Copyright: cosa cambia per autori, editori e colossi web con la riforma approvata dalla Ue
Il Consiglio dell’Unione europea ha approvato in via definitiva la riforma del Copyright, che lo scorso 26 marzo aveva ricevuto il via libera del parlamento europeo.
Sei paesi hanno votato contro la riforma: l’Italia, la Polonia, il Lussemburgo, la Finlandia, i Paesi Bassi e la Svezia. Si sono invece astenuti Belgio, Slovenia ed Estonia.
Gli stati membri dell’Ue hanno adesso due anni per recepire la direttiva nelle loro legislazioni nazionali.
Si tratta di una riforma molto importante, dal momento che sancisce per la prima volta l’obbligo da parte di Google, e degli altri colossi del web, di remunerare gli autori dei contenuti che circolano sulle loro piattaforme.
Se finora i colossi hanno potuto guadagnare dai contenuti altrui, senza dover rendere conto ai legittimi proprietari, da oggi – con l’approvazione della direttiva – chi aggrega opere di terzi, come i video su Youtube o le notizie su Google News, dovrà ricompensare gli autori di una parte dei proventi ottenuti grazie ai quegli stessi contenuti.
La direttiva 0593/2016 ha generato un acceso dibattito da quando questa è stata formulata dalla Commissione Ue per la prima volta nel 2016. Negli ultimi tre anni ha spaccato l’opinione pubblica tra favorevoli e contrari.
I detrattori sostenevano che questa direttiva avrebbe “messo un bavaglio” a internet e di fatto limitato la libertà che oggi esiste.
Prima di oggi, il diritto d’autore – anche noto in lingua inglese come copyright – era regolamentato da una disciplina risalente al 2001, formulata in un contesto digitale completamente diverso e oggi ritenuto obsoleto. Per questo, con la direttiva sul copyright, la Commissione europea si pone l’ambizioso obiettivo di adattare il diritto d’autore in un mercato dove a farla da padroni sono perlopiù i colossi come Google, Facebook o Youtube, piattaforme che hanno fatto fortuna guadagnando proprio nella veicolazione di contenuti di terzi, siano essi foto, video, articoli e altre opere.
La direttiva ha l’obiettivo inoltre di dare vita a un mercato unico digitale, uno spazio virtuale senza barriere, che ricalca quello fisico attualmente esistente in Ue.
Innanzitutto, la norma pone l’obbligo per Google e le altre piattaforme di stipulare licenze per l’utilizzo dei contenuti di terzi e di rimuovere i contenuti protetti da copyright.
L’articolo 15, così come approvato, prevede che gli Stati membri della Ue debbano fare sì che i giornalisti o gli autori delle opere e dei contenuti pubblicati ricevano dall’editore una parte dei proventi che derivano dall’utilizzo del contenuto stesso.
La direttiva vuole così assicurarsi che a guadagnare dalle opere che circolano su internet siano non solo editori e colossi del web, ma anche i creatori stessi dei contenuti.
Se un giornalista pubblica un articolo che viene veicolato da Google News, ad esempio, quel giornalista dovrà ricevere dal suo editore una parte dei proventi, e gli editori a loro volta dovranno essere pagati da Google News, in questo caso, che ha ospitato il contenuto sulla sua piattaforma. I colossi del web dovranno quindi stipulare licenze e accordi con gli editori online per poter accedere ai loro contenuti.
Senza licenza con le piattaforme, gli editori possono limitare la circolazione dei propri contenuti.
Gli autori e gli artisti acquisiscono dunque un nuovo diritto: chiedere una remunerazione ulteriore adeguata agli editori con cui hanno stipulato un contratto per lo sfruttamento dei diritti se la remunerazione che avevano concordato si rivela bassa rispetto ai proventi che quei contenuti hanno portato.
L’articolo 17 invece è quello che regola la responsabilità, da parte delle piattaforme online, di ottenere autorizzazioni da coloro che sono titolari dei diritti d’autore. Se un contenuto protetto da diritto d’autore finisce su Facebook, Youtube, Google eccetera, senza la licenza, questi saranno responsabili della violazione.
Le piattaforme più piccole vengono però esonerate da questi oneri e responsabilità della violazione dei contenuti protetti da diritto d’autore.
Ad essere esclusi dalla direttiva sono piattaforme come Wikipedia o piattaforme opensource, che non monetizzano dalla pubblicazione di contenuti – o porzioni di contenuti – di terzi.