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E’ morto Vendrame, il poeta irrequieto del pallone

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Calcio, è morto Ezio Vendrame: era il poeta irrequieto del pallone

La scomparsa odierna di Ezio Vendrame ci riporta ad un’epoca in cui nel calcio il look dei giocatori era secondo in marzialità solo a quello dei soldati. Codini ed orecchini non erano nemmeno pensabili ed i capelli alla rockstar mal tollerati. George Best, il genio dell’Ulster, aveva ampliato i confini del look dall’alto di quella sua immensa classe che riempiva qualunque stadio in cui giocasse il suo Manchester United. In Italia di epigoni dell’orangista ne abbiamo avuti a iosa. Gigi Meroni fu quello dotato di maggior classe e, se la sua vita non si fosse interrotta così tragicamente a soli 24 anni, oggi parleremmo di lui come di un giocatore paragonabile al ragazzo di Belfast. A colmare il vuoto di Meroni, non certo per qualità di gioco ma sicuramente per estrosità di comportamenti in campo e fuori, arrivò nell’autunno 1971 il ragazzone friulano, nato in quella Casarsa della Delizia dove si era formato l’indiscusso leader controcorrente della cultura italiana di quel tempo: Pier Paolo Pasolini.

Ho avuto la fortuna di essere stato presente all’Olimpico il 3 ottobre 1971 in quel Roma-Vicenza che vide Vendrame debuttare in Serie A. Ezio aveva il pesante compito di non far rimpiangere Cinesinho, la star brasiliana del Lanerossi, quel giorno assente. Vedendo questo involucro di barba e capelli, al pubblico romanista bastarono pochi minuti per etichettarlo Barabba, il soprannome che lo contraddistinse per tutta la sua carriera. Vendrame era arrivato tardi alla massima categoria per via di quel suo carattere contestatore che gli era costato l’ostracismo di Paolo Mazza, il leggendario presidente della Spal. Mazza, sommo intenditore di calcio, aveva prelevato il ragazzo 20enne dall’Udinese per lanciarlo in Serie A, ma Vendrame non seppe adattarsi alla disciplina richiesta dal salto di categoria, cominciando una trafila di prestiti che lo portò a girovagare per i campi di Serie C. Dalla Torres al Siena per poi finire al Rovereto sembrava che la carriera dell’estrosa mezzala fosse finita su un binario morto.

Nell’estate del 1971, il Vicenza decise di scommettere su di lui, anche perché non costava molto. La squadra berica, giunta in Serie A per la prima volta nel 1956, puntualmente ogni anno riusciva a salvarsi dignitosamente, giocando un calcio gradevole e valorizzando giocatori, proprio come avvenne con Vendrame, pagati al prezzo dei bruscolini e successivamente venduti a peso d’oro. Era senz’alcun dubbio il Lanerossi Vicenza all’inizio degli anni ’70 il simbolo di quel calcio provinciale da cui sono scaturiti i più grandi campioni della scuola italiana. Ad allenare quell’anno i biancorossi era Umberto Menti, fratello maggiore di Romeo perito tragicamente con il Grande Torino a Superga. Menti, confrontato con l’indisponibilità del vecchio Sydney Cunha, non ebbe alcun dubbio nel consegnare all’esordiente Vendrame la maglia numero 10, offrendogli una chance che solo pochi mesi prima sarebbe apparsa come una chimera.

Le successive tre stagioni con la casacca biancorossa, pur tra qualche alto e basso, furono l’apice della carriera del ragazzo di Casarsa della Delizia a cui, nell’estate 1974, si presentò l’occasione della vita. Luis Vinicio lo volle al Napoli, in quel momento una delle contendenti per lo scudetto. Fu un fallimento totale. Ezio rimase fuori dalle rotazioni del tecnico di Belo Horizonte, collezionando sole tre presenze in un campionato che i partenopei si videro scippare dal famoso gol di Jose Altafini “core n’grato” a pochi minuti dalla fine dello scontro diretto con la Juventus a Torino.

La carriera di Vendrame ad alto livello finì con l’esperienza napoletana. Ceduto nell’estate 1975 al Padova, disputò due stagioni in C prima di scendere ulteriormente nelle categorie minori. Al biennio patavino sono legati i due episodi che ne hanno corroborato la leggenda. Nel corso di una noiosissima (e sospetta) Padova-Cremonese, in cui risultava chiaro che il pari andava bene a tutti, Vendrame si fece tutto il campo a ritroso, dribblando i suoi stessi compagni di squadra per poi, dopo aver superato il portiere, fermarsi poco prima della linea di porta. Questo gesto fu fatale ad un tifoso biancoscudato che morì d’infarto sugli spalti. Quando questo gli fu riferito, Vendrame rispose chiedendo come fosse possibile che un debole di cuore lo andasse a vedere giocare.

Il suo canto del cigno fu il 9 maggio 1977. All’Appiani si presentò l’Udinese in lotta per la promozione in Serie B. Vendrame, che solo anni dopo confessò di aver rifiutato un cospicuo premio per perdere la partita, mise a segno una doppietta decisiva, con tanto di gol olimpico direttamente dalla bandierina regalando così la vittoria alla sua squadra e stroncando le speranze di promozione dei friulani.

Prigioniero della sua necessità d’andare per forza controcorrente, Vendrame non seppe più uscire da questo ruolo neanche appesi gli scarpini al chiodo. Al Festival di Sanremo 2005, nella improbabile veste d’opinionista, attaccò il conduttore Paolo Bonolis criticando fortemente il brano cantato da Gigi D’Alessio “L’amore che non c’è”. Sicuramente, dovunque si trovi Vendrame ora, non ci sarà da annoiarsi.

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