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Esclusivo TPI – Mondiali Insanguinati: ecco le condizioni disumane di lavoro degli operai che hanno costruito gli stadi in Qatar

Immagine di copertina
Credit: Valerio Nicolosi/TPI

Valerio Nicolosi è uno dei pochi fotoreporter italiani ad aver avuto accesso ai cantieri degli stadi per i Mondiali in corso nell'Emirato. A febbraio è arrivato a Doha per documentare le condizioni degli operai. Ecco cosa ha scoperto

Sfruttati, sottopagati e al lavoro sotto il sole cocente. Valerio Nicolosi è entrato in Qatar nel febbraio di quest’anno. È uno dei pochi fotoreporter italiani ad aver avuto accesso ai cantieri degli stadi per i Mondiali, dove per il Sindacato internazionale dei lavoratori dell’edilizia e del legno (Building & Wood Workers’ International, Bwi) ha documentato le condizioni degli operai.

«Sono arrivato a Doha allo Stadio Nazionale di Lusail, dove si giocherà la finale, a impianto praticamente ultimato: allora c’era ancora il cantiere per gli ultimi ritocchi ma nonostante tutto ci lavoravano quasi un migliaio di persone», ricorda. Ma nei momenti “più caldi”, le cifre erano ben più alte: «Negli anni scorsi, solo in quest’impianto il numero di operai superava i 4.000, divisi in tre turni di lavoro 24 ore su 24». Da allora molto è cambiato, almeno a livello legislativo, ma tante cose sono rimaste le stesse.

Quando il fotografo ha visitato la città, a 8 mesi dall’inizio della Coppa del Mondo FIFA, le autorità dell’Emirato avevano già attuato le riforme indicate dall’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo) dopo gli scandali legati alle condizioni disumane a cui erano sottoposti i lavoratori. Praticamente tutti stranieri. In Qatar, come sottolinea il fotoreporter, vivono oltre 2 milioni di persone ma meno di 200mila sono cittadini, il resto arriva dall’estero. «Tutta la manodopera, dall’edilizia, alla ristorazione, agli hotel fino ai collaboratori domestici, è formata da migranti», aggiunge. In gran parte sfruttati. «A febbraio, anche grazie alle pressioni del Bwi, erano stati fatti grandi passi avanti sui diritti, ma le condizioni nei cantieri restavano comunque misere».

«L’istituto giuridico della Kafala, in vigore in tutta la penisola araba, è stato abolito perché legalizzava un rapporto di schiavitù tra dipendente e datore di lavoro», ci spiega. «Ma, come certificato da varie ong, poco è cambiato». Persino l’Ilo ammette che molti migranti incontrano ancora diversi ostacoli nel cambiare lavoro: i “padroni” possono ad esempio denunciarli per essersi resi “irreperibili”. In Qatar, abbandonare il posto di lavoro senza permesso, seppure per sfuggire a condizioni di sfruttamento, è un reato.

«È un contesto di ricatto totale: visto che non sono cittadini hanno solo un documento provvisorio rilasciato agli stranieri, che può essere revocato in qualsiasi momento, quindi possono essere rimandati a casa da un giorno all’altro», afferma Nicolosi. «Inoltre, un padrone può anche decidere di non pagare il lavoratore». Anche per mesi, come denuncia l’Ilo. Tanto è vero che dal 2019, Doha ha dovuto erogare 320 milioni di dollari di risarcimenti ai migranti sfruttati, che difficilmente possono far valere i propri diritti. «Ogni forma di aggregazione politica o sindacale è vietata», rimarca il fotografo.

Non basta nemmeno il salario minimo legale fissato nel 2021 a 1.000 riyal, circa 268 euro al mese. Poco per un Paese come il Qatar dove, come ricorda Nicolosi, «un panino e una bevanda in un normale pub possono costare anche 50 euro». Prezzi proibitivi per chi arriva a Doha già carico di debiti. «Come certifica anche Human Rights Watch, le organizzazioni dedite al traffico di esseri umani si fanno pagare da chi vuole raggiungere il Paese per lavoro», ci spiega. Questa pratica è stata messa fuori legge nell’Emirato, eppure le famiglie d’origine continuano a essere taglieggiate.

«Ho parlato con tante persone di provenienza diversa e tutti mi hanno raccontato la stessa storia: al di là delle condizioni la maggior parte è interessata solo a lavorare per riuscire a sfamare i parenti». Al costo di gravi privazioni. «C’è chi è disposto anche a rischiare la vita, come i nepalesi, che a causa del caldo a cui non sono abituati sono a forte rischio di patologie cardiovascolari», prosegue. Secondo uno studio del 2019, ben 200 dei 571 decessi causati da queste malattie nella comunità nepalese e registrati in Qatar tra il 2009 e il 2017 avrebbero potuto essere evitati.

Anche per questo, insieme all’Ilo, l’Emirato ha vietato di lavorare negli impianti nelle ore più calde, tra le 10:00 del mattino e le 15:30 del pomeriggio. «La regola però vale solo d’estate, precisamente dal 1 giugno al 15 settembre», ci spiega Nicolosi. «A febbraio si lavorava anche a mezzogiorno e faceva davvero caldo, tanto è vero che il Mondiale si gioca in stadi dotati di aria condizionata». A novembre e dicembre.

«Allora, in pieno inverno, gli operai lavoravano sotto il sole cocente completamente coperti per non scottarsi. Immagina cosa ha voluto dire farlo alle quattro del pomeriggio d’estate». Nessuno sa davvero quanti siano morti per costruire questi impianti. Le cifre ufficiali parlano di soli tre decessi. Eppure, l’Ilo ha scoperto che solo nel 2020 ci sono stati 50 morti sul lavoro, 506 infortuni gravi e 37mila feriti nell’Emirato. Un Mondiale a dir poco insanguinato.

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