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Perché Salvini è il migliore a comunicare e come fare per sconfiggerlo

Immagine di copertina
Matteo Salvini, vicepremier e ministro dell'Interno. Credit: Afp/Christian Minelli/NurPhoto

Dietro al successo del leader della Lega c'è la sua straordinaria capacità di essere sempre e comunque se stesso: un brand che funziona per coerenza estetica e ideologica. Per batterlo non servono politici, ma creativi che portino un messaggio abbastanza credibile e autenticamente pop

Alzate le mani. Ma qualcuno crede davvero che la polemica a distanza col procuratore capo Spataro possa, anche solo incidentalmente, scalfire il consenso di Matteo Salvini? Davvero pensate che la vergognosa lista di proscrizione con cui ha lanciato la grande giornata sovranista dell’8 dicembre possa guastare la luna di miele tra Salvini e la pancia di dieci milioni di italiani?

Semmai, è vero il contrario: mentre Di Maio cercava goffamente di nascondersi dietro il fax di papà, ieri non s’è parlato praticamente d’altro che di Salvini. Bene? Male? È indifferente.

Anzi, per uno strano paradosso della comunicazione noto anche come “campo gravitazionale dell’attenzione” (non perdete tempo a googolare, l’ho inventato adesso), più Salvini viene attaccato, più la sua immagine pubblica si rafforza. Per 24 ore il ‘capitano’ è stato letteralmente l’argomento trending topic di giornata.

Chi dubitava delle sue doti di raffinato statista non aveva certo bisogno di un cinguettio alle 8 del mattino su un’operazione di polizia ancora in corso per averne conferma. Così come non sarà, ahinoi, un titolo di “Repubblica” o un post di Saviano a convincere il salvinista medio che la nostra sicurezza è nelle mani di un capo ultrà in felpa (qui Chi è Luca Morisi, il “social-megafono” di Salvini e come funziona la “bestia”, l’implacabile propaganda leghista).

Ogni volta che il nome di Salvini viene pronunciato in tv o digitato sui social, la massa critica aumenta, potenziandone esponenzialmente il messaggio, qualunque esso sia e per quanto eversivo possa apparire.

Salvini gode di una “intoccabilità” quasi assoluta che ha pochi precedenti nella storia recente. Una sorta di immunità di gregge mediatica: oltre una certa soglia di sparate – diciamo il 95 per cento – è al riparo da qualsiasi rischio di contagio.

È come se la narrazione di Salvini e quella di chi lo contesta viaggiassero su due orizzonti spazio-temporali differenti, senza che l’una abbia la minima influenza sull’altra.

Un tale stato di grazia si spiega solo in un modo: la straordinaria, quasi ossessiva, capacità di essere sempre e comunque se stesso. Salvini è Salvini sempre, allo stadio come in Parlamento, in tv, sui social, alla sagra della focaccetta, in mezzo agli operai o agli imprenditori. Ogni minuto della sua giornata è un estratto concentrato di puro salvinismo.

Il brand funziona proprio in virtù della sua coerenza estetica e ideologica, così sempre e testardamente uguale a se stesso da diventare paradigma. Quello che dice o scrive Salvini è esattamente quello che i suoi seguaci vogliono sentirsi dire. Non tradisce mai, non è programmato per farlo. Ha un gusto e un sapore sempre identico, familiare, riconoscibile, proprio come la pasta Barilla e il sugo Star che, non a caso, il “nostro” cita nei post come esempio di made in Italy (qui abbiamo parlato della sua gaffe sulla pasta).

E, con una semplice Instagram story, riesce dove, prima di lui, ha fallito Berlusconi con un impero delle telecomunicazioni al seguito: entrare nell’immaginario nazional-popolare dell’italiano medio, come la pasta al sugo.

Nell’epoca del “buon senso”, può capitare così che una delle campagne di comunicazione più aggressive, violente e a tratti razziste degli ultimi settant’anni venga percepita, piuttosto, come schietta, rassicurante. Alla portata di tutti.

Se ci pensate, è l’esatto contrario di quello che accade ai 5 Stelle: ciò che vale oggi, può non valere l’indomani mattina, e tornare magicamente vero la sera dopo, in uno sclerotico, utopistico, compromesso tra il consenso da costruire e le promesse da mantenere.

Salvini non ha questo problema perché non fa promesse, crea aspettative. Di più: vende un’idea di mondo. Come qualunque divisione marketing di un’azienda, crea un immaginario comune e condiviso, attorno a cui costruire la propaganda. A quel punto convertire le parole in leggi e atti concreti diventa un particolare trascurabile, quasi secondario.

Finché Salvini farà il Salvini, possiamo anche sederci in panchina e aspettare. Oppure possiamo anche noi – noi società civile, noi che non ci arrendiamo al “cattivismo” imperante – provare a cambiare paradigma.

E siamo al punto. Come si sconfigge Salvini e il salvinismo? Non certo sul terreno dei valori. O meglio, non coi nostri valori. E neppure sfidandolo laddove, a prima vista, avrebbe più senso fare: sul terreno della razionalità, dell’economia, dei parametri, del “ce lo chiede l’Europa”.

Salvini non lo sconfiggi mettendone in luce il fascismo, il razzismo, l’irresponsabilità, gli scivoloni mediatici, ma costruendo un vocabolario alternativo. Che ci crediate o meno, non abbiamo bisogno di politici, ma di creativi.

L’unica cosa che Salvini davvero teme è l’avvento di un messaggio abbastanza credibile e autenticamente pop da oscurare il proprio. Una narrazione che torni a raccontare chi siamo, da dove veniamo, dove vogliamo andare. Che torni a dare speranza. Tra speranza e paura, le persone sceglieranno sempre la speranza. Solo che sono troppo spaventate per saperlo.

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