha lavorato incessantemente a quella che l’Oms ha dichiarato un’emergenza sanitaria globale. E che finora ha causato oltre 300 vittime e più di 14mila contagi. Primo morto al di fuori della Cina proprio in queste ore nelle Filippine.

Un’epidemia senza precedenti. Peggiore della Sars per diffusione e percentuale di contagi. Il caso Coronavirus scoppiato a Wuhan in Cina (non senza una certa connivenza del governo cinese, come abbiamo scritto) ha fatto sì che si diffondessero presto nel mondo panico, psicosi e boom di mascherine.

Contemporaneamente è caccia a ogni essere umano che abbia vagamente gli occhi a mandorla, tenuto preventivamente alla larga perché feccia del mondo da cui provengono tutte le epidemie (qui un approfondimento sulla psicosi in Italia).

Casi di contagio che spuntano come funghi un po’ ovunque nel mondo, anche in Italia. Da dove però domenica 2 febbraio 2020 – giorno palindromo – giungono finalmente notizie rassicuranti in coincidenza del rientro degli italiani bloccati in una Wuhan sotto quarantena: l’ospedale specialistico Spallanzani dichiara che il virus è stato isolato (qui abbiamo spiegato cosa vuol dire nel dettaglio, e perché è importante).

A compiere il miracolo due donne: Francesca Colavita e Concetta Castilletti (qui un loro profilo). Ricercatrici. Scienziate. Del Sud. Subito soprannominate Angeli della Ricerca e definite orgoglio dell’Università italiana.

Ma nelle stesse ore in cui due donne compivano un passo importante nella lotta al virus riempiendoci di orgoglio e finendo sulle prime pagine di tutto il mondo, in Italia, contemporaneamente, avveniva anche l’esatto opposto: il corpo femminile fatto carne da macello, ancora donne barbaramente uccise in un’ennesima serie di femminicidi. Quattro in 12 ore.

È la denigrazione della donna ritenuta inferiore, l’abbrutimento dell’uomo e la disgregazione della civiltà come barlume di speranza per la parità di genere. Il problema è culturale in entrambi i casi: il successo delle donne che isolano il virus e la barbarie delle donne uccise con violenza.

Culturale perché se non capiamo che dobbiamo investire nella ricerca e nella formazione non andremo mai da nessuna parte, e in tal senso il neo ministro dell’Università Gaetano Manfredi dovrebbe dare un segnale importante. Migliaia di dottorandi pagati troppo poco e abbandonati a se stessi. Che non ci interessa più cosa studino e che cosa ricerchino; basta che siano parcheggiati da qualche parte.

E intanto però invecchiano oppure fuggono altrove, lì dove sono considerate risorse, mentre da noi carta straccia. Invece dobbiamo ricordarci che proprio oggi due ricercatrici hanno fatto la differenza. Ci hanno “salvato”. Anziché pensare allo zero virgola dell’Europa dovremmo investire molto di più su Ricerca e Sviluppo, e rimettere al centro i 30enni che svolgono Ricerca per il bene di tutti noi.

Il problema è anche culturale per quel che riguarda i femminicidi: fin quando circoscriveremo il problema della violenza sulle donne a un pur sempre limitato numero di uomini che “sono l’eccezione” non risolveremo mai il tema di fondo, che è insito nella testa e nella formazione di ciascun ‘maschio’, la cui percezione di una ’femmina’ è strutturalmente di essere inferiore.

Mentre oggi il genere femminile viene sempre considerato un “passo indietro” o “di fianco”. Concezione ultra-virile dettata perlopiù da una insicurezza intrinseca del genere maschile.

Liberiamoci da questi schemi e portiamo avanti il progresso: sì alla parità dei sessi, di nome e di fatto, non con le quote rosa o nelle sciocchezze “dell’uomo che deve essere uomo e la donna che deve fare la donna”, ma in un’uguaglianza reale e formale, da sempre, sin da scuola, dalla educazione dei bambini; e torniamo a credere nello sviluppo della Ricerca e nella formazione: non farlo potrebbe significare dovercene pentire amaramente in futuro. E oggi non avremmo Francesca e Concetta.

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