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Home » Politica

L’avvertimento di Loretta Napoleoni a TPI: “Benvenuti nell’era del tecnocapitalismo”

Immagine di copertina
Credit: AGF

"L’I.A. è l’ultima fase della rivoluzione tecnologica e per evolvere ha bisogno di noi. Ma se non rivendichiamo i nostri diritti, diventeremo servi della gleba". Le Big Tech come Meta, Amazon e Tesla controllano il nostro futuro attraverso i dati personali, l'intelligenza artificiale e le criptovalute. L’economista spiega a TPI chi sono e che ruolo politico hanno gli oligarchi, ribattezzati “Tecnotitani”, di casa nostra

Professoressa Napoleoni, chi sono i “Tecnotitani” di cui parla nel suo ultimo libro?
«Nel titolo dell’edizione italiana li abbiamo chiamati oligarchi».
Perché?
«Perché agiscono come gli oligarchi in Russia, ossia hanno creato ricchezze da capogiro, quasi pari al Pil di interi Paesi, spogliando lo Stato dei suoi beni».
Ci spieghi meglio.
«In Russia hanno saccheggiato le infrastrutture e altre risorse dell’ex Unione sovietica. Negli Stati Uniti, invece, hanno raccolto i dati personali della popolazione, trasformandoli in merce e vendendoli come prodotto». 

Come possiamo riappropriarcene?
«Cominciamo dalla fine, dall’intelligenza artificiale».
Che c’entra?
«L’I.A. è l’ultimo stadio di questa rivoluzione. Sapete come è stata sviluppata?».
Ce lo dica.
«Per sviluppare i cosiddetti modelli linguistici di grandi dimensioni, cioè i programmi di intelligenza artificiale, bisogna addestrarli immettendo all’interno tutta la conoscenza possibile, tutto ciò che si trova su Internet. Ora però siamo arrivati a un punto di stallo».
Cioè?
«Ormai ogni contenuto online è già “dentro” quindi l’I.A. ha bisogno di altro per fare il grande salto».
Di cosa?
«Ha bisogno di noi».
In che senso?
«Non è un caso che, prima ChatGPT e poi altri programmi simili, siano stati resi disponibili al pubblico. Il processo di apprendimento dell’intelligenza artificiale avviene grazie a noi. Siamo noi utenti che, interagendo con l’I.A., la facciamo crescere, immettendo sentimenti, emozioni, ma anche conoscenza. Insomma la Treccani siamo noi, non loro».

Quindi?
«L’I.A. non riuscirà mai a riprodurre il nostro modo di pensare, senza la nostra partecipazione: è una questione di apprendimento. Ora però dobbiamo porci due interrogativi».
Quali?
«Uno etico-morale: vogliamo davvero che le macchine diventino come noi? L’altro economico-politico: se decidiamo di continuare per questa strada, allora sono le Big Tech che dovrebbero pagare noi, non il contrario».
Su TPI proponemmo l’istituzione di un “reddito da profilazione” per obbligare Big Tech a pagare per i nostri dati.
«Sono d’accordo al 100 per cento ma non è più solamente una questione di informazioni personali».
Perché?
«Ormai i nostri dati ce l’hanno e chi non vuole fornirglieli deve rinunciare alle piattaforme. Quindi clicchiamo sempre tutti su “Accetta” per poter accedere a questi servizi».
Da questo punto di vista hanno già vinto.
«Non voglio credere che abbiano vinto ma se gettiamo la spugna adesso, diventeremo dei servi della gleba».

Yanis Varoufakis parla di un nuovo feudalesimo. Siamo ancora nell’ambito del capitalismo?
«Sono d’accordo con Varoufakis perché, pur analizzando il fenomeno da un diverso punto di vista, sono arrivata alle stesse conclusioni. Torniamo sempre all’I.A., che inizierà a prendere il posto di segmenti sempre più grandi della forza lavoro, come ad esempio i taxi a guida autonoma».
Come se ne esce?
«Il direttore di OpenAI (sviluppatore di ChatGPT, ndr), Sam Altman, ha proposto il reddito di cittadinanza universale».
Come funzionerebbe?
«La società di taxi produce determinati profitti, che in parte dovrebbero finanziare questo strumento di welfare, gestito ovviamente dallo Stato attraverso la tassazione».
Non sembra male.
«Guardiamola da un altro punto di vista: se verremo ridotti a individui che vivono di elemosina da uno Stato controllato sempre più dai grandi oligarchi tecnologici, allora non saremo più nemmeno cittadini e non ci sarà bisogno di votare né della partecipazione politica. Scivoleremo inesorabilmente in un nuovo feudalesimo, saremo cioè servi della gleba: stipendiati per restare in silenzio e addestrare le macchine».
Uno scenario politico distopico.
«Dal punto di vista politico abbiamo un presidente degli Stati Uniti che, durante il suo insediamento, ha messo in prima fila gli uomini più ricchi del mondo, che, guarda caso, operano tutti nel settore dell’alta tecnologia. Allora Trump pensava di mandare un messaggio».
Quale?
«Voleva far sapere agli americani: “Io li controllo”. Ma in realtà sono loro che controllano lui. In questo senso la scelta di (J.D., ndr) Vance come vicepresidente è fondamentale».
Perché?
«Vance è il pupillo di Peter Thiel (co-fondatore di PayPal, ndr) e fa da ponte tra questi potentati e lo Stato».

È successa la stessa cosa con le criptovalute?
«Come aveva preso le distanze dall’industria high tech, nel 2016 Trump parlava malissimo delle criptovalute. Poi, improvvisamente…».
Oggi ha un suo meme coin ufficiale e ha istituito una “riserva strategica di Bitcoin”. Perché ha abbracciato questo mondo?
«Aveva bisogno di un appoggio economico ma anche politico».
Lei però, nel suo libro, definisce le criptovalute “una minaccia per lo Stato”.
«La valuta è uno dei pilastri dello Stato. Le nazioni dotate di sovranità monetaria, secondo la Modern Monetary Theory, emettono cartamoneta con cui far fronte a qualunque pagamento: dai salari alle opere pubbliche».
Ma allora perché paghiamo le tasse?
«In parte, per legittimare la valuta circolante e contribuire a preservare il monopolio monetario dello Stato».
Le criptovalute ribaltano questa logica.
«Consideriamo il Bitcoin: è una valuta digitale globale, decentralizzata, non controllata da nessuno Stato e da nessuna banca centrale, ma dal network dei suoi partecipanti. Da questo punto di vista scardina completamente il sistema monetario esistente».
Perché?
«Perché nessuno sa chi sia il suo creatore Satoshi Nakamoto e perché non si può mettere fuori legge un software. Tanto che alla fine anche l’alta finanza ne ha capito l’importanza e così il Bitcoin continua la sua ascesa, Ether funziona abbastanza bene e un’altra decina di monete simili sono ormai entrate nel mercato finanziario».
Nei portafogli.
«Nessun investitore istituzionale o un minimo serio, le assicuro, ha comprato il meme coin di Trump. Ma esiste una zona grigia di questo nuovo universo cibernetico dove girano tantissimi soldi. Il problema è che gli interessi di un’oligarchia dettano l’agenda politica».

Parla dei dazi?
«Trump ha creato il caos, però lo ha fatto apposta».
Perché?
«Dietro si nasconde una politica anticinese, volta a impedire la concorrenza di Pechino».
Si spieghi meglio.
«Gli Stati Uniti vantano un primato nel settore tecnologico al momento incontrastato. La Cina però potrebbe raggiungerli in termini di sviluppo e innovazione e diventare un serissimo concorrente per gli Usa. È una lotta cominciata già nel 2016, quando di fatto fu vietata la vendita dei microprocessori a Pechino, che comunque è riuscita a fare passi da gigante. Questa volontà politica però è dettata dagli interessi di un’oligarchia».
Qual è la soluzione?
«Infrangere il primato americano da parte cinese potrebbe essere l’unico modo per rompere questo oligopolio».
Ci faccia un altro esempio.
«Non solo hanno reso disponibile gratuitamente DeepSeek (il principale concorrente cinese di ChatGPT, ndr) ma hanno anche pubblicato la metodologia usata per svilupparlo».
Perché?
«Per spiazzare completamente il settore tecnologico americano».

Ma il laboratorio cinese di capitalismo e autoritarismo digitale è un modello esportabile?
«Tutto è esportabile ma più importante del modello è la metodologia. Noi dobbiamo infrangere questo oligopolio».
L’Europa che ruolo gioca?
«Non ha i numeri. Prova a legiferare ma le norme non servono a niente in un settore in cui le aziende si comportano come anguille, scivolano».
Cioè?
«Ipotizziamo di imporre una legislazione europea particolarmente dura nei confronti di ChatGPT. La reazione di OpenAI sarebbe di consentire l’accesso solo a una parte del programma. Accade già oggi: negli Usa sono permesse modalità di uso di ChatGPT che qui sono vietate per motivi legali riguardanti la gestione della privacy. Alla fine, in un certo senso, viene punito l’utente».

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