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“Quella contro la Legge 23 della Regione Lombardia è una battaglia nazionale”

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Credit photo: elaborazione su foto Ansa

Intervista a Angelo Barbato, Presidente nazionale del Forum per il Diritto alla Salute: "Serve una riforma radicale, per impedire che l'impostazione di base della Lombardia venga estesa alle altre Regioni. Non bastano correttivi superficiali. E nemmeno cambiare l'assessore al Welfare"

La battaglia contro la Legge 23 della Regione Lombardia, che va in scadenza a fine anno, è una questione nazionale. Ne è fermamente convinto Angelo Barbato, Presidente nazionale del Forum per il Diritto alla Salute, che sul tema ha organizzato un incontro con i rappresentanti di tutte le forze di centrosinistra e del settore sociosanitario.

Un panel veramente di elevato livello: per il PD ci saranno l’europarlamentare Pierfrancesco Majorino, da tempo schierato sul tema, e il consigliere regionale Samuele Astuti (capogruppo in Commissione Sanità), per Rifondazione Comunista Giovanna Capelli, per Sinistra Italiana Onorio Rosati, per il Movimento 5 Stelle il consigliere lombardo Marco Fumagalli, per Medicina Democratica Vittorio Agnoletto, per CGIL-CISL-UIL Pensionati Lombardia Emilio Didonè, per ANAOO Assomed Lombardia Stefano Magnoni, per l’Ordine degli Infermieri di Brescia Stefania Pace e, a introdurre il dibattito, Lucilla Tedeschi, coordinatrice lombarda (con Sergio Marsicano) del Forum per il Diritto alla Salute.

L’incontro, in programma venerdì 4 dicembre dalle 21.00, potrà essere seguito in diretta streaming sul canale YouTube e sulla pagina Facebook della Casa della Cultura, la storica istituzione milanese che ospita l’evento. Ma, appunto, la questione va ben oltre i confini cittadini e regionali, come spiega Angelo Barbato a TPI: “La Lombardia fin dai tempi di Formigoni si è discostata in maniera notevole dall’impianto complessivo della Legge nazionale 833, sul Servizio Sanitario Nazionale. Nel 2015 la Legge 23, voluta da Maroni, ha accentuato questa tendenza, tant’è che già allora essa suscitò alcune riserve in seno al Governo Renzi. Quindi l’allora ministra della Salute Lorenzin contrattò con Maroni il fatto che la Lombardia introducesse questa Legge solo in forma sperimentale, prevedendo la sua verifica dopo cinque anni. Il termine ora è scaduto e bisogna discuterne approfonditamente, perché allora si disse che se i cambiamenti introdotti fossero risultati positivi, li si sarebbe proposti come modello anche per il resto d’Italia. Ma non è proprio questo il caso e la vicenda del Covid-19 ce lo ha dimostrato in maniera molto evidente”.

Quali erano le perplessità manifestate già allora?

“I punti erano molteplici e non riguardavano solo il ministero della Salute, ma anche quello dell’Economia e la P.A. in genere. Per questo c’erano dubbi rispetto alla sua coerenza con la Legge-quadro nazionale. Era chiaramente una legge innovativa, ma non si capiva se in senso positivo o negativo. Quindi il protocollo di sperimentazione era aperto a due possibilità: se non funziona, la cambiamo, ma se funziona la proponiamo anche alle altre Regioni. Ecco perché oggi la questione è decisiva: al di là di modifiche parziali che tutti vogliono fare (nessuno si spinge ad affermare che così funzioni), se non vengono cambiati i principi fondamentali, questi diventano un modello. Rifare la sanità lombarda è quindi una partita di respiro nazionale. Le scelte compiute dal centrodestra che governa la Lombardia da 25 anni hanno differenziato molto il servizio sanitario regionale rispetto al resto d’Italia. Esse si basano su un’architettura molto elaborata, fondata su principi ideologici molto precisi, che rendono difficile pensare a modifiche solo parziali. La Legge 23 va cambiata in modo radicale”

Quali sono i problemi legati a questa legge?

“Innanzitutto l’istituzione di due soggetti, le ATS e le ASST, dotati di autonomia gestionale, amministrativa e operativa. Il secondo punto riguarda l’equiparazione tra pubblico e privato, regolato solamente dai meccanismi di mercato. Secondo questo approccio, il servizio sanitario non ha un approccio complessivo al tema della salute, ma si basa su un insieme di soggetti che erogano prestazioni. Pubblico e privato vengono messi sullo stesso piano (con dei meccanismi che alla fine favoriscono quest’ultimo) e competono tra loro per attrarre il cittadino. Prestazioni che non è detto che siano le più utili, in quanto sono quelle che sul mercato sono più richieste e quindi remunerative. La debolezza di questa architettura è stata dimostrata al cospetto con l’emergenza sanitaria nella quale siamo tuttora immersi. La frammentazione dei servizi, in assenza di uno sguardo complessivo di tipo epidemiologico, rappresenta un evidente problema”

Prima accennava a un sottotesto ideologico dal quale deriva il sistema lombardo: in che cosa consiste?

“I suoi punti cardine sono la libertà del cittadino di scegliere tra vari soggetti erogatori di prestazioni e la separazione tra le funzioni di programmazione, acquisto e controllo, affidate a soggetti diversi. E’ un regime di ‘quasi-mercato’, nel quale la Regione fissa delle regole, ma senza un piano sociosanitario che definisca i bisogni. I produttori forniscono le prestazioni, con un sistema di accreditamento molto ampio, e questo ha portato a una competizione basata sulle tariffe, nella quale si sono sviluppate quelle più remunerative. La Lombardia è a un livello molto superiore a quello di diversi Paesi europei, ad esempio sui macchinari diagnostici (come TAC e risonanza magnetica). Inoltre ha più posti in cardiochirurgia rispetto all’intera Francia. Si vanta di importare utenti su alcune specialità, il che è vero, però poi fatica ad erogare altri servizi a beneficio dei suoi cittadini! L’impostazione ideologica di cui sopra crea competizione anche tra servizi pubblici, i quali però non hanno la responsabilità di tutelare la salute del rispettivo territorio”

In che senso?

“Facciamo un esempio. Negli scorsi anni, l’unificazione tra gli ospedali San Carlo e San Paolo di Milano è stata molto discussa, perché prescindeva dalle esigenze specifiche dei territori coinvolti. All’epoca ci venne riferito che qualcuno avrebbe detto che l’obiettivo degli ospedali doveva essere ‘perseguire l’eccellenza e non occuparsi di cose banali, come le polmoniti dei vecchietti’. E stiamo parlando di una popolazione in costante invecchiamento! La logica di mercato, applicata alla sanità, fa sì che le polmoniti dei vecchietti non siano considerate importanti, in quanto non richiedono alta tecnologia su cui investire. La logica del budget è fondata sul rapporto tra entrate e uscite e non sulla produzione di salute, se legata a prestazioni di bassa redditività”

Mi faccia capire: quali sono le prestazioni che producono salute, ma bassa redditività?

“Beh, tutta l’attività di prevenzione, educazione sanitaria, modifica degli stili di vita e sanità ambientale. Prenda ad esempio il tracciamento, del quale oggi si parla molto: è una tipica attività preventiva e non a caso la Lombardia sta avendo delle difficoltà enormi nel farla. È semplice dal punto di vista tecnologico e non richiede risorse umane altamente specializzate, ma proprio per questo è stata trascurata. Lo stesso vale per le vaccinazioni antinfluenzali: le difficoltà della Lombardia derivano dalla mancanza di un sistema articolato e diffuso di impostazione di questo tipo di attività. Ecco perché le persone si affollano negli ospedali, nonostante la riduzione dei posti: è l’ambito prediletto di rapporto con gli utenti, cosa che crea enormi problemi. In Lombardia c’è un elevato tasso di accesso ai pronto soccorso, anche per quelle patologie che potrebbero essere curate sul territorio con interventi a bassa intensità tecnologica e strutturale. Ad esempio per le broncopatie cronico-ostruttive (le famose ‘polmoniti dei vecchietti’) e le patologie respiratorie dell’età pediatrica. L’ospedalizzazione di queste patologie è considerata un indicatore di inefficienza del sistema territoriale. In Lombardia c’è il tasso di assistenza domiciliare agli anziani più basso di tutta l’Italia del centro-nord: non a caso imperversano le RSA, con il 95% dei posti nel settore privato. Un altro aspetto del problema è che i Comuni non hanno alcun ruolo in questo sistema, mentre invece sarebbe molto opportuno coinvolgerli, ad esempio nella questione dei Covid-hotel”

Mi pare che questo spieghi il bene il paradosso della Lombardia: giustamente diciamo di rappresentare un’eccellenza su alcuni aspetti della sanità, ma poi ci troviamo con problemi non indifferenti su altri aspetti. Sbaglio?

“E’ proprio così. Nessuno nega il fatto che la Lombardia sia un’eccellenza su alcune specialità, sia nel pubblico che nel privato. Quello che viene sacrificato è l’impatto sulla salute di alcune specialità che non sono complesse dal punto di vista tecnologico, ma che richiedono molte risorse umane. La Lombardia ha pochi medici e pochi infermieri. Alcuni ospedali accreditati non hanno il pronto soccorso, perché è un’attività di emergenza e non programmabile. Il sistema privato è rigido, in quanto si basa su contratti con la Regione che prevedono un certo numero di interventi all’anno. Quando ci sono necessità diverse, spesso si dirottano i pazienti sul servizio pubblico. O, se servono prestazioni diverse, vanno cambiati i contratti. Pensiamo a quello che è successo nei primi mesi della pandemia: pochi ospedali privati hanno posti letto per le malattie infettive. O, per fare un altro esempio, in Lombardia ci sono molti posti per malati acuti e pochi di terapia intensiva. Queste contraddizioni sono a monte rispetto agli evidenti errori che indubbiamente si sono verificati nella gestione del Covid-19”

Cosa vi aspettate dal dibattito che avete organizzato?

“Intendiamo chiedere a tutti gli interlocutori di prendere una posizione chiara sulla verifica della Legge 23, un passaggio che peraltro il centrodestra vorrebbe evitare, introducendo delle modifiche parziali per poter sostenere che non c’è più materia di discussione. La loro posizione è che l’impianto complessivo della Legge 23 sia corretto, seppure con delle carenze applicative che vanno corrette. Ormai non c’è più nessuno che sostenga che tutto va bene. Ad esempio, persino alcuni dirigenti delle ATS ammettono che tali strutture non stanno funzionando. Ci sono proposte di revisione anche interessanti, ma che non vanno in fondo sull’impostazione generale. Noi invece riteniamo che, ad esempio, la delibera sui malati cronici sia stata disastrosa. Ma nessuno nel centrodestra la mette in discussione”

Il centrodestra, come emerso nei giorni scorsi, sta lavorando a un progetto di riforma parziale degli assetti sanitari. Qual è la vostra posizione?

“Innanzitutto bisogna evitare che si riesca ad eludere la verifica della Legge 23 attraverso dei cambiamenti superficiali. Noi invece vogliamo che se ne discuta, sia in Regione che a livello nazionale, e che ognuno si prenda le sue responsabilità assumendo una posizione chiara nel merito. Chi pensa che la Legge 23 vada bene e basti cambiarne qualche comma, lo dica. Noi invece pensiamo che vada bocciata. Questa è la base di partenza. Poi, una volta bocciata, bisognerà discutere di come riformare la sanità lombarda”

Ma non c’è proprio nulla da salvare, tra le novità introdotte dalla Legge 23?

“No, ci sono tanti aspetti specifici che si possono salvare. Per esempio, i presidi sociosanitari territoriali e le degenze di comunità sono senza dubbio una cosa importante. Noi pensiamo che dovrebbero essere inquadrate nel modello delle ‘Case della Salute’, ma sono elementi interessanti. Il problema è che sono cose rimaste perlopiù sulla carta: i presidi sociosanitari territoriali in Lombardia dovrebbero essere almeno 150, mentre sono circa una quarantina. Non sono stati finanziati e collegati a una riorganizzazione dei medici di base. Oppure il piano sui cronici, che noi avversiamo: è una risposta sbagliata a un problema che però è reale. C’è poi il problema del medico di medicina generale, che non è coordinato con il territorio e quindi è poco efficace. Questo va oltre le competenze della Regione Lombardia, ma a maggior ragione ribadisco che la discussione sulla Legge 23 non è un problema locale, bensì nazionale!”

La Legge 23 è stata voluta da Maroni, che secondo Formigoni è responsabile dei problemi della sanità lombarda: siete d’accordo con lui?

“E’ chiaro che c’è uno scontro interno al centrodestra. Formigoni non apprezza una serie di cambiamenti introdotti dalla Legge 23 per sopperire a una serie di criticità che già esistevano. Nella sua visione, bastano le leggi del mercato e un grande potere dei privati per regolare il sistema. Rimprovera a Maroni di aver trascurato la medicina territoriale – e su questo ha ragione – ma già il suo modello era carente su questo aspetto. I problemi vengono da lontano. La Lombardia è la Regione italiana con il più alto livello di spesa sanitaria privata, ovvero a carico del cittadino, mentre la spesa pubblica è inferiore alla media nazionale. Questo si spiega anche con il problema delle liste di attesa molto lunghe (la cui responsabilità è in parte anche dello Stato): il privato diventa competitivo e l’utente preferisce pagare. E’ complicato dire che un sistema di questo tipo possa essere sistemato con dei piccoli aggiustamenti e non con una riforma radicale”

A proposito di scontri interni al centrodestra, si continua a parlare di un possibile rimpasto nella Giunta lombarda, che coinvolgerebbe anche l’assessorato al Welfare: secondo lei servirebbe per migliorare la situazione?

“Con tutte le critiche che si possono fare a Gallera, non è questo il problema. Mandare via lui non basterebbe. Bisogna mettere mano alle vere criticità, a partire dallo sbilanciamento del sistema in favore dei privati”

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