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Home » News

“Io, primo ad arrivare dopo il crollo del ponte di Genova: ho visto le persone nelle auto morire”

Immagine di copertina
Il ponte Morandi crollato a Genova il 14 agosto 2018

Alejandro Cordova, uno fra i primissimi a essere giunti sul luogo del disastro, racconta per TPI quello che ha visto e fatto in attesa che arrivassero i soccorsi

Esclusivo The Post Internazionale (TPI.it) – Sono Alejandro e quella mattina ero diretto in magazzino in via Campi 1. Come tutte le mattine, sono passato con il bus 7 sotto al ponte Morandi. Sono arrivato in magazzino alle 10. Genova ponte Morandi testimonianza

S&D

Intorno alle 11 comincia a piovere a dirotto e in quel momento, come ogni burrasca che avviene a Genova, tutti si spaventano e pensano al peggio, sperando non si allaghi la città, e sperando non ricapiti ciò che è accaduto in passato… Il ponte era l’ultimo dei pensieri.

Si sente tuonare fuori e i primi centimetri d’acqua allagano i tombini. Io sono ancora dentro il magazzino e sto mettendo a posto. Passa mezz’ora con i tuoni sopra la testa: “Bombe d’acqua”, penso io.

Ma il peggio si manifesta alle 11.50: un enorme boato fa tremare la terra e le luci si spengono di colpo.

Dopo poco si riaccendono mentre mi dirigo verso l’uscita del magazzino. Esco fuori sotto la pioggia e vedo la gente dalle finestre piangere e domandarsi cos’è successo.

Seguo il loro sguardo verso il ponte che non c’è più, e vedo quello spazio vuoto nel cielo. Comincio a realizzare la gravità del disastro davanti ai miei occhi. Tiro fuori il telefonino e comincio a filmare perché non ci voglio credere (qui il video).

Dietro di me sento gente uscire dal palazzo e anche dalla palazzina del numero 2 vedo un uomo col keway rosso. Sono le 11.55 e i miei occhi guardano attraverso l’obiettivo la spaccatura del ponte. Allora sento l’uomo col keway rosso chiamarmi dall’altra parte della strada e capisco che non vuole rimanere a guardare.

Corro verso di lui con un altro ragazzo che non smette di fissare il ponte, mentre io ripeto che è caduto con le macchine sopra.

È successo tutto di fretta e non ho pensato tanto.

Seguo l’uomo di rosso e scavalchiamo il cancello delle ferrovie e, messo il telefono in tasca, corriamo incontro al luogo dove giacciono le macchine del crollo. Sembra una di quelle scene che vedi solo nei film di catastrofi apocalittiche, ma capisco subito che non lo è, avvicinandomi sempre di più alle vetture.

Ne vedo sei: due camion e quattro macchine. E vedo i corpi dentro le lamiere. Allora vado incontro al camion con scritto sul fianco Alba che mi è davanti e trovo l’autista con il volto insanguinato e rivolto verso il sedile del passeggero.

Respira ancora, gli chiedo se sta bene per ricevere qualsiasi risposta. Non risponde, solo respira con affanno. Lo afferro per il braccio e vedo che la cintura è strettissima e che lo sta quasi soffocando.

Gli urlo che sono lì per aiutarlo, provo a slacciare la cintura, ma niente, è bloccata dal peso dell’autista. Provo ad aprire la portiera, insisto, ma niente. Allora lo rassicuro dicendogli di tenere duro, di continuare a respirare.

Urlo verso i palazzi di via Fillak di chiamare l’ambulanza e i Vigili del fuoco. Gli altri due con cui sono controllano dentro le macchine per vedere qualche segno di vita e anch’io vado verso altre vetture per vedere chi è in grado di rispondermi. Ma si sente il silenzio. Da vicino solo i respiri angosciati di quelle persone che si aggrappano alla vita.

 

 

La seconda vettura a cui provo a prestare soccorso è una Panda con il tettuccio schiacciato sul passeggero che non si vede più. L’autista respira ma non si muove né apre gli occhi, allora lo incoraggio a continuare a respirare, mentre provo ad aprire la sua portiera. Purtroppo è bloccata.

La mia attenzione poi si sofferma sulla macchina messa peggio e intravedo dai finestrini dei ragazzi, avranno la mia età! Vedo i dread, ce ne sono quattro. L’autista è schiacciato dal tettuccio e gli altri tre li sento respirare e cominciare a muoversi.

Provo ad aprire la portiera messa meno peggio per cercare di tirarli fuori, ma niente. L’uomo di rosso mi dice che ci ha provato anche lui, ma di andare a vedere in giro se ci sono altri sopravvissuti.

Vado verso un’altra macchina e quello che vedo è agghiacciante. Non si riescono a riconoscere i corpi dalle lamiere e mi dirigo verso un’altra macchina più in là.

Ci sono due persone: un ragazzo e una ragazza. Il ragazzo è nel posto accanto al guidatore, per metà fuori dal finestrino: ha il braccio tatuato ma non respira. Allora guardo la ragazza e lei comincia a muoversi: ha le gambe bloccate e prova a liberarsi, le dico di non muoversi ma di continuare a respirare, ha la faccia insanguinata.

Dopo aver controllato le macchine, l’uomo di rosso vuole andare dall’altra parte della ferrovia per prestare aiuto ad altri, ma ci sono le macerie sopra: io mi arrampico seguendo le sue istruzioni e sopra le macerie dico quello che vedo, ossia solo l’autostrada sopra e le ferrovie e i cavi elettrici per terra.

Allora lui mi grida di scendere e di tornare indietro, preoccupandosi della mia vita. Scendo e rifacciamo un giro tra le macchine provando ad aprire le portiere, ma niente.

Guardo verso il cancello che abbiamo scavalcato e vedo altra gente. L’uomo di rosso mi dice di andare verso il cancello a cercare altra gente che possa dare una mano, ma, arrivato lì, la gente è confusa e spaventata, gente immobilizzata da quello che ha davanti.

Vedo venire verso il cancello una persona con delle tenaglie per rompere il lucchetto: apriamo il cancello per lasciare libera l’entrata ai soccorsi e sento le sirene in lontananza, ma delle macchine si sono fermate sulla via per curiosare, allora urlo alle macchine di levarsi per lasciare passare i soccorsi e così riescono ad arrivare le prime ambulanze.

Mi tolgo di torno per far lavorare persone che sono più preparate di me nel soccorso umano.

Io mi porterò dentro quelle scene per tutta vita e, anche se è servito a poco il mio aiuto, sono contento di essere stato lì con quelle persone e aver dato il mio supporto morale e di essere stato vicino a loro gli ultimi momenti della loro vita, facendo sentire la mia presenza e rassicurandole, come sarebbe piaciuto a me se fossi stato nella loro situazione.

Non le ho lasciate morire da sole e non le ho lasciate con il silenzio della morte.

Non vorrei offendere nessuno dei famigliari con queste descrizioni. Vorrei dire loro che l’aiuto che ho prestato quella mattina l’ho fatto col cuore, come fosse stata la mia famiglia sotto le macerie. Le mie sentite condoglianze, mi dispiace per la perdita dei loro famigliari.

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