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Omicidio Loris Stival: udienza d’appello contro la madre, confermata la condanna a 30 anni di carcere

Immagine di copertina

La Corte d'assise d'appello di Catania è stata chiamata a pronunciarsi in secondo grado, dopo la condanna in primo grado, nel 2016, a 30 anni di carcere

Oggi, 5 luglio 2018, è iniziata l’ultima udienza del processo contro Veronica Panarello, la donna condannata a 30 anni di reclusione per l’uccisione e l’occultamento del cadavere del figlio Loris di 8 anni. Il bambino fu assassinato con delle fascette di plastica da elettricista il 29 novembre del 2014 nella sua casa di Santa Croce Camerina, in Sicilia.

Il tribunale ha confermato la condanna a trent’anni.

A pronunciarsi nel processo di appello contro la donna è la Corte d’assise d’appello di Catania.

L’imputata è presente in aula insieme al suo legale, l’avvocato Francesco Villardita. Per la prima volta presente anche il marito della donna, e padre della vittima, Davide Stival.

Il caso dell’omicidio di Loris Stival

Il 29 novembre 2014, intorno alle 13, Veronica Panarello si presentava alla stazione dei Carabinieri di Santa Croce Camerina, per sporgere denuncia per la scomparsa del figlio di 8 anni, Loris.

La donna raccontò di aver accompagnato il figlio a scuola, ma all’uscita le maestre hanno affermato che il bambino non entrò mai a scuola. Subito furono avviate le ricerche nel paese e nelle zone  limitrofe. Alle 16 dello stesso pomeriggio, un contadino chiamò i carabinieri per riferire di aver ritrovato il cadavere di un bambino in un canalone nel pressi del Mulino Vecchio, nell’estrema periferia di Santa Croce Camerina.

Poco dopo i carabinieri giunsero sul posto, e la stessa Panarello vi si recò per il riconoscimento del cadavere, che risultò essere del figlio.

La madre della giovane vittima fu interrogata in Procura, e in seguito arrestata con l’accusa di omicidio e occultamento di cadavere.

L’autopsia stabilì che il piccolo Loris Stival era morto tra le 8.30 e le 10 del 29 novembre, per strangolamento. Le indagini seguenti stabilirono che l’arma del delitto erano delle fascette di plastica.

La madre si è dichiarata innocente, partecipando a numerose trasmissioni televisive per raccontare le sue versioni dei fatti.

Racconti che sono variati molto nel tempo. Inizialmente la madre aveva raccontato che il bambino non voleva andare avanti, e i suoi capricci avevano scatenato una reazione negativa da parte sua. Successivamente la donna raccontò che mentre lei era distratta, il figlio si era autostrangolato giocando con le fascette. Udite le urla, la madre avrebbe tentato di soccorrere il figlio, ma era troppo tardi e allora, temendo la reazione del marito, avrebbe caricato il figlio morto in macchina per gettarlo nel canalone in cui fu ritrovato.

L’anno successivo la versione di Veronica Panarello cambia ulteriormente: la donna racconta che Loris fu ucciso dal nonno paterno, con il quale lei aveva avuto una relazione. Il bambino era stato ucciso perché aveva scoperto la relazione. Il nonno del bambino si è sempre difeso dalle accuse, definendole calunnie.

L’iter del processo

Il 17 ottobre 2016, a seguito del processo con rito abbreviato condizionato a perizia psichiatrica richiesto dall’Avvocato Francesco Villardita,Veronica Panarello viene condannata dal Tribunale di Ragusa a 30 anni di carcere per l’omicidio del figlio.

Il tribunale ha disposto anche il regime di libertà vigilata per cinque anni e il risarcimento delle parti civili riconosciute: 350 mila euro al marito e 100 mila euro a ciascuno dei suoceri.

Secondo il Gup Andrea Reale, non si è trattato di omicidio premeditato, bensì un “dolo d’impeto, nato dal rifiuto del bambino di andare a scuola quella mattina e dal diverbio nato con la madre, il contenuto è conosciuto soltanto all’imputata, dettato da un impulso incontrollabile, da uno stato passionale momentaneo della donna”.

Si è trattato, secondo i giudici, di “figlicidio per vendetta, successivamente ribattezzato sindrome di Medea”.

La donna è stata definita, dal tribunale del riesame “lucidissima assassina”, con una condotta “deplorevole, reiteratamente menzognera, calunniosa e manipolatrice”.

Il 5 luglio 2018 la Corte d’assise d’appello di Catania è stata chiamata a pronunciarsi in secondo grado, confermando la condanna a 30 anni.

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