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Io, da 24 anni malato di Aids, ho nascosto il mio segreto per non rimanere solo

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La lunga battaglia di Roberto, che per un decennio non è riuscito a confessare la propria omosessualità e la patologia che lo affliggeva per paura dei pregiudizi

Ogni giorno in Italia 11 persone scoprono di essere sieropositive. Secondo l’Istituto superiore di sanità le nuove diagnosi di infezione da Hiv sono 4mila l’anno. Siamo il secondo paese in Europa per incidenza di Aids, dopo il Portogallo. Gli italiani si ammalano per disinformazione e ignoranza sulle modalità di trasmissione di un virus che nel biennio 2012-2013 ha causato 645 decessi.

Attualmente la modalità principale di trasmissione è quella sessuale, in particolare quella eterosessuale. Le notifiche di infezione di Hiv associate a questo tipo di trasmissione sono aumentate dall’8 per cento del 1985 all’85,5 per cento del 2015.

L’Hiv è un virus che si ciba delle cellule cd4, un sottoinsieme dei nostri globuli bianchi. Una volta entrato nell’organismo si avvia il processo per il quale si creano sempre più copie del virus e sempre meno cellule cd4. L’organismo si accorge che ci sono pochi globuli bianchi di tipo cd4 e quindi li crea, alimentando il virus. La malattia abbassa le difese immunitarie rendendoci più esposti ad altri virus e meno resistenti alle infezioni, che in breve tempo si aggravano.

Ma si può vivere con questa malattia? Come si affronta la quotidianità? Cosa significa essere malati di Hiv?

Roberto R. è sieropositivo da 24 anni, ha scoperto di avere la malattia nel 1993 quando non c’erano cure e le prospettive di vita erano basse. I medici gli avevano dato tra i 5 e gli 8 anni di vita.

“Ho iniziato la mia attività sessuale negli anni Ottanta, quando il preservativo era visto come uno strumento per evitare le gravidanze indesiderate, non come una protezione contro le malattie, e avendo solo rapporti con maschi non avevo interesse ad usarlo”, racconta Roberto a TPI. “Conducevo una vita affettivamente vuota e sessualmente disordinata, ma non vivevo ai margini della società. Mi informavo, lavoravo, leggevo i giornali, ero perfettamente a conoscenza del fatto che attraverso i rapporti sessuali avrei potuto contrarre diverse malattie e anche l’Hiv che faceva un po’ paura. Ciò nonostante, il mio atteggiamento nei rapporti sessuali era ballerino, nel senso che mi adeguavo totalmente alle esigenze del partner del momento, senza imporre l’uso del preservativo”.

Nel 1989 Roberto scopre di avere un’infezione alla bocca che nonostante le cure non guarisce. Scatta in lui il campanello d’allarme per controlli più approfonditi, ma il primo test dell’Hiv risulta negativo. Da quel momento Roberto decide di controllarsi tutti gli anni, ripetendo il test una volta ogni sei mesi.

“Nonostante lo spavento e la gioia di scoprire di non essermi ammalato, ho continuato il mio regime sessuale a rischio, ripetendo i test sempre con una certa ansia, ma senza mai cautelarmi nella pratica”, spiega Roberto. “Una volta avuto il risultato tornavo a fare esattamente le stesse cose di prima: forse non ero così affezionato alla mia vita in quel momento, come se non me ne fregasse più di tanto”.

Poi la scoperta, nel 1993, quando Roberto aveva 36 anni. “Ho subito chiesto quanto tempo mi restasse da vivere. I medici non si sono sbilanciati. Per sfinimento mi hanno parlato di un orizzonte temporale che andava dai cinque agli otto anni, ma tutto dipendeva dallo sviluppo della malattia”.

Come avrebbe mantenuto il segreto? Come avrebbero reagito i genitori? Queste le vere preoccupazioni di Roberto.

La sua omosessualità non era mai stata rivelata a nessuno, specialmente al padre severo e contrario alle relazioni omosessuali, mentre la madre era già troppo devastata dalla sua personale lotta alla leucemia per poter soffrire una notizia del genere. Roberto decide così di tacere.

“Mio padre era dichiaratamente contro i gay, nel senso che avrebbe preferito morire piuttosto che avere un figlio omosessuale. Io per carattere sono sempre stato debole e non ho mai affrontato le discussioni”, spiega così Roberto la sua decisione di non raccontare la malattia. “La mia vita è stata perennemente condizionata dalla necessità di nascondere omosessualità e patologia. Ho mantenuto il segreto, ma è stato come indossare una maschera ogni giorno. Non era solo mentire, ma anche dover essere uguale alla persona che ero prima di scoprire di essermi ammalato, altrimenti gli altri avrebbero capito”.

Un segreto custodito per anni, tra le difficoltà della malattia e la necessità di dissimulare con tutti, cercando di andare avanti come se nulla fosse mai accaduto, come se Roberto fosse sempre lo stesso.

Nessuno sapeva, troppa la paura anche di perdere il lavoro o di essere ghettizzato. Roberto non lo rivela nemmeno ai suoi partner occasionali: “nei rapporti sentimentali e sessuali decisi di non dire, nel senso che a domanda diretta lo confessavo, ma se non si affrontava il tema omettevo, ovviamente prendendo però le precauzioni del caso e usando il preservativo”.

Nel 1997 la madre di Roberto muore e nello stesso anno le prime cure per l’Hiv arrivano anche in Italia. “Nel giro di sei mesi le cose erano cambiate radicalmente”, spiega Roberto, raccontando la decisione di sottoporsi alle terapie. “Secondo le mie analisi del sangue, c’era una ripresa dei cd4, il virus si replicava poco, la situazione era destinata a migliorare”.

Il problema delle prime cure messe sul mercato erano gli effetti collaterali. Uno dei più debilitanti era la lipodistrofia, un disturbo che modificava il metabolismo con una ridistribuzione del grasso sottocutaneo. Chi assumeva i farmaci dimagriva in maniera evidente negli arti e nel viso, mentre il grasso si depositava sulla pancia e sulla nuca.

Nonostante gli effetti evidenti delle terapie sul corpo, Roberto mantiene ancora il segreto con il padre, portando avanti una vita che comincia a stargli sempre più stretta.

“La salute andava meglio, ma cominciavo a soffrire la solitudine”, afferma Roberto. “Il lavoro era la mia ancora di salvezza, ma non ero soddisfatto. Per questo nel 2003 ho preso la decisione di entrare a far parte dell’Associazione solidarietà Aids (Asa) di Milano per offrire il mio supporto e per confrontarmi con chi fosse ammalato come me. La mia vita è cambiata radicalmente”.

Nel 2006 muore il papà di Roberto, un evento che lui definisce “una liberazione da una vita di segreti e bugie”. Comincia così un’attività nella vita dell’associazione, dove Roberto stabilisce relazioni più profonde, dove si sente compreso e protetto e dove può aiutare il prossimo.

“Ho potuto testimoniare che si può vivere nonostante la malattia, rassicurando le persone che l’hanno contratta negli ultimi anni e cercando di diffondere l’importanza di fare prevenzione”.

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