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Omotransfobia, il difficile cammino e le polemiche sulla legge che vieta l’odio contro omosessuali e trans

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Manifestazione LGBT a Gerusalemme il 28 giugno 2020. Credit: EPA/ABIR SULTAN

Omotransfobia, il difficile cammino e le polemiche sulla legge che vieta l’odio contro omosessuali e trans

Si può combattere l’odio con una legge? In Italia si è provato a farlo, istituendo nel 1975 la legge Reale, che puniva con la reclusione fino a 4 anni chi diffondesse “idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale” e chi incitasse “in qualsiasi modo alla discriminazione”, o commettesse o incitasse a commettere “atti di violenza o di provocazione alla violenza, nei confronti di persone perché appartenenti ad un gruppo nazionale, etnico o razziale”. Nel 1993, un disegno successivo ampliò il testo “allo scopo di apprestare più efficaci strumenti di prevenzione e repressione dei fenomeni di intolleranza e di violenza di matrice xenofoba o antisemita”: nacque così la legge Reale-Mancino, che puniva anche “chi, in qualsiasi modo, incita alla discriminazione o all’odio, o incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza, per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”.

Nel 2018, per mettere ordine nella giurisprudenza e nella gerarchia delle fonti, queste disposizioni di legge sono state inserite nel codice penale, in due nuovi articoli, il 604-bis e il 604-ter. I quali puniscono con la reclusione fino a un anno e sei mesi “chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; e fino a quattro anni per “chi istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.”

In più, il codice penale vieta “ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” e infine prevede l’istituzione di un’aggravante per i reati “commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso”. La circostanza aggravante della discriminazione razziale, come ricorda Articolo 21, è quella che fu riconosciuta per esempio nella condanna a Roberto Calderoli, senatore della Lega, per diffamazione aggravata nei confronti dell’ex-ministro dell’Integrazione Cécile Kyenge. Come si comprende dal testo degli articoli, la giurisprudenza italiana ha quindi cercato attraverso le leggi, negli ultimi 4 decenni, di arginare prima di tutto la violenza razzista, nazionalista e xenofoba.

Circa 25 anni dopo il primo tentativo di Nichi Vendola, nel 1996, di allargare il campo delle tutele al mondo omosessuale, oggi il deputato veneto del Partito democratico Alessandro Zan spera di essere colui che, “al sesto tentativo”, riuscirà a garantire l’estensione di questi articoli del codice penale anche alla tutela nei confronti delle persone omosessuali e transessuali, colpite negli anni da un aumento esponenziale della violenza, passata dai 109 casi di aggressioni nel 2016 ai 212 del 2019, secondo i dati contenuti nell’inchiesta Caccia all’omo del giornalista Simone Alliva. Oltre a punire condotte violente e discriminatorie di stampo omofobo e transfobico, la legge colpirà anche gli attacchi violenti fondati sulla misoginia, cioè sull’odio nei confronti delle donne.

Concretamente significa che, per esempio, incitare allo stupro contro una donna diventerà un reato aggravato dall’odio e dalla discriminazione. L’integrazione e l’estensione della legge alla violenza misogina è stata richiesta in particolare, racconta Zan, dalla deputata Laura Boldrini e dalla deputata Giusi Bartolozzi di Forza Italia – di recente fatta oggetto in prima persona, in Parlamento, di un insulto misogino da parte del collega Vittorio Sgarbi –, la quale a sua volta aveva presentato una proposta di legge in merito a novembre scorso. La legge Zan l’ha accorpata, insieme ad altre tre proposte precedenti provenienti da Boldrini-Speranza (Liberi e Uguali), Scalfarotto (Italia Viva) e Perantoni (M5s).

“Forse è il momento buono per riuscire a ottenere questa legge”, dichiara Zan a TPI; “sono ottimista di natura, altrimenti non potrei fare il politico, ma in questo caso ritengo di potermelo permettere”, spiega, “perché non soltanto abbiamo una maggioranza di governo molto orientata in questo senso, ma abbiamo anche lavorato in modo convergente con alcune realtà dell’opposizione”, fra cui le deputate di Forza Italia. “Ma la prudenza è indispensabile: il nostro obiettivo è che la discussione in Commissione e alla Camera sia calendarizzata per luglio, e arrivare in tempi brevi al voto in Senato, senza che in quella fase vengano presentate ulteriori richieste di modifiche al testo”. Prima di portare a casa il risultato sarà necessaria una lunga battaglia. Perché gli avversari di questa legge sono tanti, e anche all’interno dello stesso movimento Lgbt le posizioni in merito sono tutt’altro che compatte.

Nel concreto, la proposta della legge Zan è di ampliare il territorio di soggetti vulnerabili protetti dalle violenze, estendendolo alla “Propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, istigazione a delinquere e atti discriminatori e violenti per motivi razziali, etnici, religiosi o fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale o sull’identità di genere.”

Durante la conferenza stampa di presentazione della legge alla Camera il capogruppo del Pd in Commissione Giustizia, Alfredo Bazzoli, ha rassicurato in modo speciale gli ambiti della Chiesa che hanno manifestato sonoramente le loro preoccupazioni, nei giorni scorsi, per le presunte limitazioni alla libertà d’espressione che deriverebbero da queste misure. Bazzoli ha riconosciuto come “legittime, e non pregiudiziali” queste preoccupazioni e ha spiegato che la legge non colpirà le idee, ma gli atti e le condotte discriminatorie e violente. “Dire che l’omosessualità è contro natura non è istigazione all’odio”, aggiunge Zan a TPI. Tanto quanto non è istigazione all’odio contro un cattolico dire che Dio non esiste. “Se punissimo la propaganda d’idee, faremmo un’azione uguale e contraria a quella di Putin, che in Russia ha davvero deciso di incriminare la propaganda d’idee Lgbt”.

Allora perché tutto questo clamore? Per Laura Boldrini, intervenuta in conferenza stampa, molte polemiche sorte riguardo alla legge dipendono dal fatto che “c’è uno zoccolo duro, in questo Paese, che non vuole vedere pienamente realizzato l’articolo 3 della Costituzione” e quindi desidera pervicacemente negare diritti a chi non li ha. Ma che dire quando le posizioni critiche al testo arrivano da quelle stesse persone che dalla legge verrebbero difese, come le donne o le persone Lgbt? Alcune posizioni polemiche si spiegano con il fatto che attorno alle definizioni utilizzate nel testo – sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere – è in corso uno scontro ideologico, che va avanti ormai da un paio di decenni, condotto in modo non sempre leale da numerose parti in causa: dagli organi della Chiesa, all’estrema destra, alle diverse correnti all’interno del femminismo e anche all’interno dello stesso mondo Lgbt.

L’oggetto del contendere è il significato di “genere” versus quello di “sesso”, e le implicazioni che le differenze fra questi due termini, e i correlati “identità sessuale” versus “identità di genere”, hanno nella vita delle donne, delle persone transessuali, e di coloro che in vario modo non si riconoscono nelle visioni tradizionali maschili o femminili. Semplificando in modo schematico e necessariamente impreciso, a grandi linee è possibile affermare che all’interno del mondo femminista e di quello Lgbt è in atto una diatriba fra visioni antitetiche riguardo al ruolo oppressivo, o viceversa liberatorio, del concetto di genere e della cosiddetta identità di genere nella vita delle persone, e specialmente delle donne.

Nell’intento di non scontentare nessuno, Zan e il suo gruppo di lavoro hanno inserito entrambe le diciture, facendo riferimento alle discriminazioni basate sia sul sesso, sia sul genere. “Abbiamo scelto di inserire la parola “sesso” oltre a “genere” perché alcune realtà femministe sostengono che la discriminazione nei confronti delle donne avvenga sulla base del sesso di appartenenza e che la categoria di genere sia troppo ambigua. Personalmente, credo che le discriminazioni subite dalle donne nella società avvengano soprattutto per ciò che il genere rappresenta: per i rapporti di forza nei confronti del mondo maschile, più che per il sesso biologico in sé. Ma d’altra parte “sesso” è una parola presente nella Costituzione. Così come di entrambi, di “sesso” e di “genere”, si parla nella Convenzione di Istanbul.” Secondo Zan anche l’espressione “identità di genere” – anch’essa presente nella Convenzione di Istanbul, quindi non nuova nel nostro ordinamento come invece sostengono alcune femministe – “è più consona a proteggere le persone trans rispetto a quella di identità sessuale, perché include anche le donne che non hanno affrontato una riattribuzione chirurgica del sesso, ma tuttavia si definiscono donne. La riattribuzione chirurgica è una scelta invasiva e personale, che molte donne trans evitano; non ultimo, perché in Italia si è dimostrata piuttosto pericolosa.”

L’opinione di Zan riguardo alla transessualità non trova però riscontro in quella, di segno opposto, di alcune donne trans che della propria esperienza e realtà danno una lettura differente. Per esempio la sociologa, attivista e scrittrice Neviana Calzolari secondo la quale è proprio la dicitura “identità di genere”, al contrario, a negare il vissuto concreto dei corpi delle persone transessuali. Il concetto di identità di genere diluirebbe infatti la specificità, l’unicità del percorso dei corpi in una visione astrattamente identitaria che al fondo è “sessuofobica”, perché non fa i conti con il vissuto reale, materiale dei sessi. In un suo recente intervento, Calzolari – che ha militato per diversi anni nell’associazione Arcilesbica, e il cui parere è stato raccolto nei giorni scorsi anche dalla vicepresidente della Camera Mara Carfagna, in vista dell’imminente discussione parlamentare – ha scritto: “le persone transessuali non hanno niente a che fare con la cultura queer dell’autodichiarazione della propria identità, perché i nostri corpi hanno una loro specificità unica e irriducibile rispetto a chi il proprio corpo e sesso lo lascia bello intonso come alla nascita: queer compresi. No, i nostri corpi e sessi devono finire centrifugati e serviti dentro a una macedonia contenente milioni di cose diverse. […] E il corpo di una persona transessuale, indipendentemente dal fatto che abbia cambiato in tutto o in parte le sue caratteristiche sessuali secondarie? Basterebbe immaginarselo senza avere pregiudizi trogloditi per cercare di apprezzarne la bellezza particolare che la persona ha comunque cercato di costruire; bellezza che si può mettere sullo stesso piano di quella di uomini e donne che hanno invece lasciato tutto come era alla nascita. Ma per fare ciò non bisogna avere paura di esporsi mentalmente (prima ancora che fisicamente) al confronto con un corpo e un sesso altro da sé.”

Questioni di peso, che il mondo Lgbt e quello femminista fanno entrambi fatica ad affrontare in un dibattito leale, aperto e disponibile verso le rispettive idee e interpretazioni; e questa difficoltà si sta riversando anche nel dibattito attorno alla legge contro le discriminazioni violente. Francesca Izzo di “Se non ora quando”, intervistata su Repubblica, ha detto che nella legge “è meglio nominare esplicitamente la ‘transessualità’ piuttosto che ‘l’identità di genere’.” Se si parte dall’assunto che definire le differenze discrimina chi non rientra in quella categorie, le conseguenze possono essere anche grottesche. Le differenze vanno riconosciute e nessuno deve essere discriminato, ma non vogliamo cancellare il fatto che ci siano donne e uomini”. Anche l’associazione Arcilesbica, in un comunicato stampa, pur esprimendo il proprio favore alla legge nel suo complesso ha contestato con forza l’utilizzo del termine “identità di genere” e preferirebbe che si parlasse, invece, di transessualità. “Scrivere “identità di genere” – si legge nel comunicato – infatti permette a chiunque di autocertificarsi con un sesso diverso da quello con cui è nato. Un uomo può dichiararsi donna, una donna può dichiararsi uomo, a prescindere dalla realtà del corpo. L’inafferrabile concetto di “identità di genere” ha creato scontri e ingiustizie ai danni delle donne in Inghilterra e negli Usa (i casi più noti quelli di J. K. Rowling e Martina Navratilova) e non vogliamo che accada anche qui”.

Preoccupazioni non del tutto infondate visto che alcune discriminazioni violente nei confronti di Arcilesbica, con insulti misogini e vere e proprie minacce di stupro, sono state portate avanti proprio di recente da parte di alcune frange della comunità queer, dopo che l’associazione ha promosso un dibattito di presentazione della cosiddetta “Dichiarazione dei diritti delle donne basati sul sesso”: un controverso manifesto politico che, basandosi sulla legislazione anglosassone, rivendica la titolarità della categoria di “donna” e la tutela legislativa a essa connessa come facenti capo in modo esclusivo alle donne biologiche. Nell’epoca delle shitstorm e della cultura della cancellazione come strumento politico, le femministe che condividono le posizioni di Arcilesbica temono che la legge Zan, legittimando una volta di più il linguaggio afferente alle teorie dell’identità di genere diventi un grimaldello per impedire il dibattito sulle loro idee, piuttosto che criticarle nei limiti del rispetto.

Gabriele Piazzoni di Arcigay, d’altro canto, esclude questa possibilità. “Il dibattito generale sulle teorie dell’identità di genere sollevato da Arcilesbica e da alcune femministe è utile e non va affrontato come fosse un tabù”, ha dichiarato a TPI. “Non ritengo però che abbia senso fare leva su preoccupazioni ideologiche relative alle implicazioni ampie del concetto di “identità di genere” per frenare il percorso di una legge che intende colpire le discriminazioni violente messe in atto contro la persona”. Anche per lo stesso Alessandro Zan “ben venga questo genere di discussioni, a patto di non dimenticarsi che la nostra legge serve a uno scopo preciso: a impedire atti d’odio e discriminazione concretamente violenti contro le persone più vulnerabili”. Una vulnerabilità che ha a che fare soprattutto con la direzione impressa da chi odia al proprio sguardo violento, molto più che con la definizione che la persona fatta oggetto d’odio predilige per sé.

“A chi per strada incontra una persona trans e si sente mosso ad attaccarla o insultarla dal disprezzo nei suoi confronti interessa poco come quella persona si autodefinisce; al violento interessa ciò che percepiscono i suoi occhi malati di odio”, riflette Zan. Occorre quindi ricordarsi sempre che le persone vengono fatte oggetto di discriminazioni violente non perché siano loro a essere donne, omosessuali o trans, bensì perché nella società pullulano persone misogine, omofobe o transfobiche che si sentono in diritto di far valere il loro odio sugli altri. La legge serve a frenare le azioni di queste persone. E Matteo Salvini, ricorda Zan, può stare tranquillo “perché se l’eterofobia esistesse, questa legge lo proteggerebbe anche dagli eterofobi”.

Leggi anche: 1. Legge contro l’omotransfobia: cosa prevede e perché fa discutere/2. Legge contro l’omotransfobia, femministe contrarie: “Terminologia inadeguata”/3. La legge contro l’omofobia? Serve proprio perché c’è chi non la vuole (di F. Salamida)

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