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Caro Beppe Sala, lo smart working è il futuro e chi non lo accetta ha un’idea sbagliata di lavoro

Immagine di copertina
Il sindaco di Milano Beppe Sala

“Basta smart working, torniamo a lavorare”: l’uscita del sindaco di Milano Beppe Sala, che sembrava mettere in contrapposizione lavoro e smart working, non è piaciuta a molti professionisti e dipendenti. Le ragioni sono due: da un lato perché sembra che siano due attività alternative, dall’altra perché Sala ha dimostrato di non apprezzare o conoscere i benefici di quella che è semplicemente la modalità di lavoro del futuro (e del presente in molti Paesi).

S&D

Lavorare in modalità smart working per un lavoratore significa, finalmente, poter essere valutato sui task completati, sugli obiettivi raggiunti e non, come è sempre accaduto in Italia, da quando o quanto tempo sta in ufficio. Questa tipologia di lavoro richiede uno sforzo da parte dei manager: valutare i subordinati con indicatori di performance, e non, come detto, di presenza. La favola del lavoro “a risultato”, nei lavori intellettuali, semplicemente, non esiste, specialmente a Milano. La cultura del lavoro in Italia, specialmente nei settori “intellettuali” (architetti, avvocati, creativi ecc..) è spesso quella del “fa carriera chi resta oltre le 19”, chi prende i caffè con le persone giuste, e del “Te ne vai alle 18? Hai fatto part-time oggi?”

Questo micro-management è stato vissuto da chiunque abbia lavorato in aziende, piccole medie o grandi e ovviamente anche nell’amministrazione pubblica, dove chi non lavora a contatto con il pubblico, dovrebbe – per standard – avere la possibilità (se lo desidera) di poter continuare a lavorare in smart working, perché, semplicemente, si lavora meglio e con migliori performance, e a dirlo sono tutti gli indicatori internazionali.

In un mondo in cui la tecnologia permette di scambiare file su cloud, utilizzare sistemi di gestione dei task dei dipendenti (come Asana, Airtable e molti altri), entrare in un ufficio è sempre più superfluo, o comunque non risulta necessario per ogni giorno della settimana. Ci stanno perdendo economicamente il centro e gli uffici? È probabile. Ma finalmente stanno riguadagnando le periferie, un tempo quartieri dormitorio, e oggi – almeno alcuni giorni a settimana – ripopolate da cittadini che possono fare la pausa pranzo sotto casa e sostenere il tessuto locale. Se il mercato si muove in quella direzione non dev’essere la politica a spostare gli equilibri.

Chiunque conosca il mercato sa bene che lo smart working era già destinato a spostare i valori immobiliari delle periferie e delle province, e dei cosiddetti territori marginali. Che un’azienda scelga di “rimpatriare” i propri dipendenti negli uffici, è sacrosanto, se in condizioni di sicurezza. Ma se le aziende (come molte) hanno già scelto di mantenere la modalità smart working almeno fino a settembre, è perché, evidentemente, ne hanno avuto beneficio: meno costi, maggiori performance e pure più meritocrazia. Se persino i sindacati, notoriamente relativamente conservatori in questo Paese, hanno mostrato timidi segnali di apertura, significa che quella direzione è il futuro.

Lo smart working è una realtà consolidata in molti Paesi al mondo, premia il merito, abolisce la “politica” in azienda, sostiene l’equilibrio familiare, e dà, semplicemente, maggiore libertà. Se le aziende hanno scelto questa modalità di lavoro, non deve essere la politica a dettare una direzione diversa. I fenomeni di mercato producono, da sempre, vincitori e vinti: il compito dello Stato non è quello di scegliere i vincitori, ma di accompagnare i vinti a riposizionarsi sui mercati, di sostenere i lavoratori che perderanno il lavoro e di immaginare nuovi scenari per i quartieri destinati a “perdere” di più con la diffusione dello smart working. È questo che dovrebbe fare la politica.

Leggi anche: 1. Sala: “Basta smart working, torniamo a lavoro”. Il sindaco di Milano ricoperto di insulti sui social / 2. Anche Beppe Sala attacca Regione Lombardia: “È ora di cambiare”

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