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Funivia Mottarone, il drammatico racconto del primo soccorritore: “C’era un giovane che respirava ancora e sotto di lui un bambino con gli occhi chiusi”

Immagine di copertina

Tragedia della funivia Mottarone, il racconto del primo soccorritore

“Una scena terribile”: è il drammatico racconto del primo soccorritore accorso sul luogo della tragedia della funivia precipitata sul Mottarone.

In un’intervista a Il Corriere della Sera, Cristiano L’Altrella, caposquadra del distaccamento dei Vigili del Fuoco di Stresa, racconta i terribili momenti subito dopo l’incidente.

Primo ad arrivare sul luogo del disastro insieme ad altri due colleghi, L’Altrella racconta di aver trovato “un campo di battaglia” con “corpi di ragazzi, di uomini e di donne sparsi sul pendio della montagna”.

“Eravamo saliti in vetta, fino alla stazione capolinea della funivia, dove queste persone non sono mai arrivate. E da lì siamo scesi seguendo la linea dei cavi – racconta il soccorritore – Sotto c’è una fascia disboscata, come sotto tutte le funivie. Un pendio ripidissimo, sarà dell’80%. Scivolavamo giù anche noi. Fino a che 3-400 metri sotto abbiamo visto la cabina rossa accartocciata, era rotolata giù e si era fermata addosso a un pino, trenta metri più in là dell’ultimo pilone. Prima di arrivare abbiamo trovato due corpi, due uomini. Erano stati sbalzati fuori e non respiravano più. Siamo quindi andati a soccorrere quelli della cabina”.

La cabina, racconta il vigile del fuoco, “era aperta su un fianco, una fessura però molto stretta. Io che sono magro mi sono infilato dentro a fatica. Abbiamo chiesto subito di tagliare le lamiere perché se c’era qualcuno da portar fuori bisognava creare lo spazio per far passare le barelle”.

All’interno “c’erano cinque persone, ammassate l’una sull’altra. Uno solo respirava, quello che stava sopra agli altri. Abbiamo cercato in tutti i modi di salvarlo. Era incosciente ma i segnali di vita c’erano ancora. Gli abbiamo messo la maschera dell’ossigeno, ambu, massaggio cardiaco. È il protocollo di primo soccorso. Ma niente, non ce l’ha fatta. Il bambino era sotto di lui. Gli occhi chiusi, come tutti. Non riesco a descrivere quello che ho visto, troppo, troppo forte. Senza considerare il rischio che si correva in quel momento”.

Il timore dei soccorritori, infatti, era “che la cabina precipitasse ancora più giù, perché la pendenza era notevole. Abbiamo così cercato di metterla in sicurezza legandola all’albero con una corda. Fuori, c’era tutto il resto. Bisognava capire come stavano gli altri. Non sapevamo quanta gente ci fosse nella funivia. Ho fatto un calcolo approssimativo: so che queste cabine hanno una capienza di 40 posti, ridotta della metà per il Covid. Quindi potevano esserci una ventina di persone a bordo. Ne mancavano più di dieci all’appello, secondo i nostri calcoli”.

I corpi “erano sparsi, sotto il livello della cabina, fino a una distanza di venti trenta metri. Catapultati fuori dall’abitacolo, scivolati giù, uno qui, uno lì. Immobili. Siamo andati a vederli uno per uno, sperando in qualche segnale di vita. Quattro donne e un uomo, il padre del bambino. Tutti spirati. Poi abbiamo cercato ancora perché non avevamo certezze sui numeri. Con noi anche gli uomini del Soccorso alpino e un’infermiera, un medico. E quelli dell’elisoccorso che andavano avanti e indietro. Due bambini erano stati portati via. Dopo che il medico ha constatato i decessi, ci siamo preoccupati di coprire tutti i corpi con le coperte di stagnola”.

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