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Sardegna: Cronache dal fango

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19 novembre, il giorno dei morti. Uno scrittore sardo racconta la sua regione affogata nella pioggia

Lo sento: qualcosa di tremendo sta per accadere sui cieli sopra di noi, qualcosa di eccezionale perché l’autunno, troppo lungo e mite, non rimarrà estate in eterno. Da quando ricordo seguo maniacalmente vita e morte di alte e basse pressioni, come oggi che sul web vedo in geografie lontane prepararsi potenti eserciti di nuvole. E infatti eccole, eccole muovere a grandi passi verso di noi, intenzionate a gettarci in bocca all’inverno, a spezzare coi soffi del nord l’abbraccio del nostro tiepido mare, un tempo amico leale.

Domenica 17 novembre, sera. Comincia a delinearsi una previsione che diventerà presto certezza. La Sardegna viene rapidamente stretta da un cupo anello di nubi, e venti furiosi soffiano come tiranni sui nostri destini spianando la via a cicloni ben più iracondi. Ma è oggi, lunedì 18, che le forze della Natura sprigionano tutta la loro rabbia. Ora dopo ora lo scirocco si fa bue scannato, tiranno capriccioso, boia feroce. Qui piove, piove e basta, e i tuoni ringhiano di là dai monti, dietro il Gennargentu che divide in due il clima dell’Isola: a oriente la tempesta, a ovest un benefico pianto del cielo.

Proprio come disse un nostro scrittore, La Sardegna è quasi un continente. Per questo dalla mia posizione privilegiata e sicura seguo attimo per attimo l’evolversi della situazione generale. La pioggia battente di fuori è la colonna sonora di un film dell’orrore che si gira lontano da qui. In poche ore si è creata a tutte le quote una condizione particolare che prepara, come di rado avviene, la nascita di immensi castelli di nubi nere. Lo scirocco è incontenibile anche qui, viene dal deserto d’Africa, ruba l’umidità al mare, si scontra con i venti gelidi, avvolge, stritola la Sardegna per longitudini e latitudini. Poi l’isola scompare ai miei occhi e io non posso fare altro che intuirla sotto il buio manto del cielo, buio e lugubre, molto più di quello, pur compatto, che incombe sulla mia testa.

Le cronache cominciano a materializzarsi sotto forma di numeri: la direzione e la forza del vento, i millimetri di pioggia caduti. Come sempre in queste circostanze le zone più colpite sono quelle sopravento: il Sarrabus, l’Ogliastra, la Baronia, la Gallura litoranea, il Campidano a ridosso dei monti. È terribile come ogni aggiornamento mostri la crescita continua e spaventosa della pioggia che non è più pioggia mediterranea ma monsonica. Ho un vago malessere, la sensazione di qualcosa di incontrollabile, di un disastro prossimo venturo che si sta originando a dispetto di noi. E infatti, mentre scende la più cupa delle sere, cominciano a giungere una dopo l’altra, una più terribile dell’altra le prime notizie dai luoghi maggiormente interessati.

Così il cielo che si sfa in tormenta e l’aria che diventa acqua fanno correre i ruscelli sui greti di solito aridi, li fanno correre dove possono, li precipitano dai monti, li fanno dilagare nelle pianure con grande danno. Dovunque la corrente è terrore, per mala sorte di chi la vita e scelte urbanistiche spesso imposte hanno costretto a vivere nella paura. La cronaca incalza come le scariche di grandine, ritmica, ossessiva, inarrestabile: notizie vere e notizie vaghe si stipano sui media. Le seguo in angoscia. E comincio a sapere di città e paesi inondati; comincio a sapere di morti. Con la notte apprendo della pensionata di Uras, la prima di una lunga serie di vittime. Veglio fino a tardi per conoscere, mentre passano le ore ma non le tempeste; passano le ore e arrivano nuove sempre più luttuose.

Non so se sia riuscito a riposare: il dormiveglia della stanchezza è affollato di annegati, anime innocenti trascinate al mare da correnti fangose. E la livida alba che sorge, apre al 19 novembre, il giorno dei morti, dei bambini invano stretti al cuore dai genitori, dei vecchi, dei malati, di un poliziotto eroico, è il giorno in cui la Natura continua a impazzire, o almeno così ci sembra, a trasportare tutto quel che trova, a riempire d’acqua e di fango ogni scantinato, ogni casa pericolosamente esposta alla furia delle onde. La gente urla, piange, lotta strenuamente, impreca e maledice mentre i fiumi improvvisi si abbattono sulle rocce e nei burroni, trascinano nei baratri della terra erosa e squarciata cristiani e animali. Alla luce dei lampi le campagne non sono più nude perché le copre un lenzuolo melmoso dove si ammassano i poveri averi dei poveri.

Eppure l’acqua dovrebbe essere per tutti una grazia ineffabile, sola fonte di vita, ricchezza che non può mancare né al padre né al figlio. Dovrebbe essere per noi la sorella che placida va al mare e dal quale poi ritorna. Come una grazia potente, come il più prezioso dei doni dovrebbe imprigionarsi sotto terra, pronta alla nostra vita. Ma così non è se l’uomo si erge a signore assoluto della terra e del cielo; così non è se le sue scelte, spesso stupide e scellerate, lo portano a dimenticare per avidità le leggi della Natura e a imporre le sue. Così non è per Olbia, Torpè, Onanì, Bitti, Oliena; così non è per Uras e Terralba; né per le sedici vittime immolate sull’altare dell’egoismo. E così non fu per Villagrande Strisaili nel dicembre del 2004, per Capoterra nell’ottobre del 2008 e per tutte le altre volte in cui ebbe la meglio la bestia sulla ragione e sul cuore.

Eliano Cau per The Post Internazionale

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