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I migranti fantasma

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Chi un tempo ambiva a trasferirsi in Italia, oggi la vede solo come una tappa intermedia. Per poi andare altrove

Abraham ha 30 anni, viene dall’Eritrea ed è in Italia da due settimane. Ha pagato più di 1,000 euro per arrivarci, con un barcone partito dalla Libia, e non ha nessuna intenzione di rimanere.

“Se vengo registrato, dovrò rimanere qui, dove però non c’è lavoro”, afferma, raccontando ad Al Jazeera di aver lasciato l’Eritrea a causa della profonda crisi economica.

La sua scelta lo accomuna a quelle di tutti quei migranti che, anno dopo anno, fuggono da Siria, Afghanistan, Libia e non solo, sfidando le acque del Mediterraneo pur di giungere sulle coste italiane.

Per molti, l’Italia oggi é un passaggio obbligato, necessario per poi andare altrove. La testimonianza di Saeed, un altro migrante proprio come Abraham, é la prova ulteriore di quanto questa tendenza sia diffusa tra coloro che migrano.

Non ancora registrato, Saeed é in attesa che la sua famiglia gli invii il denaro per raggiungere i Paesi Bassi, dove vive suo fratello. Quando gli viene chiesto se ha paura di essere fermato dalle autorità locali, risponde di non averne affatto, visto che insieme a lui ci sono tante altre persone nella stessa situazione che non vengono controllate.

Scegliere l’Italia sembrerebbe quindi un mero “incidente geografico”, un ponte che permette di arrivare ai vicini europei, o perché ritenuti in grado di offrire maggiori opportunità per migliorare la propria situazione economica, o per raggiungere i famigliari già stabilitisi in loco.

In base a un’indagine del 2013 condotta da Amnesty International, il 63 per cento dei migranti “irregolari” proverrebbe da Eritrea, Siria, Somalia e Afghanistan — tutti Paesi fortemente colpiti da continue violazioni dei diritti umani. Tra i soli richiedenti asilo, 9.384 sono di origine eritrea; 11.307 vengono invece dalla Siria, come emerge dalle statistiche del ministero dell’Interno.

Sulla base di queste premesse, le porte italiane non sarebbero altro che il baluardo dell’area nota come “zona di Schengen”. Essa è il frutto di un trattato concluso tra 26 stati europei che si pone, tra i vari obiettivi, quello di abolire i controlli sistematici delle persone presenti alle frontiere interne.

Questo, insieme alla normativa che impone al primo Paese di entrata il compito di esaminare la richiesta di asilo, dimostra perché coloro che approdano in Italia non vogliano sottoporsi a registrazione. Farlo significherebbe compromettere la possibilità di spostarsi in altri Paesi e di avvalersi del diritto al ricongiungimento famigliare.

“C’è un gap legislativo”, conferma Fabiana Giuliani, consulente legale dell’UNHCR a Catania, riferendosi alle lunghe tempistiche necessarie a registrare e raccogliere le impronte digitali degli ultimi arrivati. Una fonte anonima citata da Al Jazeera attribuisce questa criticità all’assenza di personale di polizia sufficiente a fronteggiare il sovrannumero di immigrati non registrati: ciò consente loro di uscire dal Paese e trasferirsi in altre città europee.

Gli interessi che si celano dietro alle storie di questi migranti con un volto, ma senza un’identità, passano in secondo piano quando si pensa a come arrivano in Italia, vittime del traffico illegale di esseri umani.

Secondo Aurora Capizzi, volontaria del Centro Astalli di Catania, si tratta di “un business che sfrutta le condizioni di miseria e disperazione degli individui”. Questa struttura costituisce una delle tante espressioni della solidarietà italiana e offre un sostegno legale e medico a qualsiasi migrante, registrato o meno, nonché il minimo indispensabile per l’igiene, come asciugamani, lenzuola o una semplice doccia.

Nella lotta contro le stragi in mare, il primo ministro italiano Renzi reagisce pressando il governo libico affinché condanni chiunque richieda cifre pari a un minimo di 740 euro per migrare con imbarcazioni di fortuna. La domanda è se questo sia sufficiente a fermare la volontà di chi, sebbene consapevole dei rischi, decida di mettere a repentaglio la propria vita pur di scappare da zone di guerra, considerate ben peggiori di una traversata in mare aperto.

È quanto sostiene Kheit Abdelhafid, imam della Moschea de la Misericordia, adiacente al Centro Astalli: “È l’unica scelta possibile, anche se la soluzione è imbarcarsi, senza sapere se arriverai o meno”.

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