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“Voglio fondare un giornale libero, a Cuba”

Immagine di copertina

Intervista a Yoani Sánchez. La giornalista dissidente cubana parla dei suoi sogni, e di quello che vorrebbe per il futuro dell'isola

Voglio fondare un giornale libero a Cuba

Tramonto all’Havana. Dal Malecon, il celebre lungomare della capitale cubana, i raggi del sole irradiano sempre più sottili il reticolo ordinato dell’Habana Vieja, su fino al Vedado, nuovo cuore pulsante della movida caraibica. L’androne del fatiscente palazzo che ospita il ristorante dove incontriamo Yoani Sánchez contiene murales di poemi castristi e generazioni di giocatori di domino. Poi, lei appare. Si presenta mano nella mano con il suo amore di sempre, Reinaldo Escobar, anch’egli giornalista e dissidente, anch’egli – quindi – con diverse apparizioni in carcere nel curriculum.Si accomodano entrambi a tavola e ordinano un bianco cileno, che è quanto di meglio si possa avere in fatto di vini nei Caraibi.

Yoani ci fa delle domande. Chiede dell’Europa, di Monti, di Berlusconi, di cosa dicono i giornali: ha la sete di sapere tipica di chi scrive senza collegamenti con il mondo esterno, con razionamenti centellinati di informazione filtrata dal regime. Anche questo, nel 2013, è vivere a Cuba. Un Paese in cui l’alfabetizzazione è al 99,8 per cento, la scolarizzazione tra le più elevate del mondo (non è un caso che Chavez sia venuto qui, a farsi curare dai medici cubani), ma il tasso di penetrazione di internet non raggiunge il 3 per cento. Un Paese in cui il costo delle importazioni – anche a causa dell’embargo statunitense – porta il prezzo di una televisione a tubo catodico da 15 pollici fino a 300 euro, mentre lo stipendio mensile di un medico non arriva a 70.

Una volta placata parzialmente la sua curiosità, Yoani inizia a parlare.

Yoani: Vedete, per quanto abbiate tentato di entrare più in profondità nella cultura cubana, quella che avete è una visione assolutamente parziale. Tutte le persone che avete incontrato finora, siano esse tassisti, negozianti, gestori di casas particulares (le piccole case private di cui è possibile affittare stanze direttamente dai proprietari), sono tutte nell’orbita del mondo turistico. Ma esiste, purtroppo, un’altra faccia della medaglia.

Domanda: Yoani, tutto parte da un’anomalia, unica al mondo. Ovvero la coesistenza a Cuba di due monete distinte, con valori diversi. Ci spieghi a chi giova questa situazione e com’è resa possibile nella quotidianità della vostra vita?

Y: La parità monetaria esiste a Cuba dal 1993, ma più che di parità monetaria si tratta in realtà di schizofrenia economica: ogni giorno quando una persona a Cuba si sveglia deve pensare in che mercato andrà a comprare quali prodotti e con quale moneta andrà a comprarli. Il Peso Convertible – anche noto come Cuc (Cuban Convertible) – dà accesso a un’economia che il cubano medio non può neanche sognarsi. I prezzi per una cena come quella di questa sera, che per voi europei restano irrisori, sono irraggiungibili con un salario in moneda nacional. Mia cugina, che è dottoressa, deve fare la coda al razionamento per ottenere sapone, dentifricio, generi di prima necessità. Un qualsiasi barman di un locale di Varadero con le sole mance dei turisti occidentali percepisce il doppio del suo salario.

D: I turisti a Cuba cercano molto più un viaggio nel tempo, che nello spazio. I manifesti della propaganda, le auto americane anni Trenta, ora lentamente soppiantate da quelle occidentali, importate usate a carissimo prezzo. Ma esiste una voglia da parte dei più giovani, di quella Generazione Y che tu racconti quotidianamente sul tuo blog, di cambiare le cose, e di uscire dall’anacronismo storico in cui pare Cuba sia destinata a vivere sospesa?

Y: Certo che esiste, ma devo dire che ancora maggiore è la frustrazione della nostra generazione. Una generazione che non ha mai inserito una scheda in un’urna elettorale per decidere chi governa il Paese. E questa frustrazione più che tradursi in volontà di cambiamento si traduce in emigrazione, che rimane la soluzione zero. Purtroppo, la più semplice.

Reinaldo s’inserisce nella conversazione, alzando l’indice destro e chiedendo, ossequioso, “Permiso”.

R: Lo so l’idea che avete voi europei di noi cubani. Ci vedete sempre sorridenti e felici, come Colombo quando sbarcò qui e sterminò i nostri antenati taìnos. Ma non per questo non possiamo chiedere di meglio.

Nel frattempo, Yoani prende tra le mani il mio iPhone, curiosando tra le foto dei giorni precedenti. Ride divertita di una elaborazione fotografica del volto del Che in versione ‘Avatar’. Mi chiede di inviarle la foto, poi ci ripensa e si risolve a scattare una foto dell’immagine.

Y: Vedete, anch’io posseggo uno di questi strumenti. Me l’ha spedito mia sorella dagli Stati Uniti, come regalo. Ma a pensarci bene, a cosa serve uno smartphone in un Paese come Cuba, con uno dei tassi di penetrazione della rete più bassi al mondo?

D: “Non a molto, in effetti”.

Y: Non a molto, perché non siete cubani: chiunque abbia uno smartphone qui ha imparato a utilizzare queste app pur non essendo connessi a internet. È sufficiente scaricare tutto lo scaricabile, quando si può. O andare nel mercato nero e comprarsi back-up dei sistemi. Vedi questa Wikipedia qui? È esattamente come la vostra. Certo, per lei Gheddafi è ancora vivo – è aggiornata a ottobre 2011 – ma per tutto il resto posso leggere tutto esattamente come voi. Da dov’è che venite? Torino? Ecco qui, prima capitale d’Italia, regione Piemonte.

D: Yoani, non possiamo non aver notato che rispetto alle ultime foto che abbiamo visto di te, il tuo sorriso è stato sfigurato.

Y: Questo è il ricordo del mio quarto e ultimo arresto. Ma non è questo a darmi noia, non sono le minacce fisiche o verbali a me o alle persone che mi stanno vicino. Piuttosto, è la mancanza di libertà nel viaggiare. Sono stata invitata anche nel vostro Paese, alla trasmissione di Saviano, ma il governo mi ha negato il visto per la ventesima volta negli ultimi anni. Vorrei vivere qui, qui e in nessun altro posto al mondo. Ma vorrei poter essere libera di muovermi, libera di informarmi, e non di leggere solo quello che il Partito decide di farmi leggere tramite Granma e Juventud Rebelde (i due principali organi di informazione del Paese. Sostanzialmente gli unici)

D: In qualche modo, Yoani, ti sente erede dei veri padri rivoluzionari di Cuba: di José Martì, del primo Fidel, di Camilo Cienfuegos, di Che Guevara?

Y: In qualche modo sì, ma a modo mio. Vedete, questo è un Paese dove troverete ovunque circoli per la difesa della rivoluzione. Ma non c’è nulla da difendere. La rivoluzione va fatta, ogni giorno. Chi sta al potere oggi non vuole nessuna rivoluzione, ma solo l’incancrenirsi dello status quo. Sogno un Paese in cui ciascuno possa essere autore della propria piccola rivoluzione, possibilmente incruenta: sono e resto una persona che fa affidamento alle parole. Sogno un Paese in cui la somma di queste piccole rivoluzioni ne inneschi una di più alto livello, davvero grande. E sogno di poter raccontare tutto questo, in un giornale libero, che vorrei fondare.

360 mila followers su Twitter non aspettano altro che un pretesto, per poterla finalmente leggere a porzioni più cospicue di 140 caratteri per volta.

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