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Home » News

Come si vive nel carcere di Rebibbia, accusati di aver spiato i politici italiani

Immagine di copertina

Francesca Occhionero è in custodia cautelare per cyberspionaggio nel carcere di Roma. In una lettera, ha denunciato le condizioni di vita dei detenuti

Dal 9 gennaio 2017 Francesca Occhionero è rinchiusa nel carcere di Rebibbia con l’accusa di cyber-spionaggio. Lei e il fratello, Giulio Occhionero, sono attualmente  in custodia cautelare con l’accusa di aver spiato politici e autorità dello Stato.

Secondo l’indagine condotta dal Centro nazionale anticrimine informatico della polizia postale, coordinata dalla procura di Roma, i due fratelli hanno violato il sistema informatico statale e intercettato le mail di alcune autorità politiche quali Matteo Renzi, Mario Draghi, Mario Monti e monsignor Ravasi.

Riportiamo di seguito la dichiarazione spontanea rilasciata da Francesca Occhionero, che dalla sua cella ha voluto denunciare le condizioni di vita dei detenuti all’interno della Casa Circondariale di Rebibbia.

***

“Sono Francesca Occhionero, dal 9 gennaio 2017 detenuta nel carcere di Rebibbia, dove, quindi, mi trovo a “sopravvivere” ormai da 183 giorni.

Ritengo che sia assolutamente infondato e ingiusto quanto sostenuto per la custodia cautelare che sto subendo: ma ciò è stato e sarà trattato nelle opportune sedi.

Quel che, invece, ora mi preme evidenziare riguarda il fatto che la detenzione avviene in condizioni generali di assoluta, evidente e nota illegalità, e ciò rischia di essere strettamente collegato con i fatti di causa.

Sono note le condanne inflitte dalla Cedu all’Italia per lo stato di illegalità delle carceri (per le dimensioni delle celle e per il sovraffollamento, che dovrebbe far pensare ad un ricorso eccessivo alla custodia cautelare in carcere).

Ma sono altrettanto ben note le condizioni concrete nelle quali i detenuti sono costretti a sopravvivere, così come mi trovo io, letteralmente a ‘sopravvivere’.

Qualche cenno:

1. Nel cortile della mia sezione c’è una fogna a cielo aperto, con odori insopportabili, tra sterpi da cui fuoriescono topi di varie dimensioni; ebbene, qui si svolge l’ora d’aria!

2. Detenute che hanno piaghe e sfoghi cutanei sono chiuse in ‘isolamento sanitario’ per giorni, senza che si presenti un dermatologo, nonostante il sospetto ( arguibile dall’isolamento) del trattarsi di malattie infettive. Infatti, il reparto nido è stato isolato in quarantena per scabbia.

3. Io stessa, ormai piena di sfoghi e punture di insetti, il 7 giugno scorso chiedevo di avere un parere medico. La risposta dell’infermiere di turno in ambulatorio è stata che il medico sarebbe stato disponibile per il mio settore solo il martedì successivo.

Insomma, ci si può ammalare solo di martedì, ovviamente iscrizione nella lista permettendo. Cosa analoga era successa a maggio, quando sono rimasta bloccata per un colpo della strega dovuto a cinque mesi passati su un letto con un materasso di cui dirò.

Per i miei ponfi, non sono riuscita ad avere neanche una crema cortisonica, in quanto, a detta dei vari infermieri di turno, sarebbe terminata da tempo. Ho assistito io stessa un infermiere mettere del Voltaren gel su un ponfo derivante dalla puntura di un’ape.

4. Una ragazza, che lamentava da tempo l’insorgenza di piaghe sulle gambe, dopo un mese ha finalmente ricevuto una visita medica e le è stata diagnosticata una micosi infettiva (si è parlato di tigna).

La stessa ragazza ha continuato a condividere i 9 metri quadri di cella con la sua concellina e a frequentare gli spazi comuni.

5. Condivido una cella di meno di 9 metri quadri (magari lo fossero!) con un’altra persona che dorme sul letto superiore di un letto a castello dotato di materassi di gommapiuma usurati, bucati, bruciati, pieni di acari e pulci, ormai scaduti da oltre 10 anni. Alla richiesta di sostituzione mi sono sentita rispondere, con il visibile sconcerto della stessa polizia penitenziaria, che non ci sono materassi a sufficienza.

6. Sono obbligata a nutrirmi mediante il vitto passato dal carrello del carcere, ma con grande disgusto e sofferenza fisica. Ne ho capito il motivo quando altre detenute che hanno lavorato in cucina me ne hanno riferito le pessime condizioni igieniche. Pentole, teglie, mestoli e tutto il resto viene infatti “lavato” con spugnette bisunte e praticamente senza detersivi.

Non vi è mancata la presenza di scarafaggi e persino un grosso topo. I grandi scolapasta vengono sfilati dalle pentole in ebollizione e, con tutta la pasta, trascinati sul pavimento anziché essere sollevati. E questo solo un cenno.

7. Il congelatore non funziona, col risultato che è impossibile conservare alcunché. Nella cella la temperatura è infatti ormai prossima a quella di un forno.

Il cibo si scongela e ricongela.

Per non dire che, ovviamente, gli approvvigionamenti interni sono fuori di qualsiasi logica: i prodotti sono limitati ed i prezzi raddoppiati e triplicati.

8. Il cortile, le grate delle finestre e i davanzali sono preda di piccioni (e dei loro escrementi) e di gabbiani.

Spesso i gabbiani attaccano i piccioni lasciando i cadaveri a marcire sui davanzali delle finestre. Facile immaginare gli odori ed il vomitevole panorama.

9. Il carcere è teatro di continue risse e scontri tra le detenute a causa della difficile convivenza nelle celle, la cui assegnazione avviene inevitabilmente in funzione della scarsa disponibilità; e così vengono fatti convivere soggetti assolutamente incompatibili tra loro e con il carcere (molti di loro dovrebbero essere indirizzati presso altre strutture, idonee per adeguati trattamenti psichiatrici).

10. Il bagno presente in cella è in condizioni pietose. Lo sciacquone perde acqua ininterrottamente, la cipolla della doccia, completamente intasata dal calcare, è un proiettile pronto a partire con la pressione dell’acqua. Dopo esserne stata colpita una volta, d’intesa con la mia concellina, mi faccio la doccia usando il solo tubo.

Il filtro/riduttore del lavandino è analogamente “esploso” a causa del calcare e, data l’assenza di tappi, è finito nello scarico. Il water è privo di coperchio.

11. Una mattina mi sono svegliata con la cella completamente allagata a causa di un’enorme perdita dal muro del bagno (problema che aveva già interessato la cella a fianco). Tutto galleggiava, sia nel bagno che nella cella, le lenzuola del letto del piano di sotto erano zuppe, così come le scarpe e tutto ciò che poggiava in terra.

A nulla sono valsi i solleciti alle assistenti di sezione, che ben poco potevano fare, se non a loro volta sollecitare la manutenzione. L’idraulico si è presentato solo tre giorni dopo.

Nel mentre, il bagno, il water e il bidet erano del tutto inutilizzabili, e quindi ci è stato dato l’unico suggerimento pratico possibile: “Chiudete tutti i rubinetti dell’acqua e … usate i secchi”.

Tutto ciò, anche in estrema sintesi, era la necessaria premessa per osservare che le condanne inflitte dalla CEDU sono ben note, ma altrettanto note sono le concrete condizioni, come quelle da me vissute, nelle quali i detenuti e le detenute si trovano a ‘sopravvivere’, spesso in condizioni davvero disumane ed inaccettabili per una società civile.

Quanto sopra sintetizzato induce a sospettare che le ben note, illegali e talvolta disumane condizioni carcerarie, rispetto alle quali non coglie il segno di alcuna reazione, vadano a conciliarsi perfettamente con l’aspettativa che il detenuto ‘collabori’, anche se per legge una collaborazione non è dovuta ed anche se ( come nel mio caso) una collaborazione è persino impossibile.

Ovvio che non posso minimamente accettare l’idea che tale sospetto possa avere un lontano fondo di verità: sarebbe a dir poco avvilente ed irrispettoso della intelligenza e della dignità umana e professionale di chi dovesse far uso di simili strategie.

Per cui, ferma restando la incomprensibile inerzia che accompagna le note condizioni carcerarie, voglio tenere del tutto lontano il sospetto di un uso strumentale e distorto dello strumento carcerario, che, diversamente ragionando, a ben vedere, si tradurrebbe in una vera e propria tortura”. 

***

TPI ha riportato le affermazioni spontanee di Francesca Occhionero ed è disposta a chiunque voglia fornire una versione diversa della situazione. La testimonianza è stata originariamente pubblicata sulla testata Il Dubbio che ne ha permesso la riproduzione sul nostro sito.

– LEGGI ANCHE: Cosa c’entra la massoneria con il cyberspionaggio di Occhionero?
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