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Home » Esteri

Qatar: il piccolo grande mediatore al centro della diplomazia globale

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Ospita la dirigenza di Hamas, finanzia l’amministrazione di Gaza e negozia con Israele, che però non ha mai riconosciuto. Ma non è la prima volta: dal Corno d’Africa, all'Afghanistan, all'Iran fino all'Ucraina, Doha è diventata una superpotenza diplomatica. Non certo per interesse della pace nel mondo

Quando il 23 luglio scorso partecipò all’inaugurazione di una tre giorni di esercitazioni per il recupero degli ostaggi organizzata a Doha dalla Qatar International Academy for Security Studies (Qiass), probabilmente l’inviato presidenziale Usa Roger Carstens non immaginava che meno di tre mesi dopo avrebbe dovuto occuparsi in prima persona della liberazione di una decina di cittadini israeliani con passaporto statunitense sequestrati da Hamas.

Dal 7 ottobre scorso il diplomatico è in prima linea nelle trattative per il rilascio degli oltre 200 rapiti e il mediatore principale è proprio l’emirato che, oltre a essere uno dei principali alleati di Washington nella regione, ospita nella propria capitale il gruppo dirigente del gruppo terroristico al potere a Gaza ed è anche il maggior finanziatore dell’amministrazione della striscia. Piccolo il mondo, o forse no.

D’altronde, intervenendo al seminario del Qiass, l’ambasciatore degli Stati Uniti in Qatar Timmy Davis si disse «lieto» della scelta dell’emirato come primo Paese ospitante per una simile esercitazione bilaterale con gli Usa, motivando tale decisione con «il ruolo pionieristico e la partecipazione positiva» di Doha «nell’affrontare la questione degli ostaggi in Medio Oriente e Africa». Negli ultimi quindici anni infatti il Paese è diventato una vera e propria superpotenza diplomatica.

Una tela fittissima
Dal 2007, con alterne fortune, il piccolo Stato arabo è intervenuto in molte mediazioni di alto profilo in Yemen, Libano, Eritrea, Sudan, Libia, Siria, Afghanistan, Ciad, Iran e persino in Ucraina.

Sedici anni fa, l’allora emiro del Qatar Sheikh Hamad bin-Khalifa Al-Thani riuscì a negoziare un cessate il fuoco tra il governo yemenita e i ribelli houthi, ponendo temporaneamente fine alla cosiddetta “quarta guerra di Saada”. Nel 2008, l’emirato scongiurò una guerra civile in Libano mediando un accordo per la nomina di un nuovo presidente, l’organizzazione delle elezioni parlamentari nel 2009 e il dialogo tra le istituzioni di Beirut e Hezbollah.

Due anni dopo, Doha trattò una tregua tra Gibuti ed Eritrea, impegnandosi per la liberazione dei prigionieri di guerra e inviando persino le proprie truppe (ritirate poi nel 2017) per monitorarne l’attuazione. Quindi l’anno successivo ottenne un’intesa tra le parti in conflitto nella regione del Darfur, in Sudan.

Intanto, il Paese provò a riconciliare Hamas e Fatah in Palestina, mentre nel 2012 l’allora emiro Sheikh Hamad bin Khalifa Al Thani, fu il primo capo di stato a visitare Gaza dall’ascesa al potere del gruppo terroristico palestinese.

Nel 2015 il ministero degli Esteri qatarino, primo sostenitore del governo internazionalmente riconosciuto di Tripoli, mise intorno a un tavolo le tribù Tebu e Tuareg, arrivando a una riconciliazione in Libia meridionale che ebbe ricadute positive anche nei vicini Algeria e Niger. Quello stesso anno, una decina di membri della famiglia reale fu sequestrata durante una battuta di caccia in Iraq e tenuta in ostaggio da un gruppo fondamentalista in Siria. La mediazione, attraverso la milizia filo-iraniana Kata’eb Hezbollah, costò a Doha il pagamento di quasi un miliardo di dollari a favore degli attori regionali controllati da Teheran e oltre tre anni di crisi diplomatica con Arabia Saudita, Bahrein, Egitto ed Emirati Arabi Uniti, acerrimi nemici della Repubblica degli Ayatollah. Una disputa risolta soltanto tre anni fa ma che non impedì al Qatar di intervenire in altre controversie internazionali. Proprio nel 2020 infatti, l’emirato ospitò i colloqui di pace tra gli Stati Uniti e i talebani che portarono prima a un cessate il fuoco e poi al (disastroso) ritiro degli Usa dall’Afghanistan. L’anno scorso poi mediò la pace tra i gruppi armati che si contendevano il controllo del regime militare al potere in Ciad.

Ma non è finita: negli ultimi mesi Doha ha raggiunto un accordo con la Russia per restituire alle proprie famiglie quattro bambini ucraini deportati durante l’aggressione di Mosca a Kiev. Inoltre l’emirato ha aiutato Washington, rappresentata da Carstens e dall’inviato speciale ad interim Abram Paley, a rimpatriare cinque cittadini statunitensi e due loro familiari detenuti nelle carceri dell’Iran.

Nelle scorse settimane invece, ha contribuito a mediare il rilascio di quattro ostaggi israeliani imprigionati a Gaza e, in collaborazione con Usa, Egitto e Israele, ha negoziato l’apertura della frontiera con il Sinai per gli stranieri rimasti intrappolati nella striscia. Una rete di relazioni che mette il Qatar al centro di una tela diplomatica fittissima, rendendo il piccolo Paese mediorientale un valido aiuto per risolvere le crisi internazionali nell’area, soprattutto quando c’è di mezzo Hamas.

Un piede in due scarpe
A poche decine di chilometri dalla base aerea di Al Udeid, che ospita qualche migliaio di truppe statunitensi, la capitale dell’emirato dà infatti asilo al gruppo dirigente dell’organizzazione terroristica palestinese, al potere nella striscia di Gaza dal 2007. L’ufficio politico di Hamas a Doha è stato aperto poco più di dieci anni fa, dopo lo scoppio della guerra civile in Siria e il “divorzio” tra il gruppo palestinese e Damasco e la fuga dall’Egitto a seguito del golpe militare di Abdel Fatah al-Sisi. Da allora è stato spesso utilizzato per stabilire un contatto indiretto con il gruppo terroristico, persino da Israele.

Ma il ruolo giocato dall’emirato a Gaza non si limita alla diplomazia. Il principale appoggio finanziario alla striscia arriva proprio da Doha, che nel 2018 ha negoziato con Tel Aviv la possibilità di inviare pagamenti diretti nel territorio costiero palestinese per acquistare carburante per la centrale elettrica locale, pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici e fornire aiuti a decine di migliaia di famiglie povere. Non esistono statistiche ufficiali ma, secondo indiscrezioni di stampa, l’esborso totale dei qatarini negli ultimi dieci anni avrebbe superato gli 1,4 miliardi di dollari ed è in crescita. Nel 2020 Doha avrebbe versato 240 milioni di dollari a questo scopo, una cifra aumentata nel 2021 a 360 milioni. Si tratta sempre, almeno ufficialmente, di pagamenti a favore di nuclei familiari o per progetti di sviluppo infrastrutturale e non di finanziamenti diretti a Hamas, che ne beneficia indirettamente.

Tutto questo però ha anche permesso all’emirato di mediare una serie di accordi di cessate il fuoco tra Israele e il gruppo terroristico palestinese nel 2014, nel 2021 e nel 2022. Per così dire, Doha mantiene infatti un piede in due scarpe. Malgrado il rifiuto di aderire agli Accordi di Abramo sponsorizzati dagli Usa per la normalizzazione dei rapporti con Israele, la ricca monarchia araba ha a lungo mantenuto relazioni sottobanco con lo Stato ebraico. Tanto che, a fine ottobre, il direttore del Mossad David Barnea si è recato proprio in Qatar per discutere delle trattative in corso per la liberazione degli ostaggi israeliani. L’emirato, ha scritto sui social il capo del Consiglio per la Sicurezza Nazionale di Israele Tzachi Hanegbi, è ormai «una parte e un attore essenziale nella facilitazione delle soluzioni umanitarie». Non male per un Paese che non riconosce l’esistenza dello Stato ebraico e che, all’indomani dei brutali attentati di Hamas, indicò Israele come il vero responsabile delle atrocità perpetrate contro i suoi cittadini.

Sportwashing & Soft power
Insomma, nonostante i ripetuti appelli negli Stati Uniti, in Israele e nei Paesi del Golfo per premere sul Qatar affinché espella Hamas e rompa i suoi legami con l’organizzazione, Doha è riuscita a trasformare un potenziale tallone d’Achille in un altro dei suoi punti di forza.

L’emirato è uno dei principali Paesi del mondo per riserve di gas naturale, condivide un mega-giacimento con l’Iran, è in cima alla classifica degli esportatori di Gnl, tra i primi fornitori dell’Europa dopo le sanzioni alla Russia e il suo fondo sovrano Qatar Investment Authority (Qia) supera i 450 miliardi di dollari. Ma la sua ricchezza non è il solo fattore che ne spiega l’influenza nel mondo. I vertici del Paese infatti puntano da anni sul soft power: a partire dallo sport, come mostra il successo dei Mondiali di calcio Fifa ospitati l’anno scorso dall’emirato.

Malgrado le denunce sulle condizioni di lavoro disumane per la costruzione delle infrastrutture necessarie, mai zittite nemmeno dagli insufficienti progressi legislativi approvati dal governo qatarino, la manifestazione calcistica è stata storica. In primis perché è stata la prima Coppa del Mondo disputata in Medio Oriente, la prima giocata in un Paese a maggioranza musulmana e la terza più partecipata, con oltre 3,4 milioni di tifosi e più di 1,4 milioni di telespettatori. L’evento è costato quasi metà delle risorse attualmente gestite dal fondo sovrano nazionale ma è soltanto l’inizio.

Quest’anno anche la Formula 1 è tornata in Qatar dopo il primo Gran Premio del 2021. In più il Paese arabo ha ospitato i campionati mondiali di judo, mentre l’anno prossimo organizzerà quelli di nuoto e nel 2025 di tennis tavolo. Inoltre, dopo aver perso la corsa per i Giochi del 2032, che si terranno in Australia, nel prossimo decennio l’emirato è intenzionato a ospitare anche le Olimpiadi. D’altra parte, Doha punta a registrare oltre 6 milioni di turisti stranieri ogni anno entro il 2030, diversificando la propria economia, tuttora ancorata allo sfruttamento degli idrocarburi.

Non c’è solo lo sport però. Il Paese ospita e finanzia la più seguita emittente televisiva del mondo arabo, al-Jazeera. Fondata nel 1996 assumendo un centinaio di giornalisti di lingua araba formati dalla Bbc, la tv può contare su decine di uffici e redazioni in almeno 50 Paesi. Sebbene copra raramente le questioni più delicate all’interno del regno, dove la libertà di stampa non è generalmente rispettata, la sua indipendenza rafforza l’immagine dell’emirato nel mondo, permettendo a Doha di allargare la propria influenza e i propri affari globali. Anche nel nostro continente.

I tentacoli sull’Europa
Il vero strumento di potere dell’emirato, controllato dalla famiglia reale al-Thani, è la Qatar Investment Authority, fondata nel 2005. A sua volta, il fondo possiede diverse controllate, tra cui Qatar Holding, Qatar Sports Investment, Katara hospitality, Kasada Capital, Qatari Diar, Qatar Foundation, Mayhoola e QInvest.

La prima destinazione dei suoi investimenti – superiori a 40 miliardi di dollari (circa 37 miliardi di euro) – è il Regno Unito dove, solo a Londra, Doha possiede un vero e proprio impero immobiliare, comprese partecipazioni di varia entità nel Ritz Hotel, nei grandi magazzini Harrod’s, nel centro finanziario di Canary Wharf e nel grattacielo Shard. A queste si aggiungono le quote in Barclays Bank, nei supermercati Sainsbury, nella Royal Dutch Shell, nell’aeroporto di Heathrow, nella British Airways e persino nella Borsa di Londra.

Il secondo Paese dove investe di più, oltre 25 miliardi di euro, è invece la Francia, dove la Qatar Investment Authority possiede il club calcistico del Paris Saint-Germain, ma non solo. A Parigi, l’emirato ha acquistato immobili di lusso e partecipazioni in almeno 42 imprese, comprese società come Louis Vuitton Moet Hennessy (Lvmh), Balmain, Valentino, Le Printemps, Total Energies, Airbus, Accor e beIN Sports. Secondo uno studio pubblicato a giugno dal business center franco-qatarino Qadran e dalla società di consulenza HEC Junior Conseil, in Francia Doha ha investito oltre sette miliardi nel settore immobiliare e altre attività finanziarie, più di quattro miliardi nel commercio al dettaglio, oltre tre nei trasporti e nel turismo e più di due nel campo delle telecomunicazioni e dei media.

Al terzo posto c’è poi la Germania, dove la Qia ha investito quasi 25 miliardi di euro, mettendo le mani sui gioielli tedeschi. Qui, l’emirato controlla infatti l’11 per cento di Volkswagen, il 6 per cento di Deutsche Bank e il 5 per cento in Porsche, a cui vanno aggiunte altre partecipazioni nel colosso marittimo Hapag-Lloyd e nell’azienda energetica Rwe.

A seguire troviamo la Turchia, forse il maggior alleato di Doha, i cui investimenti nel Paese hanno superato i 20 miliardi di dollari, con partecipazioni in oltre 200 aziende locali. Qui l’emirato ha investito soprattutto nel settore bancario: la sua QNB Finansbank è l’istituto di credito a maggiore capitalizzazione del Paese, mentre dal 2016 la Commercial Bank of Qatar controlla la ABank turca. La Qia ha però investito anche nei media: sette anni fa il gruppo beIN ha acquisito l’emittente satellitare Digiturk, allora il principale operatore di pay-tv in Turchia. 

Nemmeno l’Italia è esclusa. Soltanto nel settore immobiliare, attraverso le sue controllate, la Qatar Investment Authority ha acquistato circa 5 miliardi di euro di immobili nel nostro Paese. A tutto questo vanno poi aggiunti i quasi 4,7 miliardi di euro di investimenti annunciati dal Qatar in Spagna e l’operazione di lobbying e corruzione (che Doha nega fermamente) al Parlamento europeo.

Un vero e proprio impero, fondato su diplomazia, energia e soft power, di un Paese con una popolazione quasi pari a quella di Roma e un’estensione inferiore al Trentino-Alto Adige, che cerca di mediare in più conflitti e non certo per interesse della pace.

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