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Quando mi sono resa conto di non essere italiana

Immagine di copertina
Ilham Mounssif

La storia di Ilham Mounssif, studentessa sarda, che si sente a tutti gli effetti cittadina del paese in cui è cresciuta, senza esserlo sulla carta

Ci si rende conto di non essere italiani quando all’aeroporto ti dividi dagli amici tra la fila dei cittadini comunitari e quelli extracomunitari.

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Ci si rende conto di non esserlo quando presenti domande di iscrizione a Università che chiedono se hai il permesso per stare nel tuo paese, o quando vuoi cogliere l’opportunità della tua vita per fare la carriera che sogni ma manchi del più banale requisito: la cittadinanza.

Ci si rende conto di non esserlo, con amarezza, quando i tuoi amici chiedono consiglio a te su come e chi votare, a te che sei laureata in Scienza della Politica e delle Relazioni Internazionali, appassionata della cosa pubblica, ma che non puoi esercitare questo diritto/dovere.

Ci si rende conto di non esserlo, in maniera clamorosa, quando alla Camera dei deputati vieni invitata per esser premiata tra le eccellenze universitarie, ma nel momento in cui chiedi di visitare l’aula dei lavori non ti viene permesso l’ingresso perché cittadina extracomunitaria. E se non ci avesse pensato la presidente Laura Boldrini a rimediare, ancora avresti sentito il peso dell’ennesima umiliazione e dell’ennesimo rifiuto.

Mi chiamo Ilham Mounssif, ho 22 anni, nata nella splendida Marrakech ma da oltre 20 anni residente in Sardegna, terra che considero mia, inevitabilmente. I miei genitori sono entrambi marocchini, e io sono dal punto di vista identitario e de facto, italiana e sarda, nonostante il sangue magrebino e i lineamenti arabeggianti.

Ma non per legge: una legge anacronistica e superata dalle odierne istanze sociali, che non possono più essere disciplinate da una normativa entrata in vigore quando c’erano poco più di 600mila stranieri in Italia, mentre oggi se ne contano 5 milioni, di cui oltre un milione nati qui e altre centinaia di migliaia cresciuti in mezzo a voi/noi (imbarazzante momento di indecisione nella scelta del pronome!).

Quella legge più vecchia di me, la 91/92, àncora la trasmissione della cittadinanza allo ius sanguinis, permettendo in alternativa solo l’acquisizione per residenza dopo 10 anni di permanenza nel territorio della Repubblica (se si rispettano determinati requisiti), oppure dopo 18 anni se nasci in Italia.

Intanto, notate bene il paradosso: un comune immigrato la può richiedere dopo 10 anni, mentre chi nasce e cresce in Italia deve attendere i fatidici 18 anni e correre nel Comune di residenza per farne richiesta, perché se osa far passare un anno dal compimento della maggiore età è perso, andato. Perde il ‘diritto’ alla cittadinanza, così da sottostare dai 19 anni in poi alle regole per comuni immigrati che spontaneamente decidono di vivere in Italia, cosa che difficilmente fai quando ci nasci o ti ci portano in tenera età. 

E credetemi che in quell’anno di tempo gli intoppi burocratici e i ritardi non mancano.

Ma questa è solo una chicca. E di storie di #italianisenzacittadinanza ne sentiamo ogni giorno a bizzeffe (retaggio linguistico derivante dall’arabo magrebino bezaf, cosi giusto per ricordarci ogni tanto che non siamo poi cosi distanti e diversi).

Ma il Marocco dista da me 20 lunghi anni. L’ho potuto appurare personalmente grazie alla mia esperienza di servizio civile: pronti al prossimo paradosso? Sì, io cittadina marocchina sono stata da ottobre scorso fino a settembre Casco Bianco italiano (che per definizione è chi si presta alla lotta non armata, alla difesa della patria e alla promozione dei suoi valori fondamentali), nel mio paese d’origine.

Per scelta, perché sarebbe stata la prima volta in cui avrei potuto sperimentare la vita in Marocco e conoscere il paese in cui sono stata messa al mondo, e per costrizione in un certo senso, perché scegliere un altro paese e starci un anno significava perdere la possibilità di tornare a casa, in Italia.

Significava la revoca della carta soggiorno, sia perché avrei trascorso il limite massimo di tempo di 12 mesi all’estero, da cui cessa di validità la carta, e sia perché avrei dovuto chiedere il permesso di soggiorno nell’altro paese. Un permesso inevitabilmente incompatibile con quello italiano, mica posso collezionare permessi di soggiorno ovunque vada.

Questo paradosso della ‘collezione di permessi’ l’ho affrontato anche in Erasmus in Francia (NB: Erasmus, programma di studi comunitario, e Francia, paese Ue), quando ho rischiato di dover rinunciare alla già avviata esperienza di studi transazionale perché per soggiornare lì oltre tre mesi è doveroso fare richiesta di permesso, ma avendo la carta di soggiorno italiana quest’ultima sarebbe stata compromessa.

Far finta di nulla approfittando della libera circolazione in Europa, che permette di fatto di varcare le frontiere nazionali serenamente con carta di soggiorno a tempo indeterminato, sarebbe stato un enorme rischio, perché bastava un controllo in treno o anche all’Università per appurare che io, trascorsi tre mesi, mi trovavo in una situazione irregolare in territorio francese.

Alla fine, la vicenda si risolse con un rilascio di permesso di soggiorno francese provvisorio. Io, che in fondo ero semplicemente andata al di là delle Alpi. Per un Erasmus.

Ma la questione di fondo, al di là delle ambiguità della legislazione comunitaria che non disciplina queste fattispecie legate ai programmi di studio/tirocinio per studenti non comunitari ma possessori della carta di soggiorno (frutto dell’adeguamento normativo nazionale sulla base del regolamento comunitario!), è che io, in Italia, non sono arrivata ieri.

Io sono qui da 20 anni. Io sono italiana. Ma non posso esserlo formalmente perché l’attuale legge prevede che io debba dimostrare di avere un reddito autonomo e continuativo per almeno 3 anni, nonostante sia una studentessa. Posso far valere quello familiare, sì, peccato solo che neanche in quel caso possa soddisfare quel requisito perché purtroppo non raggiunge la soglia richiesta.

Insomma, sono una povera studentessa. E alla faccia mia c’è chi dopo 10 anni ottiene il passaporto non sapendo neanche parlare un buon italiano, ma solo perché dimostra di avere quel reddito (spesso e volentieri gonfiato ad hoc).

Mentre chi nasce, cresce, studia e usufruisce dei miliardi investiti dallo Stato per sanità e istruzione, a causa della miopia di certa politica nostrana, vede vanificati tali sforzi, perché lo Stato non fa la cosa più banale e a costo zero che è in suo potere: riconoscere la cittadinanza ai suoi figli.

E la riforma sulla cittadinanza – che tutti chiamano #Iussoli ma ius soli non è – questo prevede: riconoscere un diritto di chi è già italiano, un diritto a bambini e giovani italiani che non possono essere relegati ai margini di questa società e sentire la zavorra dell’esclusione e la clessidra dello scadere del permesso di soggiorno. In casa propria. Nell’unico paese che conoscono, di cui parlano la lingua, che amano ma da cui non sono amati abbastanza. 

È una riforma temperatissima che altro non è che la semplice integrazione dell’attuale disciplina in materia di cittadinanza, che riconosce chi è già italiano di fatto. Non bevetevi le bufale sui barconi e la cittadinanza gratis e facile.

Molto più facile per gli sciacalli della politica mettere contro chi è profondamente uguale nel senso di appartenenza e devozione verso una patria.

Perché ognuno di voi/noi ha a che fare con amici/compagni/fidanzati/colleghi italianissimi magari con nomi bizzarri e un po’ più colorati o dagli occhi stirati, ma che da sempre considera uguali a sé, mentre oggi cercano di convincerci che siamo diversi e che sia un merito e un privilegio definirci italiani: in realtà consiste in un banale gruppo sanguigno e nel destino che ha deciso che quell’ovulo che è stato fecondato fosse di una italiana da generazioni. Punto.

Essere italiani è la cultura, il sapere, la scuola, veicoli privilegiato per la costituzione di un’identità e la trasmissione di quei valori che stanno alla base di essa, i valori della nostra Repubblica.

Ius culturae e ius soli temperato sono un piccolo passo per favorire l’integrazione dall’alto, perché quella dal basso è già compiuta, anzi non ci tocca neanche perché siamo già italiani.

Un diritto proprio non esclude diritti altrui. Più diritti ci sono, più possiamo affermare di vivere in una società giusta ed egualitaria. I diritti si sommano, e insieme fanno la felicità della collettività.

Questo paese dobbiamo amarlo, tutti. Io lo amo, è grazie ad esso che sono la persona che oggi sono. Vado fiera del mio passato e del mio presente. Ed è proprio per questo che lotto in questa battaglia per la riforma della cittadinanza, per avere un futuro migliore per chi verrà e per l’Italia stessa.

È una riforma per il bene di tutti.

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