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Il Kurdistan nel cuore di Roma

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Il centro Ararat, nel quartiere Testaccio della capitale, è il punto di ritrovo della comunità curda e dei rifugiati di ieri e di oggi. TPI ha raccolto le loro storie

Quando chiedo a Çahide se è preoccupata per i suoi parenti rimasti in Turchia, lei risponde: “I miei parenti? Tutto il popolo curdo è la mia famiglia, ogni giorno sono preoccupata per loro”.

S&D

Çahide è arrivata in Italia nove anni fa dalla Turchia e ne ha passati sei in diversi centri di accoglienza di Roma. Alla difficoltà di ricominciare una vita da rifugiata, si aggiunge un’angoscia costante per i propri connazionali in lotta nella terra natia.

Mevlut invece è in Italia da cinque anni: quattro a Roma e l’ultimo a Rieti. Viene da Erzurum, nel Kurdistan turco, dove è stato torturato per aver partecipato ad alcune manifestazioni e obbligato dalla sua famiglia a partire. In Italia ha ottenuto lo status di rifugiato politico.

“Certo, il Kurdistan è molto differente dall’Italia; lasci il tuo paese, la tua famiglia, la tua lingua. Vieni qui in un altro paese dove cominci da zero”, racconta. “Nonostante tutto, mi piacciono la cultura e lo spirito italiani. Devo ringraziare il governo italiano e i compagni italiani che mi hanno aiutato in questo cammino. E ovviamente il centro Ararat”.

Ararat prende il nome dal monte più alto della Turchia, che si trova nel territorio a prevalenza curda. Arrivando al centro c’è sempre qualcuno che ti accoglie e ti dà il benvenuto. Il tempo di sederti e ti ritrovi un chai caldo (il té curdo) sul tavolo, che sia inverno o estate non importa.

Una volta entrati si viene abbagliati dai colori del Kurdistan: la mezzaluna rossa – simbolo della nazione che i curdi non hanno mai avuto – e le bandiere delle principali formazioni di combattenti curdi in Medio Oriente campeggiano sul lungo muro che racchiude il piazzale.

È qui che i curdi che vivono a Roma si ritrovano e passano il proprio tempo libero, ricreando l’atmosfera della casa che hanno forzatamente abbandonato. Annullati culturalmente, assimilati con la forza e perseguitati, questi curdi sono stati costretti a fuggire dal proprio paese per questioni politiche. La maggior parte di loro, infatti, ha ottenuto – o è in procinto di ottenere – lo status di rifugiato. E si sono ritrovati, in un modo o nell’altro, a vivere nella capitale. Per loro il centro Ararat è la prima vera casa in Italia.

Anche Erol è fuggito da Muş, in Turchia, per motivi politici. Arriva in Italia grazie a suo fratello, che già vive in Toscana, e anche lui ottiene lo status di rifugiato. Dopo un anno e cinque mesi si trasferisce a Roma, dove è tra i gestori del centro Ararat, che costituisce parte integrante della sua vita quotidiana.

“Cosa significa questo per me? Significa fare qualcosa per il popolo curdo, ora che è in guerra con lo stato turco”, racconta Erol. L’80 per cento dei rifugiati curdi, infatti, viene proprio dalla Turchia, mentre un’esigua minoranza da Iraq e Iran. Dalla Siria invece quasi nessuno.

“L’accoglienza in Italia non è buona; ottieni sì lo status di rifugiato e un posto dove dormire, ma per il resto lo stato italiano non ti aiuta”, racconta Çahide. “Per questo quelli che scappano dalla Siria oggi preferiscono altri paesi”.

I curdi in Italia

La storia della repressione dei curdi è lunga un secolo e ha dato vita a una folta diaspora a partire dagli anni Novanta, quando la lotta fra il Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) e lo stato turco si è intensificata, incrementando di conseguenza il flusso dei migranti verso l’Europa. È proprio in questi anni che nasce il centro Ararat.

Situato al Campo Boario, nell’edificio veterinario dell’ex Mattatoio, quartiere Testaccio, l’edificio viene occupato nel 1999 e il suo primo scopo è dare un tetto ai numerosissimi curdi che in quegli anni non hanno un alloggio, un posto dove andare.

“Contestualmente all’arrivo di Abdullah Ocalan (il leader e fondatore del Pkk, ndr) a Roma nel 1998, il numero di rifugiati è aumentato. C’erano non soltanto quelli che venivano per lui, ma anche chi veniva per motivi umanitari, tanto che a Colle Oppio, dove si pensava si nascondesse Ocalan, c’era sempre una folta presenza di curdi turchi e curdi iracheni”, racconta Gianluca Peciola, oggi presidente del Gruppo Consiliare di Sel nell’Assemblea Capitolina di Roma, attivista per la causa curda e protagonista degli eventi di quegli anni.

“Si era formata in quel periodo una vera e propria ‘cartonopoli’ (una cittadella di cartone dove questi rifugiati curdi hanno vissuto per mesi, ndr)”.

L’Italia dell’epoca non era ancora pronta all’accoglienza di numerosi rifugiati: basti pensare che i posti nei centri di accoglienza di Roma erano 450, mentre soltanto i curdi erano 500. Dopo due occupazioni finite con due sgomberi forzati, l’edificio dell’ex Mattatoio diventa il cento Ararat.

“Veniamo qui, occupiamo questo spazio, edificio abbandonato da tantissimo tempo, noi di Orma (Osservatorio Rifugiati Migranti Associazione), Stalker (gruppo di architetti attenti al sociale) e i curdi rifugiati”, dice Peciola.

Da quel momento, il centro Ararat si è lentamente evoluto e reso autonomo: adesso è gestito dagli stessi rifugiati curdi, ha un regolare contratto d’affitto con il comune di Roma ed è diventato non soltanto un posto dove chi ha bisogno trova il supporto della comunità, ma anche un luogo dove poter tramandare liberamente le proprie tradizioni.

“Noi volevamo dar vita a questa dimensione sociale e culturale del Kurdistan, anche perché molti dei rifugiati curdi non volevano rinunciare così alla loro ricchezza culturale, identitaria e politica”, racconta Peciola. Per questo anche adesso rifugiati di ieri e di oggi hanno sempre un buon motivo per passare parte della propria giornata al centro Ararat.

A cura di Elisabetta Elia

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