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Ecco perché non andare a votare al referendum sulle trivelle

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Lo spiega a TPI Umberto Minopoli, presidente dell'Associazione Italiana Nucleare che fa parte del comitato per l’astensione, Ottimisti e razionali

Il 17 aprile si terrà il cosiddetto referendum anti-trivelle (qui di cosa si tratta). Il 15 febbraio 2016, su proposta del Consiglio dei ministri, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha indetto il referendum abrogativo, poi pubblicato sulla Gazzetta ufficiale. 

PERCHÈ NON ANDARE A VOTARE? 

Ce lo spiega Umberto Minopoli, presidente dell’Associazione Italiana Nucleare che fa parte del comitato per l’astensione, Ottimisti e razionali.

“Il non voto ad un referendum è una facoltà ampiamente legittimata dalla Costituzione, riservata a tutti quelli che non comprendono o si oppongono alla motivazione. Non a caso il referendum è l’unica forma di espressione del voto che prevede un quorum di validità.

È già successo in passato senza sollevare alcuno scandalo come in quest’occasione. Entrando nel merito della questione, ritengo assolutamente insussistente il quesito referendario. Il fatto che dopo 45 anni di concessioni, le 11 piattaforme oggetto della norma sottoposta a referendum, non possano completare le loro estrazioni di gas e petrolio, è incomprensibile sia per ragioni economiche che di buon senso.

Saremmo chiamati a sostituire quelle quantità estratte con importazioni di gas e petrolio che accrescerebbero i pericoli ambientali per il modo in cui arrivano nel paese. Bisogna invece valorizzare le risorse della nazione. Il referendum non è inutile, ma anzi è dannoso, perché si propone di eliminare dalla bilancia energetica una quantità che riguarda il 10 per cento del fabbisogno, tenendo conto che già importiamo l’80 per cento dell’energia che ci serve.

Diventeremmo totalmente dipendenti dal petrolio estero. Coloro che sostengono che sarebbe meglio investire sulle energie rinnovabili parlano senza conoscere i fatti: l’Italia ha già investito tanto sulle rinnovabili e ha già raggiunto l’obiettivo Europa 2020 (ndr: riduzione delle emissioni di gas serra del 20 per cento rispetto al 1990, il 20 per cento del fabbisogno di energia ricavato da fonti rinnovabili e l’aumento del 20 per cento dell’efficienza energetica) con tre anni di anticipo.

Siamo andati già molto oltre l’obiettivo dell’utilizzo di energie rinnovabili. E poi c’è da sottolineare che le energie rinnovabili non sono sostitutive bensì integrative delle energie fossili. I pannelli solari o gli impianti eolici lavorano solo per determinare ore al giorno e per cui c’è comunque sempre bisogno di altri tipi di energie da integrare.

Consideriamo inoltre cosa significherebbe sostituire il 10 per cento di energia derivante da gas e petrolio con il 10 per cento derivante da pale eoliche o fotovoltaici: per produrre la stessa quantità di energia servirebbero impianti per un’estensione pari a quella di almeno tre regioni d’Italia”.

COSA C’È DA SAPERE SUL REFERENDUM – Il referendum del prossimo 17 aprile è stato promosso da nove regioni italiane contro i progetti petroliferi del governo: Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise. Inizialmente erano dieci, poi l’Abruzzo si è tirato indietro. La Costituzione italiana prevede infatti che un referendum possa essere indetto su richiesta di almeno 5 consigli regionali. È la prima volta nella storia repubblicana che questa possibilità viene messa in atto.

Il quesito referendario recita: “Volete che, quando scadranno le concessioni, vengano fermati i giacimenti in attività nelle acque territoriali italiane anche se c’è ancora gas o petrolio?”. Sono materia di referendum solo le trivellazioni già in atto entro le 12 miglia dalla costa.

L’attuale legge in materia, il decreto legislativo 152 del 2006, il cosiddetto codice dell’ambiente, all’articolo 6, comma 17 stabilisce che “ai fini di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, all’interno del perimetro delle aree marine e costiere a qualsiasi titolo protette per scopi di tutela ambientale, in virtù di leggi nazionali, regionali o in attuazione di atti e convenzioni internazionali sono vietate le attività di ricerca, di prospezione nonché di coltivazione di idrocarburi liquidi e gassosi in mare”. 

Il quesito propone di abrogare una frase dell’articolo che recita: “I titoli abilitativi già rilasciati sono fatti salvi per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”, che permette di continuare a sfruttare il giacimento finché ci sarà gas o petrolio e non finché scadrà la concessione.

Secondo l’articolo 75 della Costituzione, la proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto, e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. È necessario quindi un quorum per renderlo valido e la coincidenza con le elezioni amministrative avrebbe certamente reso questo obiettivo più facile. 

Se vincerà il SÌ non sarà possibile continuare a sfruttare i giacimenti petroliferi dopo la scadenza delle concessioni entro le 12 miglia. Tale disposizione in ogni caso non si applicherebbe alle trivellazioni sulla terraferma e a quelle che si trovano oltre le 12 miglia. Se vincerà il NO nessuna frase della legge verrà abrogata e tutto rimarrà com’è. 

— LEGGI ANCHE: ECCO PERCHÈ VOTARE SÌ AL REFERENDUM SULLE TRIVELLE

IL REFERENDUM SULLE TRIVELLE DEL 17 APRILE PER I GIACIMENTI PETROLIFERI DEL MAR ADRIATICO
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