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Più che alcol e droga a uccidere i nostri ragazzi oggi è il vuoto della società

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Siamo sempre al solito punto, con dotti editoriali di condanna o di assoluzione, lunghe analisi sui giovani senza valori, un interrogarsi stantio e fuori luogo su vittime e colpevoli di un dramma che, a parer mio, vede solo vittime sul proscenio. Il commento di Roberto Bertoni

Incidente Roma, a uccidere i nostri ragazzi oggi è il vuoto della società

Il punto è che, se proprio vogliamo trovare un colpevole, nella tragedia involontaria di Corso Francia, in cui hanno perso la vita due ragazzine di sedici anni per mano di un ventenne che guidava un SUV in condizioni non propriamente ideali, esso c’è ma non è una persona fisica.

S&D

Non sono Gaia e Camilla, ci mancherebbe altro, la cui incoscienza giovanile può, anzi deve, essere perdonata, pena il trasformarsi in mostri moralisti dimentichi delle fesserie che ciascuno di noi commetteva a quell’età. E non è nemmeno Pietro, il figlio del regista, abbastanza ricco e scavezzacollo per essere trasformato nel capro espiatorio ideale.

Il vero assassino di tutti questi ragazzi è il vuoto, l’assenza, la mancanza di una società e di un contesto complessivo in cui i loro ardori possano essere trattati per ciò che sono realmente, ossia marachelle bonarie, e contenuti nell’ambito di ciò che non è lecito ma non è nemmeno reato.

Una cara amica ha scritto sulla sua bacheca Facebook una riflessione che merita di essere condivisa anche qui. Adolescente negli anni Settanta, quando tutto era politica, ricordava i giorni in cui dava il passaggio ad autostoppisti sconosciuti, andava in motorino seduta sul sedile posteriore, si faceva le canne e partecipava a manifestazioni vietate dal prefetto, il tutto all’insaputa dei genitori, ovviamente contrari, e inventando una montagna di scuse e di balle per potersi concedere delle libertà sulle quali oggi è in grado di ironizzare con la maturità di una persona prossima ai sessanta. Ebbene, tutto giusto.

Dirò di più: tutto sacrosanto. Siano benedetti i ragazzi di Woodstock, la kermesse musicale svoltasi nella campagna newyorkese in un assolato agosto di mezzo secolo fa, con Jimi Hendrix che suonava l’inno americano simulando il rumore delle mitragliatrici che falciavano i vietcong e vagonate di sostanze proibite che passavano di mano in mano come se non ci fosse un domani.

Siano benedetti gli hippie, la Beat generation, la cultura contestatrice in tutte le sue forme ed espressioni, i Ferlinghetti, i Kerouac, i Ginsberg, le Janis Joplin, i Bob Dylan e le Joan Baez. Sia benedetto Sanders, che all’epoca aveva vent’anni e oggi è amatissimo dai giovani, bisognosi di qualcuno che li prenda per mano e li conduca lungo la rotta di un sogno vero e non di cartapesta, non consumistico, venato anche di quel minimo di utopia che serve per vivere e non trasformarsi, fin dalla gioventù, nei testimonial ideali di una qualche multinazionale.

E siano benedette anche le piazze e le manifestazioni, comprese quelle vietate dal prefetto di Roma dei tempi di “KoSSiga”, rigorosamente col K maiuscolo e le due esse scritte a mo’ della sigla delle Schutz Staffeln naziste che trent’anni prima avevano lordato Roma di sangue e di orrore.

Sia benedetta la gioventù contestatrice e speriamo che non si imborghesisca troppo presto, che c’è tutta la vita per trasformarsi in una noiosa sinistra salottiera col vermentino in mano e il ditino sempre alzato, intenta a vergare pensosi editoriali e a non capir nulla dall’alto del proprio attico a Prati mentre il mondo cambia e gli ex rivoluzionari, ormai col portafoglio gonfio di banconote, non riescono ad accorgersene.

Sono, in parte, cliché e luoghi comuni anche questi, spinti all’eccesso per pura ragione provocatoria, ma sarebbe sbagliato sostenere che non rendano abbastanza l’idea di ciò che in troppi sono diventati da questa parte della barricata. Giornalisti, politici, attori, cantanti e tutta o quasi l’intellighenzia variamente assortita: sembra spesso di essere al centro de “La terrazza” di Ettore Scola, al cospetto del crollo delle illusioni di un trentennio, con una sbarazzina Stefania Sandrelli che provoca un imbolsito Vittorio Gassman, politico ormai in disarmo, prigioniero della gloria e del coraggio che fu ma del tutto incapace di esprimere qualsivoglia visione innovativa e di sporcarsi le mani con una mutazione antropologica, storica e culturale che Scola aveva intuito alla perfezione ma il resto della sinistra, in gran parte, no, tanto che dopo l’abbattimento del Muro di Berlino ne è rimasta travolta.

A quarant’anni da quel capolavoro siamo sempre al solito punto, con dotti editoriali di condanna o di assoluzione, lunghe analisi sui giovani senza valori, un interrogarsi stantio e fuori luogo su vittime e colpevoli di un dramma che, a parer mio, vede solo vittime sul proscenio e persino il chiamare in causa una sindaca per molti versi inadatta ma la cui unica responsabilità, nel caso specifico, è quella di non preoccuparsi adeguatamente dell’illuminazione delle strade.

Sotto alla nostra terrazza ci sono loro, i ragazzi, che delle nostre beghe non sanno e non vogliono sapere nulla, come non vogliono sapere nulla dei nostri partiti, dei nostri sindacati, delle nostre lotte intestine e delle nostre manovre di potere, più o meno sordide. Gli stessi giovani che oggi crocifiggiamo o verso cui manifestiamo una fondata preoccupazione sono, infatti, quelli che qualche settimana fa abbiamo innalzato sugli altari perché erano scesi in piazza a manifestare per il clima o perché avevano gremito le piazze di tutta Italia per unirsi a movimento delle Sardine. Sì, sono proprio loro. Magari fra i giovani che chiedevano un pianeta più pulito e più giusto c’erano anche Gaia e Camilla e forse, chissà, persino “Pietro il mostro”, che oggi, improvvisamente, sono diventati dissoluti o assassini.

Mi convinco sempre di più che gli adolescenti di oggi siano un crogiolo ardente di speranze e delusioni, rabbie e promesse di felicità, che in loro ci sia tutto e il contrario di tutto. La voglia di battersi per un mondo migliore e più a misura d’uomo e scemenze pericolose e assolutamente da evitare come il gioco del semaforo, ossia attraversare col rosso e fuori dalle strisce pedonali mentre le vetture sfrecciano lungo la strada a tutta velocità.

Che ci sia la disumana Trap e la buona musica. Che ci siano troppi smartphone e troppi tablet ma anche tante ottime letture. Una generazione che mai come ora è composta, al tempo stesso, da dottor Jeckyll e mister Hyde, in cui lo stesso ragazzo lo puoi trovare la mattina in piazza con Greta e la sera a ubriacarsi al pub. Al che, vien da riflettere anche sui genitori, sul loro ruolo, sulla loro incapacità di essere tali, di essere guide autorevoli, senza imporre alcunché ma educado con l’esempio, dato che, Pertini docet, ai giovani non servono prediche altisonanti ma buone pratiche del vivere civile. Vien da riflettere sul fatto che gli adolescenti di oggi siano figli della generazione “désenchantée” che si è vista crollare il Muro davanti a vent’anni e ha trascorso i successivi trenta a cercare un posto nel mondo e un proprio ruolo compiuto all’interno della società.

Vien da riflettere sul vuoto che avvolge la trincea in cui queste giovani vite sono costrette a battersi, senza una bussola né strutture forti pronte ad accoglierli o contro cui scagliarsi. E, personalmente, mi vien da pensare ai giorni in cui quella cara amica scendeva in piazza con gli studenti, con gli autonomi, con i lottatori continui e con quelli di Potere Operaio, magari cantando “Agnelli, Pirelli, Restivo, Colombo, / non più parole, ma piogge di piombo!” o inneggiando alla morte di “Calabresi l’assassino” sulle note de “La ballata del Pinelli”.

Non erano né meno violenti né meno facinorosi dei ragazzi di oggi, tutt’altro, ma erano ancora plasmabili perché esprimevano una rabbia lucida e rivolta contro un nemico reale: il potere che dieci anni più tardi li avrebbe fagocitati e trasformati, eccetto lei e pochi altri, per fortuna, nei censori di oggi.

Sotto la nostra terrazza, dunque, si dimena, nel vuoto di tutto, questa generazione di adolescenti o post-adolescenti in cerca di una ragione di esistere. Ci fanno paura certo, ci sembrano zombie senza identità, e in parte lo sono, e a Roma lo si nota ancora più che altrove, perché ancor più ampio è lo iato fra il clima felliniano da Grande bellezza delle nostre terrazze e la vita agra che scorre sotto di noi.

Aspettando il prossimo cocktail, con o senza olive, e vergando nel frattempo le nostre condanne senza appello. Ignari del fatto che un giorno potremmo affacciarci dal balcone, vedere il corpo di un ragazzo o di una ragazza riverso sull’asfalto, scorgere un altro ragazzo o un’altra ragazza che in quel momento ha smesso di vivere a sua volta e renderci conto che sono i nostri figli o i nostri fratelli più piccoli, ai quali evidentemente devono essere sfuggiti i nostri editoriali.

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