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Giampaolo Pansa, il dolore di una grande vita

Immagine di copertina
Giampaolo Pansa

Giampaolo Pansa, scomparso all’età di 84 anni, è stato molto più di un giornalista. Un polemista, certo, un piemontese tutto d’un pezzo, capace di attraversare i decenni con malinconico disincanto e, al tempo stesso, con la medesima passione che lo animava fin da ragazzo: quella per un giornalismo libero e di qualità che desse a ciascuno il suo e non si inchinasse al cospetto di alcun potere.

No, non era un uomo da convenevoli, quel rompiscatole di Pansa, fuoriclasse della penna e della parola, autore di corsivi di altissimo livello, inventore del “Bestiario”, ossia di una rubrica a sfondo politico in cui non le mandava a dire a nessuno e grazie alla quale ha sferzato e messo al posto loro tutti i principali protagonisti della nostra vita pubblica negli ultimi trent’anni.

Talvolta non ho condiviso le sue idee: il sangue dei vinti, grazie a lui, è tornato a scorrere nelle vene di un Paese da sempre pieno di contrasti e incapace di fare i conti con se stesso e con la propria storia e anch’io sono stato fra coloro che lo hanno contestato, pensando che le sue opere potessero suffragare le tesi di quanti pretendono ancora di equiparare i partigiani ai repubblichini e di mettere in discussione le fondamenta antifasciste della Repubblica e della Costituzione.

Non era questo l’intento di Pansa, ma molti di noi l’hanno capito dopo. Abbiamo capito dopo che la sua vera intenzione era quella di rompere la narrazione unilaterale, di andare contro le verità ufficiali, di porsi, per l’ennesima volta, come il meraviglioso rompiballe che è sempre stato, per sua stessa ammissione, ovunque abbia lavorato, dicendone di tutti i colori a chiunque e guadagnando, per questo, un’incredibile autorevolezza.

Mi tornano in mente, stasera, due immagini che in qualche modo mi legano a lui, pur non avendolo mai conosciuto di persona. La prima riguarda suo figlio Alessandro, con cui conversai un mese prima che morisse, durante una serata di gala organizzata dalla Scuola di Politiche al Grand Hotel di Cesenatico.

Era impossibile non volergli bene, soprattutto per la levità con cui sapeva affrontare ogni argomento, compresi i più spinosi, e non stento a credere che il lutto per la morte del figlio abbia contribuito in maniera decisiva a fiaccare la resistenza di un uomo che dalla vita ha avuto molto ma che ha patito anche atroci sofferenze, a cominciare dall’infanzia vissuta in tempi di guerra.

La seconda immagine è un’ingenua vicenda collegata proprio a questa testata, quando proposi al direttore di invitare Pansa in occasione della maratona elettorale del prossimo 26 gennaio, per fornirci la sua sterminata aneddotica in merito alle due regioni che andranno al voto, e in quel momento capii che Pansa non avrebbe potuto essere dei nostri.

Se n’è andato prima del voto e ci mancheranno le sue riflessioni puntute, la sua amara ironia, la sua franchezza, la lungimiranza con cui scriveva, narrava, si indignava, destava scalpore e, spesso, riusciva a dare un tocco di unicità alle notizie che commentava.

Era inimitabile nel suo genere, anche quando prendeva qualche cantonata, anche quando sosteneva una battaglia sbagliata, anche quando entrava in polemica con l’universo-mondo e, alle volte, pagava a caro prezzo il coraggio delle sue idee.

Giampaolo Pansa è stato un fuoriclasse, uno di quei maestri dai quali, anche nel dissenso, c’era sempre tanto da imparare. Ha vissuto, ha scritto, ha riso, ha pianto, si è arrabbiato, ha lottato e, infine, è arrivata la sua ora.

Non diciamo altro, sennò anche da lassù ci arriva un cazziatone.

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