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Home » News

L’uomo che mi ha quasi uccisa sarà liberato: ho paura che ci riprovi

Immagine di copertina

L'ex compagno di Lidia Vivoli ha provato a ucciderla nel 2012. Dopo anni di minacce e persecuzioni a breve l'uomo uscirà di prigione e lei chiede aiuto allo Stato

“Lo Stato ti chiede di denunciare e poi ti lascia sola”. Lidia Vivoli riassume con queste parole amare la vicenda in cui si è trovata coinvolta negli ultimi cinque anni.

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Lidia ha 45 anni, vive a Bagheria, in provincia di Palermo, e in passato ha lavorato come assistente di volo per la compagnia Windjet. La notte del 25 giugno 2012 il suo compagno l’ha aggredita con una padella di ghisa e l’ha colpita ripetutamente con le forbici, per poi provare a strangolarla con il filo di un elettrodomestico.

Quella notte Lidia ha lottato fino allo stremo ed è riuscita a salvarsi.

Attenzione: Le immagini potrebbero urtare la vostra sensibilità.

“L’angoscia che mi ha fatto vivere nei due anni successivi è stata peggio delle coltellate”, racconta in un’intervista a TPI. Lidia ha avuto il coraggio di denunciare il suo aguzzino, che è stato arrestato ma è finito ai domiciliari appena cinque mesi dopo l’aggressione. Poi è stato liberato.

Nel 2015 è stato condannato in via definitiva a 4 anni e 6 mesi per tentato omicidio e sequestro. È tornato in carcere, ma ha minacciato di uccidere Lidia e tutta la sua famiglia non appena fosse uscito dalla galera.

“Mi ha sempre detto che non posso lasciarlo, perché o sto con lui o mi ucciderà”, racconta Lidia. “Tra poco uscirà e io che fine farò?”. Ora Lidia ha un nuovo compagno e due gemelli. Nella loro casa hanno accolto 36 cani e 22 gatti salvati dalla strada.

Lidia, com’è possibile che una donna che denuncia si trovi in una situazione del genere?

Si parla tanto del tema della violenza sulle donne, ma poi succede qualcosa di impensabile. Lo Stato ti dice: “Denuncia tanto poi ti lascio sola”.

In questi anni ho conosciuto tantissime altre donne. Ci cerchiamo, anche solo per un confronto. La cosa assurda è che le donne che sono sposate con il loro aguzzino, quando lo denunciano e lui dopo il carcere va ai domiciliari, se lo ritrovano di nuovo in casa. Perché si fa riferimento all’ultima residenza dichiarata. Ma io non avevo mai fatto questa scelta: stavamo insieme da appena 10 mesi.

Sei stata fortunata…

Alla fine, credimi, quello che è successo quella notte è un episodio. Io mi sono salvata la vita e quel momento è finito lì. Il problema è stato quando lui è uscito dopo cinque mesi. L’angoscia che mi ha fatto vivere in quei due anni in cui è stato libero è stata peggio, paradossalmente, delle coltellate. Tanto che io arrivai a dire: “Guarda ti perdono purché tu mi lasci stare e la smetti di perseguitarmi”.

Tant’è che non ti sei neanche costituita parte civile…

Se il processo fosse stato subito non avrei saputo delle minacce e quindi l’avrei fatto. Ma lui mi ha detto: “Ricordati che so dove abitano i tuoi genitori e la tua nipotina”. E allora io ho fatto una scelta: mi lascio nelle mani della giustizia e quello che il giudice deciderà mi andrà bene. L’ho fatto per paura.

Come ha potuto minacciarti se era agli arresti domiciliari?

Aveva a disposizione tutto, dal telefono al computer. La legge di allora non prevedeva la comunicazione a noi vittime di sapere quando il nostro aguzzino sarebbe uscito di galera.

Tre giorni dopo essere uscito lui mi ha contattata su Facebook Messenger. Quando ho visto il messaggio ho pensato che fosse il figlio che usava il suo account. Mi ha scritto: “No, sono io. È da tre giorni che sono a casa”. Chiamai subito il mio avvocato e il maresciallo dei carabinieri e chiesi come fosse possibile che lui fosse fuori dopo appena cinque mesi, a novembre 2012, e che io non sapessi nulla. Mi sembrava una cosa folle, ma era vero.

Poi te lo sei trovata di fronte…

Dopo qualche mese, quando ha capito come funzionavano i controlli, lui è evaso dopo i controlli. Continuava a perseguitarmi nonostante fosse ai domiciliari. Ogni volta che lo vedevo chiamavo i carabinieri. Un paio di volte credo siano anche andati a casa sua e non l’abbiano trovato, ma neanche questo lo ha fatto tornare in galera.

Dopo un anno di domiciliari era libero. E lì figuriamoci, veniva sempre a Bagheria e diceva che mi incontrava per caso. Ma se succede “per caso” può capitare una volta, invece accadeva sempre e ovunque. Tanto che ho dovuto cambiare il cellulare, perché a quanto pare lo aveva manomesso. 

Veniva in aeroporto quando io partivo o tornavo da un viaggio. Tornata da un viaggio a Hong Kong ha alzato le mani al mio compagno, che si è difeso senza reagire. La denuncia è stata archiviata perché in quel momento le videocamere dell’aeroporto non funzionavano.

(Lidia Vivoli dopo il tentato omicidio subito nel 2012. L’intervista continua sotto la foto)

Adesso sta per uscire di nuovo…

La pena scade a novembre 2017. Con lo sconto per buona condotta ho calcolato che dovrebbe uscire tra maggio e luglio. Io mi sento in pericolo.

Se non fosse uscito di galera avrei pensato che dopo quattro anni si fosse rassegnato. Ma ho visto il suo comportamento quando era fuori. Lui diceva: “Io non ho fatto niente, tu sei quella che ha tutte le colpe”. Poi le classiche parolacce che dicono a noi donne: “Ho le prove che sei una puttana”.

Ha detto di aver parlato con i miei amici e con l’avvocato, e che loro gli avevano dato ragione. Ovviamente non era vero, ma racconta bugie in maniera così convinta da lasciarti spiazzata.

Non c’è una soluzione?

Ora io ho perso il lavoro: non ho tutela, non mi posso allontanare. Poi perché dovrei essere io e non lui ad andarsene? E dove potrei andare? In una casa famiglia dove vivrei senza privacy? Perché lo Stato non ci tutela come fa con le vittime della mafia? Se ci offrisse un lavoro per chiamata diretta io andrei, anche fuori, purché con un lavoro e una casa mia. Poi con i bambini è complicato.

Ha provato a chiedere aiuto?

In realtà a nessuno importa niente, importa solo a voi giornalisti che ci date voce. Tutti dicono: “Ah, poverina”, ma poi nessuno fa niente.

Ogni volta che rilascio un’intervista mi contattano decine di donne e mi dicono: “Mio marito mi maltratta, ma se lo denuncio che succede?”. E io che devo dire? Succede che se non c’è sangue intanto non l’arrestano, glielo vanno a dire e quello si arrabbia ancora di più. E anche se sei in fin di vita poi te lo rimettono a casa o te lo ritrovi lì sotto. Come faccio a invogliare le donne a denunciare?

Ti sei mossa con alcune associazioni?

No, le associazioni sono importanti perché ti ascoltano. Ma io ora non ho bisogno di qualcuno che mi ascolti: mi serve qualcuno che faccia qualcosa di concreto.

Per i primi due anni io non ho parlato, perché me lo chiedevano i miei genitori. Ancora oggi mi dicono: “Basta parlarne!”. Qui vivo in un contesto sociale con questa mentalità. Negli ultimi due anni ho parlato e ho diffuso le foto. Non lo faccio solo per me, ma anche per le altre sopravvissute e per i figli delle donne morte.

Ma cosa ho concluso? Nulla. Ora lui esce, magari vede che i giornalisti hanno fatto il suo nome e cognome e pubblicato la sua foto, sarà ancora più arrabbiato di prima e metterà in atto la minaccia di spararmi. Ha detto di avere una pistola, i carabinieri non l’hanno trovata. Ma si può vivere con questa angoscia?

Cosa è successo nel 2012?

Prima dell’aggressione lui mi seguiva ovunque, dal parrucchiere e dal medico. Un giorno gli ho detto che dovevo incontrarmi con il mio ex marito perché avevamo problemi con la separazione. Volevo discuterne da sola.

Mi è venuto in mente che potesse venire e l’ho messo alla prova, dicendogli un posto per un altro e chiedendogli di non farsi vedere. Lui venne, non mi trovò e mi chiamò infuriato. Gli ho chiesto perché fosse venuto e lui mi rispose: “Perché ti devo controllare”. E qui mi è caduto il velo, ho capito che la cosa era grave.

In ogni momento in cui non mi aveva sotto gli occhi per lui stavo facendo la prostituta e mi diceva: “Ah, non ti preoccupare se vuoi fare la puttana, i clienti te li trovo io e dividiamo”.

In questo caso si tratta di illazioni, ma mettiamo pure che fosse vero e che io l’avessi tradito, per questo meriterei di morire? 

(Lidia Vivoli dopo il tentato omicidio subito nel 2012. L’intervista continua sotto la foto)

A quel punto lo avevi già lasciato?

Sì, poi lui mi picchiò una prima volta. Io andai in ospedale e dissi di essere caduta dalle scale. Il medico mi guardò scettico. Ma mio padre mi aveva chiesto di non denunciare, e lì ho fatto una grande cavolata. 

Poi lui si riavvicinò, e io per paura ho detto: “Fammi vedere che sei cambiato”. Mi sono finta accondiscendente perché ero sola. Ci sono cascata l’ennesima volta e mi è costato caro. 

Quando è uscito di galera mi ha detto: “Se non stai con me e non mi mantieni io uccido tutta la tua famiglia”. Io allora gli ho detto ancora una volta: “Dimostrami che sei cambiato, trovati un lavoro, magari anche fuori”. In realtà speravo che se ne andasse, trovasse un’altra donna e mi lasciasse in pace, invece non è stato così.

Mi ha addirittura colpevolizzata per aver fatto vedere le foto di come mi aveva ridotta. Mi ha detto: “Questa è una dichiarazione di guerra, parlerò talmente male di te che ti farò andare via da Palermo”. Oltre alla violenza fisica ho subito una violenza psicologica incredibile. Credo che nessuno dovrebbe passare quello che ho passato io.

Di cosa hai paura ora che lui uscirà?

Non so che intenzioni avrà. Vorrà nascondersi, attaccare? Non lo so, ma ho paura, vorrei fare qualcosa prima che sia troppo tardi. Perché se lui mi aggredisce non mi darà il tempo di chiamare i carabinieri. Non me l’ha dato quella sera.

Oggi non ho più forza di lottare perché non sto bene fisicamente. Ho le costole e le rotule lesionate, e la spalla non mi funziona più. Lui non verrebbe più disarmato. Quella sera ha trovato la padella di ghisa e le forbici. Ora verrebbe con un coltello o una pistola.

(Lidia Vivoli dopo il tentato omicidio subito nel 2012. L’intervista continua sotto la foto)

Cosa chiedi adesso con il tuo avvocato?

Il mio avvocato può fare solo le richieste che gli consente la legge. Chiederà l’allontamento. Io chiedo qualcosa che nella legge non c’è. Chiedo che le donne vittime di violenza e femminicidio siano equiparate alle vittime di mafia, estorsione e terrorismo.

Il numero delle donne maltrattate è infinito rispetto a quello che viene fuori, proprio perché non c’è tutela. Gli articoli di legge ci sono già, basta applicarli anche a noi. Verrebbe fuori un’ondata di casi, uno tsunami.

Quante volte sentiamo che è stata uccisa una donna che aveva già denunciato? In quel caso lei cosa ha avuto in cambio? Di certo non protezione, altrimenti non sarebbe morta. Lo Stato mi dice di denunciare? Bene, allora mi devo proteggere come protegge gli altri.

Come ti senti adesso?

A volte penso che sarebbe stato meglio se fossi morta il 25 giugno 2012. Mi sarei risparmiata un bel po’ di stress. Sopravvivere a cosa mi è servito? Sono molto demoralizzata. Se io muoio potete fare un bell’articolo e dire: “E ora? Chi ci pensa a questi bambini?”

Mi sono rivolta a tutti. Ho scritto a Berlusconi, a Mattarella, ho fermato il sindaco di Palermo, ho fermato il sindaco di Bagheria, che è del Movimento Cinque Stelle. E mi sono sentita dire: “Io che ci posso fare? Rivolgiti alle associazioni”.

Però se morisse la figlia di un politico o di un magistrato le leggi si troverebbero immediatamente. In due anni di denunce non c’è stato un processo per stalking: niente. Questa è la situazione.

Il mio aguzzino è stato condannato a 4 anni e 6 mesi. Il pm aveva chiesto 9 anni ma lui ha patteggiato, era incensurato. A loro i premi li danno, a noi che siamo sopravvissute no. E se moriamo non c’è neanche il premio per chi rimane. L’Italia è una nazione garantista verso i delinquenti.

Lidia, grazie di aver condiviso la tua storia…

Grazie a voi giornalisti che mostrate questo interessamento per noi che siamo ancora vive, per quelle che sono morte. Grazie quando riuscite a risalire ai nostri assassini. Se io dovessi morire, chi è il mio assassino già lo sapete.

Chiedo solo che qualcuno si occupi dei miei bambini, che dia un lavoro al mio compagno. Non so cosa augurarmi. Perché io oggi futuro non ne ho, oggi so che non vedrò crescere i miei figli.

(Il luogo dove è avvenuta l’aggressione a Bagheria)


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