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Non c’è nessuna crisi migratoria, ma tocca all’Italia non isolarsi e spingere per una soluzione condivisa in Europa

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L'analisi di Eleonora Poli dell'Istituto Affari internazionali

In un’Europa già frammentata dai diversi effetti della crisi economica e di sicurezza, la crisi migratoria ha creato profonde divisioni, limitando l’efficacia degli sforzi collettivi.

Secondo i dati dell’UNHCR nel 2017, il numero di arrivi sulle coste europee dal Mediterraneo è stato di 173.301 immigrati. (A questo link i grafici: Quanti migranti sono sbarcati in Italia da inizio 2018, e quanti nei due anni precedenti).

A giugno del 2018 il numero si è ridotto a 37 mila di cui la metà all’incirca (15 mila) è sbarcata in Italia, mentre il resto si è diviso tra Grecia (12 mila circa) e Spagna (10 mila circa).

Se gli arrivi sono in calo, così come il numero dei morti nel mediterraneo, sicuramente il problema non è risolto. In questo frangente critico, l’Italia non può e non deve agire da sola. In effetti, la magnitudine della crisi e la sua complessità deve portare ad una risposta europea e non nazionale.

Al di là dell’orientamento politico, questo era ed è lo spirito in cui sia il nuovo Ministro degli Interni Salvini che il suo predecessore Minniti, hanno cercato di far fronte al problema. I metodi applicati, così come la retorica politica, sono pero diversi.

Durante il suo mandato, Minniti ha cercato di coniugare l’azione italiana all’interno di uno sforzo che doveva però essere di matrice europea.

Ad esempio, l’accordo messo in atto dall’ex ministro degli interni Minniti con la Libia che prevedeva cooperazione nel contrasto all’immigrazione tramite il completamento del sistema di controllo dei confini libici, supporto tecnico agli organismi locali incaricati di contrastare il traffico di esseri umani e finanziamento italiano ed europeo ai centri di accoglienza, sia stato criticato dal ONU per le condizioni disumane in cui vengono trattati i migranti nei campi libici, l’accordo di per se è stato ben accolto dall’UE.

Lo stesso vale per il codice di condotta della ONG, che aveva come intento quello di sanzionare un possibile traffico di vite umane messo in atto tra contrabbandieri e organizzazioni non governative.

È indubbio che l’efficacia di tali azioni è limitata. La crisi migratoria, più che una crisi è un trend che durerà nel corso degli anni. Tuttavia la cooperazione con i partner europei rimane l’unica via. Il nuovo ministro degli Interni Matteo Salvini ne è sicuramente consapevole, ma la retorica sovranista adottata nel recente caso Aquarius, che vede l’Italia vittima degli sbarchi dal mediterraneo mentre l’Unione europea guarda altrove, sebbene contenga degli elementi di verità, non porterà a risultati migliori nel lungo termine, anzi.

Inoltre, gli attacchi ricevuti dalla Francia sul comportamento tenuto dal governo, così definito “vomitevole”, lasciano il tempo che trovano ma non hanno una mancanza totale di fondamenta.

È stata l’Italia, durante il governo Renzi con Triton ad aver formalmente accettato, in cambio di maggiore flessibilità nell’ambito delle politiche economiche nazionali, di far sbarcare i migranti nei suoi porti.

Dopo la missione Mare Nostrum, messa in atto dal governo Letta nel 2013 e che gravava solo sulle spalle italiane con un costo di 114 milioni di euro (9,5 al mese), la missione europea Triton, che costava meno di 3 milioni di euro al mese, poi sostituita dalla missione Eunavfor Med, sebbene abbiamo come mandato non tanto il soccorso in mare ma il pattugliamento delle acque, hanno previsto che le navi dei paesi europei che sorvegliano il Mediterraneo portino i migranti eventualmente soccorsi in Italia.

Tuttavia, se l’Italia ha di fatto formalmente accettato di ricevere i migranti, c’erano poche altre scelte. La vicinanza geografica con la Libia, la rende il paese più facile su cui spingersi e sbarcare, da dove le possibilità di raggiungere il nord Europa, con il suo welfare più sviluppato, sono maggiori.

Per questo motivo, l’Italia ha sicuramente le sue colpe, ma dal resto d’Europa c’è stata ben poca solidarietà, soprattutto dalla Francia, che ha ripetutamente espulso i migranti irregolari sul confine a Ventimiglia.   

Le soluzioni per l’Italia rimangono però sempre sul tavolo di Bruxelles. Dal punto di vista istituzionale, l’Italia deve cercare di modificare la Convenzione di Dublino. Tuttavia, come dimostra il recente fallimento bulgaro, questa via è più facile a dirsi che a farsi. L’accordo di Dublino sancisce l’obbligo per i migranti a presentare richiesta di asilo politico nel primo paese europeo di arrivo.

Queste mette l’Italia in prima linea sia nel processare le domande di asilo (nel 2017 ci sono state circa 129 mila domande di asilo in Italia, 223 mila in Germania e solo 79 mila in Francia e 26 mila in Spagna) sia nell’effettuare gli eventuali rimpatri di tutti quei migranti che non si qualificano come detentori del diritto di asilo ma come semplici immigrati economici, pratica quest’ultima che richiede anni.  Inoltre Dublino, non prevede nessun obbligo per i paesi europei di accettare il ricollocamento di richiedenti asilo dall’Italia o dalla Grecia, che rimane una pratica che molti Paesi, tra cui proprio i Visengrad, non accettano.

Per questo motivo, l’intenzione di Salvini di voler cercare un’alleanza con i paesi del Visengrad sembra lasciare il tempo che trova e non è chiaro cosa l’Italia potrebbe ottenere da tale relazione.

Probabilmente sarebbe più utile riuscire a fare fronte comune con i paesi del Mediterraneo, tra cui la stessa Spagna e la Francia, che ora disapprovano l’Italia ma soffrono e hanno sofferto di problemi comuni, e non solo nell’ambito della crisi migratoria ma anche nel porsi in maniera critica verso le politiche di austerità.

Questa però non sembra essere la via che il governo giallo verde pare voglia adottare. Al contrario, il Ministro Salvini ha ribadito che nonostante i rapporti con la Franca si possano essere deteriorati, la Germania rimarrà un buon alleato italiano. Di fatto però Berlino non metterà in pericolo il binomio franco-tedesco o i suoi interessi nazionali per l’Italia.

L’Italia deve affrontare il problema non bilateralmente ma all’interno del consiglio europeo. Non essendoci un leader unico, visto che il presidente della Commissione Juncker non è eletto e il presidente del parlamento europeo Tajani ha poteri limitati, sono i capi di stato del Consiglio Europeo che possono avere la legittimità politica, istituzionale e democratica per superare il problema. 

Questi ultimi però sembrano avere poca o forse nessuna intenzione di rischiare il proprio mandato a livello nazionale, accettando politiche migratorie che siano percepite sì di solidarietà verso l’Italia ma svantaggiose a livello nazionale.

Con il nazionalismo in aumento in tutti i paesi europei e il prezzo alto da pagare per il partiti tradizionali, soprattutto quelli di sinistra, che sono spariti dai governi di quasi tutti i paesi europei, fatta eccezione per Spagna, Portogallo, Svezia e pochi altri, nessuno vuole mettere repentaglio la propria legittimità politica per una questione spinosa come quella migratoria.

In questo frangente, sta all’Italia rimettere il tema sul tavolo e spingere per una soluzione condivisa. Le prove di forza servono a riaccendere l’attenzione e possono avere risultati di breve termine, ma non porteranno a soluzioni sostenibili, di lunga durata e vantaggiose per l’Italia, che al contrario rischia di trovarsi isolata.

Eleonora Poli è ricercatrice presso l’Istituto Affari Internazionali (IAI), dove collabora a progetti di ricerca sulle politiche economiche europee, sulle implicazioni politiche della crisi dell’Eurozona e sul ruolo dell’Unione europea nella risoluzione di conflitti regionali. 

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