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Home » Economia

L’Europa si prepara alla guerra entro il 2030: ecco cosa prevede la nuova Roadmap per la difesa Ue

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Un nuovo piano presentato oggi dalla Commissione europea e che TPI ha visionato in anteprima concede cinque anni ai Paesi membri dell’Ue per elaborare una strategia di difesa comune e prepararsi a un conflitto

L’Unione europea deve prepararsi alla guerra entro cinque anni e stavolta non si tratta di una semplice, seppur preoccupante, dichiarazione di intenti. Obiettivi, progetti concreti, tempistiche e fonti di finanziamento sono stati già individuati dalla “Defence Readiness Roadmap 2030”, un piano commissionato a giugno dal Consiglio dei capi di Stato e di governo dell’Ue e presentato oggi dall’Alto rappresentante per la politica estera Kaja Kallas, dal vicepresidente esecutivo della Commissione per la sovranità tecnologica, la sicurezza e la democrazia Henna Virkkunen e dal Commissario alla Difesa Andrius Kubilius, che TPI ha potuto visionare in anteprima.
In sintesi, entro il 2030, i Paesi dell’Ue dovranno colmare tutte le lacune negli investimenti nel militare; ovviare alle carenze di capacità bellica in campo aereo, terrestre, marittimo, informatico e spaziale; costituire sistemi di difesa integrati a livello comunitario; rafforzare la relativa base industriale, aumentando la produzione e l’innovazione nel settore; investire in progetti chiave per proteggere la frontiera orientale, le reti infrastrutturali e di comunicazione e la catena di approvvigionamento degli Stati membri; e garantire la sostenibilità finanziaria dell’iniziativa, mobilitando finanziamenti a lungo termine. Il tutto approfondendo il coordinamento con la Nato e integrando l’Ucraina nelle strutture di sicurezza dell’Ue.
“Entro il 2030, l’Europa avrà bisogno di una strategia di difesa sufficientemente forte da scoraggiare in modo credibile i suoi avversari e rispondere a eventuali aggressioni”, si legge nel documento. Un percorso già tracciato dai funzionari dell’Ue con una vera e propria tabella di marcia che mira a costruire una deterrenza credibile, ad appoggiare Kiev nella difesa dall’aggressione della Russia e a riuscire a sostenere operazioni su larga scala senza dipendere esclusivamente dagli Stati Uniti.

Nemici dichiarati
Il piano si apre con una valutazione precisa del contesto che circonda l’Europa, definito un “ambiente di minacce in crescita”, motivo per cui Bruxelles dovrebbe “dotarsi di una capacità strategica interoperabile indipendente (…) in grado di rispondere in tempo reale a qualsiasi minaccia all’integrità territoriale e alla sovranità” dei Paesi membri dell’Unione e non solo.
Già perché il documento identifica chiaramente il nemico: Mosca, ovviamente, la cui aggressione all’Ucraina non è affatto vissuta come una crisi passeggera. “Una Russia militarizzata rappresenta una minaccia persistente per la sicurezza europea nel prossimo futuro”, si legge nella Roadmap, secondo cui il Cremlino rappresenta un avversario a lungo termine per l’Ue. Tanto che l’Ucraina non solo viene esplicitamente definita la “prima linea di difesa europea” ma la sua ricostruzione e il suo riarmo vengono inseriti nel futuro piano di sicurezza a lungo termine dell’Unione. Ma il documento sottolinea anche la necessità di un “approccio a 360°” alla difesa, che include anche minacce provenienti dal Nord Africa, dall’Asia occidentale e dall’Asia-Pacifico, non escludendo quindi né la Cina né l’Iran. Se infatti, da una parte, questa Roadmap conferma l’ambizione dell’Ue di raggiungere un’autonomia strategica, ovvero la capacità di agire in modo indipendente dalla protezione degli Stati Uniti (ammesso che sia un obiettivo realistico), dall’altra ribadisce ripetutamente che la Nato resta un “pilastro indispensabile” della difesa europea. Senza risolvere la dipendenza da Washington e provando addirittura ad aggiungerne un’altra da Bruxelles, che poi sempre alla Casa bianca dovrà rispondere, almeno in termini militari.

Obiettivi, progetti e tempistiche
Ma qual è il percorso tracciato? Il piano per il 2030 ruota attorno a una nuova architettura che punta innanzitutto sul coordinamento necessario per colmare le lacune più urgenti in materia di difesa. L’obiettivo a lungo termine è costruire linee di produzione europee collettive che possano sostituire i frammentati appalti nazionali. Le aree prioritarie sono una decina: “Difesa aerea e missilistica, Abilitatori strategici, Mobilità militare, Sistemi di artiglieria, Cybersicurezza, Intelligenza artificiale, Guerra elettronica, Missili e munizioni, Droni e sistemi anti-drone, Combattimento terrestre, Difesa marittima”. Questa parte del piano, da realizzare attraverso un coordinamento con l’Agenzia europea per la Difesa (EDA) e lo Stato maggiore dell’Ue (EUMS) che risulti coerente con gli obiettivi della Nato, dovrà risultare operativa al più presto. Entro il primo trimestre del prossimo anno infatti sono attese le prime iniziative concrete da avviare alla metà del 2026 e da ultimare entro il 2030.
I primi tre progetti di punta però sono già stati identificati e costituiranno il fondamento del nuovo assetto della difesa comune europea: il cosiddetto “Eastern Flank Watch”, o muro anti-droni, una  rete stratificata di sorveglianza e difesa lungo il confine orientale dell’Unione che integri radar, sistemi d’arma e per l’intercettazione di aerei, missili e altre minacce; lo “European Air and Missile Defence Shield (EAMDS), il cosiddetto scudo anti-missile, un sistema multistrato per la difesa dei cieli che sia capace di integrarsi con l’attuale quadro Nato; e lo “European Defence Space Shield (DSS)”, uno scudo spaziale progettato per proteggere i satelliti e le infrastrutture di comunicazione da interferenze, attacchi informatici e altre minacce. Queste iniziative, tutte da riconoscere come “Progetti di Difesa Europei di Interesse Comune (EDPCI)” assicurandone il prioritario finanziamento, dovranno entrare in funzione il prima possibile: lo scudo missilistico e quello spaziale addirittura entro la fine dell’anno prossimo mentre il cosiddetto muro anti-droni, secondo la Roadmap, dovrebbe essere operativo entro il 2028.

Affari d’oro
Questo sforzo però, nelle intenzioni del nuovo piano, sarà soprattutto industriale ed economico. L’obiettivo infatti, come si legge nel documento, è “fornire le capacità di cui gli Stati membri hanno bisogno (…) e ridurre i tempi di consegna per i materiali di difesa critici”. Come? Investendo nella base industriale della difesa europea oltre mille miliardi di euro.
Nei prossimi dieci anni infatti il solo ReArm Europe mobiliterà 800 miliardi in nuovi investimenti bellici, a cui andranno ad aggiungersi altri 150 miliardi attraverso lo strumento SAFE e i 131 miliardi destinati alla difesa e allo spazio dal prossimo bilancio comunitario 2028-2034. Non solo: tutti gli Stati membri vengono anche esortati a raggiungere un livello minimo pari al 3,5% del Pil per la spesa militare entro il 2035, il che si tradurrebbe quasi in un raddoppio del bilancio militare complessivo dei Paesi membri, visto che la media attuale supera appena l’1,9%, assicurando altri 288 miliardi di euro all’anno al comparto bellico in tutta l’Unione.
Ma, secondo la Commissione, i vantaggi superano i costi: nuovi posti di lavoro, sinergie nella ricerca e maggiore competitività per il settore della difesa europeo promuoveranno la crescita. Grazie ad armi che prima o poi rischiamo di dover usare mentre gli Stati membri sono già sottoposti a forti pressioni dal punto di vista fiscale.

Sostenibilità politica e finanziaria
I costi politici e finanziari promettono infatti impegni significativi. Sebbene la Roadmap assicuri il rispetto della sovranità nazionale, il piano rischia di non convincere del tutto le capitali tradizionalmente più scettiche in materia di integrazione militare europea come Parigi, Varsavia e Budapest, da sempre timorose di cedere il controllo della politica di difesa a Bruxelles. “Gli Stati membri sono e rimarranno sovrani per la loro difesa nazionale”, si legge nel documento, secondo cui però “è essenziale agire insieme, piuttosto che frammentare gli sforzi in iniziative nazionali non coordinate”. Una formulazione di compromesso ma, come sempre, il diavolo si nasconde nei dettagli. Meccanismi comuni di appalto, pianificazione industriale condivisa e bilancio per la difesa integrato nel prossimo Quadro Finanziario Pluriennale sono i primi passi per la costruzione di una vera e propria Unione della Difesa, che finora non ha mai ricevuto l’avallo unanime dei Paesi membri.
L’altra fonte di divergenze riguarda poi il ruolo dell’Ucraina, la cui integrazione nella tabella di marcia per la difesa comune è non solo esplicita ma di vasta portata. Kiev infatti parteciperà all’annunciata alleanza con l’Ue per proteggere il fianco est dalle incursioni di droni, prevista nel 2026 e finanziata interamente da Bruxelles; avrà accesso a un programma specifico che garantirà agli ucraini l’accesso a tecnologie belliche avanzate; le sue aziende saranno incluse nella Base Tecnologica e Industriale di Difesa Europea (EDTIB); e godrà anche di un ulteriore prestito finanziato dai proventi generati dai beni russi confiscati nell’Ue. Di fatto, Bruxelles ha inserito la modernizzazione militare dell’Ucraina nel proprio piano di riarmo, integrando il Paese nell’ecosistema di difesa comune molto prima della sua adesione formale. Un punto che non piacerà a molte capitali, soprattutto nell’est Europa.
Ma chi pagherà? Un’altra sfida incombente riguarda infatti la sostenibilità fiscale del piano. Aumentare il bilancio per la difesa al 3,5% del Pil significa impegnare centinaia di miliardi di euro in nuove spese annue, che andranno necessariamente a competere con altre priorità, soprattutto sociali e climatiche. Pertanto, come riconosce anche il documento, “è fondamentale che questo aumento della spesa abbia ripercussioni anche in termini di occupazione, innovazione e competitività in Europa”. Tradotto: senza benefici economici visibili, la reazione politica negativa sarà inevitabile e l’iniziativa risulterà ingiustificabile per i vari governi davanti alle rispettive opinioni pubbliche. Ma il successo dell’iniziativa dipenderà soprattutto dai fondi impiegati, dalla coesione politica e dai tempi di realizzazione dei progetti e non sembra avere molta disponibilità in nessuno dei tre campi.

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