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Gli USA non dicono di aver perso in Afghanistan perché le guerre non sono più come nei libri di scuola

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C’è un’affermazione sulla guerra in Afghanistan che, ad oggi, sembra quasi un tabù da pronunciare. Quasi nessuno, infatti, ha avuto il coraggio di dire che gli Stati Uniti e i loro alleati della NATO quella guerra, iniziata nel 2001, la hanno persa. Eppure, nel vedere la ritirata dei militari e del personale occidentale da Kabul, nel vedere il ritorno dei talebani, sembrerebbe un fatto evidente. Ma da un altro punto di vista abbiamo il presidente degli Stati Uniti in persona, Joe Biden, che parlando alla nazione rivendica di fatto una vittoria, chiarendo che l’obiettivo della missione militare era eliminare la presenza di Al Qaeda e nello specifico di Osama bin Laden dall’area come risposta ai drammatici attentati dell’11 settembre.

Come dargli torto, da un lato. Ma dall’altro punto di vista ricordiamo bene come tale missione militare abbia portato fieramente il nome di Enduring Freedom, ma nonostante 20 anni di guerra il risultato auspicato non è forse stato così duraturo. Ma se nessuno parla di “guerra persa” forse non è solo per paura di sembrare disfattisti.

L’intervento statunitense in Afghanistan è infatti parte di un conflitto più ampio, iniziato prima del 2001 e che sta continuando ancora dopo il ritiro occidentale, che negli anni ha visto protagonisti non solo i talebani, ma anche altri gruppi come l’Alleanza del Nord, e che non ha visto l’intervento solo della Nato, ma anche dell’Unione Sovietica: un unico conflitto nel quale si può vedere da decenni una continuità e in cui, visto come si è svolto fino a questo momento, mettere un punto e stilare una lista di vincitori e vinti rischia di essere un esercizio complesso.

In questa situazione, gli Stati Uniti possono dire di aver centrato l’obiettivo di eliminare Bin Laden e al-Qaeda, non certo di aver “esportato la democrazia” in Afghanistan, né di aver rovesciato il regime dei talebani, ma stando ai discorsi di Biden questi due obiettivi di bushiana memoria sembrano essere stati messi da parte.

Ma questo ci fa capire una cosa. Nella nostra mentalità, tante volte, le guerre di oggi sono come quelle che studiamo nei libri di storia: grandi conflitti che hanno come obiettivo la resa incondizionata di un nemico o l’annessione di un territorio, ma da molto tempo i conflitti hanno cambiato modalità, e con essa i parametri che permettono a una guerra di essere vinta o meno. Se andiamo a vedere la maggior parte degli interventi militari compiuti dagli eserciti occidentali dalla caduta del muro di Berlino a oggi, sono interventi mirati in conflitti specifici, si pensi ad esempio in Bosnia e Kosovo dove l’obiettivo era quello di fermare determinate azioni del governo jugoslavo, o attacchi specifici in contesti bellici, come gli attacchi compiuti dagli USA contro obiettivi siriani legati al governo di Assad. Per quanto gli obiettivi iniziali possono essere stati centrati, è difficile parlare di guerra vinta o guerra persa, perché il ruolo occidentale spesso si focalizza su questioni specifiche, talvolta quasi chirurgiche. E in seguito a interventi così mirati, molti parametri bellici tradizionali divengono fumosi, e ognuna delle parti in causa può dire di aver centrato l’obiettivo o di non essersi piegata all’intervento: poi sono i fatti successivi a dire cosa sia accaduto.

Nel caso afghano, l’intervento è durato ben 20 anni nei quali è successo di tutto, ed è difficile immaginare che a Washington possano essere soddisfatti di aver riconsegnato il Paese in mano ai talebani, nonostante le migliaia di morti da ambo le parti. Tuttavia, l’impostazione bellica occidentale degli ultimi anni è tale per cui, paradossalmente, Biden può parlare alla nazione senza grossi problemi rivendicando di aver raggiunto gli obiettivi principali post 11 settembre. Ma ha vinto o perso la guerra? Questo sarà lavoro per gli storici di domani, ai posteri l’ardua sentenza.

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