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TPI a bordo di Open Arms, la capo missione si racconta: “Non sono un’eroina, faccio quello che so fare”

Immagine di copertina
Anabel a bordo Credit: Valerio Nicolosi

Open Arms, reporter di TPI bordo: giorno 22, la storia di Anabel

Open Arms, giorno 22 a bordo. La vita in nave sembra essere quella dentro una bolla dove le priorità sono diverse e le notizie, e le polemiche, non arrivano o hanno un peso minimo rispetto a come le si vivono in terra. Ieri però la scena è stata più kafkiana che altro: si avvicina Anabel Montes, la capo missione di Open Arms e mi dice: “Mio padre mi ha mandato il link di un quotidiano italiano, pare che abbiano chiesto il rinvio a giudizio per me e Marc per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Tu ne sai qualcosa? Perché a noi non è arrivato niente, nemmeno agli avvocati”.

No, non ne so nulla ma è uscita un’agenzia che lo dice e “Il Giornale” la riprende, lo stesso che la mattina parla di Carola Rackete come “estremista umanitaria”. Una non notizia, nel senso che la ONG, i suoi avvocati e i protagonisti Anabel Montes e Marc Reig, non sanno nulla.

Abbiamo appena finito un’esercitazione in mare e approfitto per parlare proprio con Anabel, le mi dico che mi piacerebbe raccontare la sua storia e soprattutto quanto è difficile restare una persona normale e semplice come lei ma essere trattata, ogni giorno, come un’eroina e come una criminale.

“A me non piace per niente che mi trattino come un’eroina o che trattino le persone che sono qua come eroi. Siamo persone che hanno fatto una scelta nella propria vita e hanno messo a disposizione quello che sapevano fare. Se parliamo di noi dimentichiamo chi aiutiamo, chi non ha potuto scegliere ed è dovuto scappare, noi siamo qui per loro e sono loro le persone da raccontare”, sottolinea Anabel.

Anabel
Credit: Valerio Nicolosi

Gli occhi azzurri, in tinta con i suoi capelli, sono decisi. Ti guarda diretta e ti trasmette sicurezza e decisione, però Anabel non perde mai la sensibilità, la gentilezza e il sorriso. “Quando ero piccolina – mi dice guardando l’orizzonte – mi dovevano tenere perché volevo stare sempre in acqua. A 6 anni ero in una squadra di nuoto, ne ho fatto parte per 11 anni. A 16 ho fatto il primo corso di soccorso in acqua a 18 ho iniziato a fare la bagnina, lavoro che mi piaceva molto. Appena potevo prendevo altri brevetti per il soccorso, tutti sempre relazionati all’acqua”.

Anabel, come tanti soccorritori e soccorritrici, ha iniziato a fare la volontaria nell’isola di Lesbo, davanti alle coste turche. Una sorta di incubatrice per il mondo umanitario che si è sviluppato attorno al soccorso in mare. “Mi ricordo che eravamo appena arrivati, avevamo parcheggiato la macchina. Ero con il nuovo gruppo di soccorritori che dal giorno seguente avrebbe dato il cambio alle persone che in quel momento stavano iniziando un soccorso.

Andò tutto bene, stavano bene di salute ma in quel momento ho realizzato che quelle persone avevano tutta la loro vita in uno zaino bagnato mentre io avevo appena preso due aerei senza problemi, avevo un letto pronto e una cena calda che mi aspettava. Fu uno schiaffo forte, pieno di realtà. La vita che avevo vissuto da privilegiata era solo una delle tante possibili al mondo”.

Sembra passata una vita da quei momenti, dall’inizio di quella che successivamente è stata chiamata Rotta Balcanica e che ha le isole greche come punto di approdo in Europa. Da quando Anabel e gli altri hanno iniziato a fare i volontari, è cambiato il mondo o almeno la percezione che questo ha delle persone che salvano il mare.

La capo missione mi racconta dell’evoluzione di Open Arms: “All’inizio delle missioni nel Mediterraneo Centrale la Guardia Costiera italiana coordinava tutti, ONG, navi militari italiane, Frontex, le navi della NATO e anche quelle commerciali. Non eravamo comunque sufficienti ma almeno ogni giorno potevamo salvare tante persone. Ad un certo punto, quando hanno iniziato a diffamarci, sono stati fatti molti danni. Quelli che lo hanno fatto non vogliono che le persone vengano salvate e non vogliono occhi indipendenti possano raccontare quello che avviene qua”.

L’equipaggio
Credit: Valerio Nicolosi

Poi continua: “Oggi fare soccorso in mare vuol dire cercare un ago in un pagliaio e non perché non ci sia più la necessità di partire dalla Libia, ma perché hanno finanziato e armato la sedicente Guardia Costiera di Tripoli che intercetta e riporta le persone nel luogo dal quale stanno scappando”.

Navtex, Immersat, comunicazioni radio e telefoniche erano gli strumenti che venivano utilizzati per comunicazioni marittime, ad oggi sono sempre meno. I primi due sono sistemi di messaggistica che le Guardie Costiere nazionali inviano a tutte le navi per comunicazioni di diverso tipo, tra cui quelle di pericolo imminente per le altre imbarcazioni.

“Distress” è il termine tecnico per dire che c’è un’imbarcazione in pericolo e che tutte le navi sono obbligate a dirigersi verso il luogo e dare aiuto. Da più di un anno questi messaggi non vengono quasi più inviati, soprattutto se sono imbarcazioni partite dalla Libia. Roma e La Valletta comunicano direttamente con Tripoli e per la nostra Guardia Costiera è ancora più facile visto che nel paese nord africano sono presenti navi militari italiane a supporto delle milizie autoproclamatesi Guardia Costiera.

Il soccorso in mare è diventato un fatto politico ma ad Anabel non piace: “Considero quello che faccio un aiuto necessario in un momento specifico. Quando avrò bisogno, in mare come in terra, spero che qualcuno mi tenda un braccio. Credo però che se non hai mai voluto aiutare nessuno non puoi chiedere aiuto. Di questo sono fortemente convinta”.

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