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L’italiano che si è finto migrante e ha raggiunto gli Stati Uniti attraverso il Messico

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Flaviano Bianchini racconta il suo viaggio del 2012 oltre il confine tra i due paesi, fatto per testimoniare le difficoltà che migliaia di persone vivono ogni anno

Flaviano Bianchini, classe 1982, è un naturalista e ambientalista fondatore di Source International, organizzazione non governativa che dal 2012 si occupa di offrire supporto scientifico alle comunità che subiscono violazioni dei diritti umani. 

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Flaviano nasce e cresce a Fabriano, nelle Marche. Si laurea in Scienze Ambientali presso l’università di Camerino e si specializza in Gestione e valorizzazione delle risorse naturali presso l’Università di Pisa. Nel 2010 vince una borsa di studio per frequentare un master in Diritti Umani e gestione dei conflitti presso la Scuola di Studi Superiori Sant’Anna di Pisa, una delle migliori università al mondo secondo la classifica annuale redatta dal settimanale britannico Times Higher Education

Dopo la pubblicazione dei suoi primi due libri di viaggio autobiografici – “In Tibet. Un viaggio clandestino” (BFS Edizioni, 2011) e “Taraipù. Viaggio in Amazzonia” (Ibis, 2014) – nel 2015 Flaviano sorprende con una nuova straordinaria avventura: “Migrantes. Clandestino verso il sogno americano” (BFS Edizioni). In questo libro diario – al momento disponibile in italiano e spagnolo (El camino de la bestia, Pepita de Calabaza, 2016) – Flaviano si sveste della sua identità europea privilegiata per trasformarsi nel migrante peruviano Aymar Blanco e tentare il viaggio verso il sogno americano allo stesso modo dei più di 1.500 migranti che ogni giorno percorrono la durissima rotta del Messico. 

Durante i 21 giorni di cammino, Flaviano/Aymar affronta così un asfissiante viaggio stipato insieme ad altri clandestini sul doppio fondo di un camion, i lunghi giorni esposto al freddo e al caldo torrido della “Bestia” – il carro merci che i migranti prendono al volo viaggiando sui tetti o tra un vagone e l’altro -, il sequestro di due giorni in un carcere gestito da una banda criminale, la traversata del deserto, la fame, la sete, ma vive anche gli incredibili gesti di solidarietà di un popolo povero, ma generoso come quello messicano.  

Qual è stato il motivo che ti ha spinto a intraprendere questa esperienza?

Vivendo in America Latina è un’esperienza con la quale ci si confronta tutti i giorni. Mi ricordo del mio primo giorno in Guatemala: un taxista mi raccontò del suo tentativo di raggiungere gli Stati Uniti e di come dovette rinunciarvi. Basta pensare al El Salvador, dove un quarto della popolazione vive negli Stati Uniti. Vedi migranti o parenti di migranti tutti i giorni. Sin dall’inizio ho sentito il desiderio di volerlo raccontare. 

Come ti sei preparato al viaggio?

La preparazione è stata principalmente fisica: ho cercato di mettermi in forma il più possibile, correndo e andando in bici. Per il resto c’è poco da prepararsi, è tutta una questione di fortuna e perseveranza. 

Tra il viaggio e l’uscita del libro c’è stato un lungo periodo di gestazione: perché?

Sono partito da Tecún Umán, Guatemala, il 18 gennaio 2012 e sono arrivato a Tucson, Arizona, il 5 febbraio 2012. Il libro è stato pubblicato a fine 2015. Ho impiegato diverso tempo a scriverlo perché non potendo prendere appunti durante il viaggio – non si è mai visto un migrante con carta e penna alla mano – ho dovuto rielaborare l’intera esperienza a posteriori. Inoltre volevo che al suo interno ci fosse tutto quello che avevo vissuto e provato. 

C’è stato un episodio in particolare – positivo o negativo – che ti è tornato spesso alla mente?

I giorni in carcere sono stati i più duri. Su quei due capitoli sono stato fermo quasi un anno. Quando pensavo di essere riuscito a mettere per iscritto i miei pensieri, li rileggevo e non mi sembrava che trasmettessero davvero quello che avevo provato. E di fatto non ci sono riuscito neanche nella versione finale, perché tuttora incontro persone che mi dicono che dal libro non traspare che quella è stata l’esperienza peggiore del viaggio. 

Arrivato a Tucson, hai ripreso la tua identità di Flaviano Bianchini. Quali sarebbero stati i passi di Aymar Blanco e come se la sarebbe cavata? 

Sulla storia di Aymar negli Stati Uniti si potrebbe scrivere un intero altro libro. Arrivare negli Stati Uniti per i migranti in realtà significa iniziare un altro viaggio, addirittura più difficile della traversata stessa. Aymar avrebbe dovuto ricrearsi un’identità da zero: è arrivato in città vestito di stracci e senza soldi, deve crearsi una rete di contatti, trovarsi un lavoro. Su 600mila persone che arrivano ogni anno negli Stati Uniti, poco più del 10 per cento riesce a vivere il sogno americano. La maggior parte dei migranti finisce invece a lavorare in terreni del sud o, nei casi peggiori, nelle bande di periferia, che sono la causa principale dell’odio americano nei confronti dei Latinos. 

In cosa sono simili e in cosa diverse l’immigrazione dal Sud al Nord America e le migrazioni dal Nord Africa all’Europa?

Sono simili nella brutalità del viaggio, nelle difficoltà che esso comporta e nelle motivazioni che spingono i migranti a intraprenderlo. Un altro aspetto riguarda i costi: si parla di cifre esorbitanti per entrambe le rotte. Tutti soldi che poi vanno nelle tasche della criminalità organizzata. Il paradosso assurdo è proprio questo: mentre i viaggi della speranza che partono da Città del Guatemala per Los Angeles costano ai migranti 8mila dollari e arricchiscono i trafficanti, un normale volo aereo ne costa 100 dollari e fa guadagnare aziende serie. Stessa cosa vale per i migranti che arrivano in Europa: la rotta balcanica costava ai migranti sui mille dollari, quando un normale traghetto costa 25 dollari andata e ritorno. 

Le due immigrazioni sono invece diverse per ciò che aspetta i migranti una volta terminato il viaggio. In Europa i migranti non se la passano bene, ma hanno più possibilità di inserirsi in un circuito di legalità attraverso il diritto di asilo o altri benefit destinati ai rifugiati. Negli Stati Uniti invece la maggior parte dei migranti rimane clandestina per tutta la vita. L’unica speranza è vincere la Green Card Lottery, ovvero una lotteria organizzata ogni anno dal Congresso degli Stati Uniti che mette a disposizione circa 50mila permessi di soggiorno. 

Davvero non ci sono altre alternative di diventare migranti regolari? Per esempio dimostrando di avere un lavoro presso un’impresa americana?

Per assumere uno straniero – e qui parlo anche per esperienza personale – un’impresa statunitense deve dimostrare che non ci sia nessun cittadino americano che abbia le capacità di ricoprire quel ruolo. L’intero iter costa all’impresa fino a 10mila dollari. Puoi ben capire che può farcela uno che esce da Oxford, ma che un contadino guatemalteco non ha nessuna speranza.

Anche l’acquisto della cittadinanza americana tramite matrimonio è molto difficile, in quanto uno dei severi requisiti per l’ottenimento prevede il possesso della Green Card da almeno tre anni. L’unica alternativa alla Green Card Lottery è quella di far nascere un figlio sul suolo statunitense. Per il principio dello ius soli che vige negli Stati Uniti, il figlio sarà a tutti gli effetti un cittadino statunitense. Proprio per questo motivo molte donne decidono di affrontare questo viaggio rischiosissimo al termine del periodo di gravidanza con la speranza di poter dare alla luce i cosiddetti “anchor babies” – letteralmente bambini ancora -, i quali però solo a 21 anni compiuti potranno richiedere il ricongiungimento familiare per i propri genitori. 

Esiste una soluzione al problema dell’immigrazione?

Per quanto riguarda gli Stati Uniti, al momento non c’è la volontà di dare un’opportunità a queste persone. Trump ha basato gran parte della sua campagna elettorale sull’odio verso i “messicani”, termine generico con il quale si intendono tutti i migranti da Sud e Centro America. In realtà la percentuale di migranti messicani è davvero minima rispetto a quell’80 per cento di migranti che arrivano da Guatemala, Honduras e El Salvador.

Mentre in Messico, nonostante le guerre dei narcos, si riesce ancora a vivere, in questi tre paesi non ci sono speranze, la povertà è estrema e la criminalità è a livelli pazzeschi. Basti pensare che nella classifica dei Paesi con i più alti tassi di omicidi al mondo tutti e tre i paesi spiccano tra i primi posti, ancor prima di stati in guerra in Africa e Medio Oriente.

Negli ultimi cinque anni ad Aleppo ci sono stati 5.400 morti all’anno. A Città del Guatemala, due milioni di abitanti come Aleppo, ci sono 5.200 omicidi all’anno da ormai un decennio. L’unico modo per fermare questo massacro è fare in modo che le condizioni di vita in questi paesi migliorino. Lo stesso discorso vale per gli stati d’origine dei migranti che arrivano in Europa. Deve diventare chiaro a chiunque che nessuna persona sana di mente intraprende un viaggio simile alla leggera. Si deve essere spinti da motivazioni fortissime per mettere a repentaglio la propria vita in questo modo. 


Conoscendo la realtà dell’America Latina, pensi che Trump sia davvero il nemico numero uno al momento?

Penso che sia ancora presto per capire se la sua è solo retorica o se effettivamente farà tutto ciò che promette. La cosa positiva è che gli Stati Uniti non sono una dittatura elettiva: tutte le nuove leggi devono essere prima passate al Congresso e lì possono essere fermate. Inoltre avere un nemico in alcune situazioni può risultare utile. In Messico, per esempio, la paura del muro ha fatto risvegliare l’orgoglio nazionale. 

Nel tuo libro scrivi che tra Arizona, New Mexico e Texas il muro si interrompe in diversi punti. Così come accadde durante l’amministrazione Bush, anche Trump promette di chiudere questi varchi e completare così i 3.145 chilometri di barriera che separa gli Stati Uniti dal Messico. Se questo dovesse davvero accadere, quali sono le altre strade percorribili dai migranti?

Davvero non credo che questi varchi verranno chiusi. Primo perché i costi sono proibitivi, secondo perché è una decisione che deve prima essere approvata dal Congresso. È vero che la maggioranza è rappresentata dal partito repubblicano, ma tutti i membri sono ben consapevoli che l’élite industriale e agricola statunitensi è basata sul lavoro di migranti illegali provenienti dal Centro e Sud America. 

Trump vorrebbe aggirare i costi proibitivi facendo pagare tutto al Messico…

Sì, e insistendo con questa assurdità Trump è riuscito addirittura a rendere simpatico il presidente messicano Peña Nieto! Un Presidente molto impopolare tra i messicani e indegno del mio rispetto, che però sull’argomento ha tenuto testa a Trump dichiarando che il suo paese non crede nel muro e che certamente non ne sosterrà le spese.

Pensi che le decisioni di Trump in America in merito all’immigrazione possano avere influenza anche sulla gestione dei migranti in Europa?

Temo di sì. Un esempio è l’ascesa di partiti come quelli di Le Pen e Salvini, ma anche dello stesso Movimento di Grillo che a mio parere sul tema migratorio tende a posizioni di estrema destra e ha un’ottica iper-giustizialista. Il percorso vittorioso di Trump ha ringalluzzito questi partiti che ne hanno ripreso le idee: l’annuncio di Trump riguardo al bando che vietava l’ingresso negli Stati Uniti a sette Paesi a maggioranza musulmana è stato citato 15 minuti dopo da Salvini. Nessuno di questi politici europei ha però notato – o meglio voluto notare – che tra questi sette paesi non compare l’Arabia Saudita, che ha avuto una parte fondamentale nell’attentato alle Torri Gemelle.  

Trump vuole tagliare i fondi all’EPA – Agenzia statunitense per la protezione dell’ambiente – per investirli nelle spese militari. Anche questa decisione avrà ripercussioni in Europa?

In campagna elettorale Trump sosteneva addirittura di voler chiudere questa Agenzia, quindi questi tagli sono tutt’altro che inaspettati. Purtroppo anche su questo tema temo che l’Europa lo prenderà ad esempio. L’obiettivo di Trump è far rientrare le imprese negli Stati Uniti e per fare ciò punta su sgravi fiscali e deregulation. Il primo effetto visibile sarà la riduzione del costo del lavoro, che però rappresenta in realtà solo il 2 per cento dei costi di un’industria. Il restante 98 per cento è invece rappresentato dai costi per il mantenimento delle infrastrutture: luce, olio, gas, filtri, depuratori e quant’altro.

Questi verranno dimezzati se non annullati dalla deregulation delle normative sull’ambiente, ovvero l’abolizione di obblighi vincolanti per le imprese posti a garanzia della tutela dell’ambiente. Qui sta il vero risparmio, sia economico che burocratico. E qualcuno in Europa sta già tentando di rilanciare questa idea per attirare nuovi investimenti sul proprio territorio. Gli Stati Uniti lo fanno per competere con Cina e Messico, noi lo facciamo per competere con gli Stati Uniti. 

Quali sono le sfide ambientali che l’Europa dovrà assolutamente affrontare nei prossimi dieci anni?

Senza dubbio il cambiamento climatico e l’utilizzo del territorio, due fattori strettamente interconnessi. Frane e alluvioni ci sono sempre state. Il fatto che la loro forza distruttiva sia ora maggiore è dovuto sì al cambiamento climatico che comporta una maggior frequenza di eventi climatici estremi, ma anche a un pessimo utilizzo del territorio.

Prendiamo ad esempio Genova, una città cresciuta a dismisura che si snoda su una catena montuosa, percorsa da fiumi che negli anni sono stati incanalati sotto terra e che nel 2014 ha subito un’alluvione devastante. Un altro esempio è l’alluvione del 1996 in Versilia, nella parte nordoccidentale della Toscana, che altro non è che una palude bonificata su cui è stato costruito sopra.

Questa edificazione selvaggia ha di fatto eliminato quelle zone “cuscinetto” che permettevano agli eventi climatici di fare il loro corso senza distruggere. E così si finisce per trattare un evento climatico come un arbitro di una partita di calcio: se vinciamo, siamo bravi noi; se perdiamo, è colpa sua. Io credo invece che il cambiamento climatico sia in atto, certo, ma che ci sia margine per poterci lavorare. 

Un’ulteriore sfida per l’Europa riguarda l’ammodernamento degli impianti industriali oramai obsoleti e inquinanti. In Italia si parla di impianti installati durante il boom economico tra gli anni Cinquanta e Settanta, nei paesi dell’Europa dell’Est il modello industriale è ancora quello sovietico.

Pensi che l’Unione europea ce la farà?

Ce la dobbiamo fare, non c’è alternativa. La situazione non sarà altrimenti sostenibile per gli stati né da un punto di vista ambientale né tanto meno da un punto di vista economico. Pensiamo al caso dell’acciaieria Ilva di Taranto, il maggior complesso industriale per la lavorazione dell’acciaio in Europa: lo stato si dovrebbe sì preoccupare per i morti, ma ancor di più per i vivi che prima o poi si ammaleranno e andranno a pesare sul servizio sanitario nazionale.

Stesso discorso vale per il fracking, una tecnica di fratturazione idraulica per estrarre gas naturale e petrolio dalle rocce del sottosuolo tramite l’iniezione di grandi quantitativi di acqua sotto pressione. L’utilizzo sfrenato di questa tecnica ha fruttato a Obama uno dei suoi più grandi successi: l’autosufficienza energetica e la successiva rimozione dei limiti all’export di petrolio nel dicembre 2015. Il beneficio economico attuale sta però offuscando gli enormi danni e costi pubblici che questa tecnica apporterà sul lungo periodo. Chi pagherà infatti quando fra 20 anni le falde acquifere del Sud Dakota saranno tutte inquinate? 

Come viene vista l’Europa dall’altra parte dell’Oceano?

Da un lato come una vecchia carretta, dall’altro un po’ di paura ne fa. D’altronde l’Europa unita rappresenta ancora la prima potenza economica del mondo e l’interesse nel vederla divisa è alto. Il sospetto è che i reciproci attacchi fra Stati Uniti e Russia altro non siano che una mossa orchestrata tra i due paesi per riuscire in questo intento.  

L’organizzazione Source International, di cui sei fondatore e direttore, è nata ufficialmente nel giugno 2012. Da quanto tempo lavoravi a questa idea e qual è la sua missione?

L’idea di fondare un’organizzazione come Source International è nata durante il mio primo progetto in Centro America nel 2005, subito dopo la laurea triennale. In una fiera a Milano che si occupa di consumo critico e stili di vita sostenibili chiamata “Fa’ la cosa giusta”, ho assistito all’intervento di una signora guatemalteca che denunciava con fervore l’impatto delle miniere a cielo aperto nel suo paese e la mancanza di dati scientifici a sostegno di questa denuncia.

Finito l’intervento, mi sono avvicinato e le ho chiesto il motivo di questa mancanza di informazioni. Mi ha risposto che gli scienziati non aiutano le comunità locali per paura di perdere il proprio posto di lavoro nel settore privato. Così mi sono proposto di aiutarla a creare questi dati. Un mese dopo ero in Guatemala con un biglietto di sola andata. Successivamente mi sono spostato anche in Honduras e El Salvador.

La missione di Source International si basa proprio su questo: offrire supporto scientifico alle comunità che subiscono violazione dei diritti umani specialmente da parte di grandi imprese estrattive, non solo in Centro e Sud America.

Com’è vista la tua attività dai governi di quei Paesi? 

Dipende da paese a paese, ma generalmente l’attivismo ambientale in Centro e Sud America è rischioso. Io stesso sono stato espulso dal Guatemala nel 2007 dopo aver vinto un processo contro una compagnia mineraria. Proprio oggi (tre marzo 2017 data dell’intervista, nda) ricorre l’anniversario dell’uccisione di Berta Cáceres, ambientalista e attivista honduregna, e del grave ferimento all’attivista messicano Gustavo Castro Soto, che, avendo visto in faccia almeno uno degli esecutori materiali del delitto, ancora oggi è costretto a vivere in Spagna per paura di ripercussioni.

Come si può sostenere Source International?

Sul nostro sito è possibile visualizzare i progetti attualmente in corso e donare tramite PayPal. Sempre sul nostro sito si trova il codice fiscale della nostra organizzazione a cui è possibile devolvere il Cinque per mille dalla dichiarazione dei redditi. Inoltre siamo sempre interessati alla collaborazione con scienziati, avvocati ed esperti di finanza disposti a lavorare pro bono. L’ambito è talmente specifico e professionale da essere sempre alla ricerca di volontari adeguatamente formati e specializzati. 


Quali sono i tuoi prossimi progetti? Hai in serbo altri viaggi?

Se ne avessi, non te li racconterei. Non li dico mai a nessuno. Per quanto riguarda Source International, stiamo ampliando il nostro ambito di attività anche a casi di inquinamento e danni alla salute dovuti a imprese dell’industria tessile, dell’agribusiness e di tutto ciò che ha un impatto ambientale negativo. Inoltre, oltre che in America, saremo presto attivi anche in Mongolia, Africa e Sud-est asiatico.

Questo articolo è stato pubblicato originariamente in lingua tedesca su Treffpunkteuropa con il titolo: DER ABENTEURER, MENSCHENRECHTS- UND UMWELTAKTIVIST FLAVIANO BIANCHINI IM INTERVIEW 

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