Accademia armata: così le università in Israele sostengono l’apartheid dei palestinesi

Collaborano con i produttori di armi e l'esercito. Elaborano interpretazioni giuridiche per difendere il governo dalle accuse internazionali e usano gli scavi archeologici per giustificare le rivendicazioni in Cisgiordania. Una ricercatrice israeliana racconta come ormai gli atenei siano al servizio dell’occupazione
Da decenni, le università israeliane sono celebrate in Occidente come straordinariamente libere. Le istituzioni accademiche europee e nordamericane mantengono collaborazioni di ricerca e corsi di laurea congiunti con le università israeliane che spesso sono le uniche partnership di questo genere in Medio Oriente. Dopo aver lanciato una doppia laurea con l’Università di Tel Aviv nel 2020 – l’unico percorso di studi che propone nella regione mediorientale – la Columbia University ha pubblicizzato la controparte israeliana come un’istituzione che «condivide l’incrollabile spirito di apertura e innovazione di Tel Aviv e vanta una vita universitaria contraddistinta da un dinamismo e un pluralismo pari a quelli della metropoli stessa».
Ma la Columbia University non è l’unica a dipingere le università israeliane come bastioni liberali del pluralismo e della democrazia, le uniche degne di collaborazioni accademiche nel contesto mediorientale. Nel 2022 l’ong statunitense Freedom House ha assegnato tre punti su quattro alla libertà accademica israeliana, sostenendo che «le università israeliane sono da tempo centri di dissenso e sono aperte a tutti gli studenti». Nello stesso anno, l’istituto europeo Varieties of Democracy poneva Israele tra il 20 e il 30 per cento dei Paesi con maggiore libertà accademica al mondo. Queste valutazioni rispecchiano l’auto-narrazione dell’accademia israeliana, che si attribuisce un «impegno incrollabile e senza precedenti per l’eccellenza, il multiculturalismo, il pluralismo e la causa della pace».
Boicottaggio e reazione
Questo apparente consenso occidentale, tuttavia, viene messo in discussione dai palestinesi. Nel 2004, un gruppo di accademici e intellettuali ha lanciato la Campagna palestinese per il boicottaggio accademico e culturale di Israele (Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel, Pacbi) invitando gli studiosi di tutto il mondo a dare inizio a un boicottaggio delle istituzioni accademiche israeliane. L’invito a prendere di mira le università israeliane giunge in reazione a decenni di complicità istituzionale nel «regime di oppressione» di Israele contro i palestinesi. Gli enti israeliani di istruzione superiore, sostiene il Pacbi, «svolgono un ruolo chiave nella pianificazione, attuazione e giustificazione delle politiche di occupazione e apartheid di Israele». Per il Pacbi, il boicottaggio accademico non è tanto un mezzo per raggiungere un fine, quanto piuttosto una mossa strategica volta a prendere di mira l’accademia israeliana in quanto «pilastro di questo ordine oppressivo».
Non molto tempo dopo, nel 2005, centosettanta gruppi della società civile palestinese – tra cui sindacati, associazioni per i diritti dei rifugiati, organizzazioni delle donne, comitati popolari di base e reti di ong – si sono riuniti per lanciare il movimento “Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni” (Boycott, Divestment, and Sanctions, Bds). Ispirati dal movimento sudafricano contro l’apartheid, i palestinesi intendono il Bds come un strumento per esercitare pressioni su Israele affinché soddisfi le tre principali rivendicazioni della società civile palestinese, come stabilito dal diritto internazionale e dalle risoluzioni delle Nazioni Unite: primo, porre fine alla colonizzazione delle terre arabe e smantellare l’occupazione militare e il muro; secondo, riconoscere il diritto alla piena uguaglianza dei cittadini palestinesi di Israele; terzo, rispettare e promuovere il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi.
Sono in molti, nella comunità internazionale, ad aver risposto a questo appello. In Nord America, nell’ultimo decennio, alcune associazioni accademiche hanno adottato le risoluzioni del Bds, tra queste l’American Anthropological Association, l’American Studies Association, la Middle East Studies Association e la Native American and Indigenous Studies Association. Lo stesso vale per i sindacati di docenti e ricercatori, tra cui lo Uaw Local 2865 (sindacato degli assistenti didattici dell’Università della California), lo Uaw Local 2110 (associazione dei laureati dell’Università di New York) e l’Unione degli studenti laureati dell’Università di Toronto. In Europa, il sindacato degli insegnanti d’Irlanda, la British Society for Middle Eastern Studies e il sindacato degli studenti del Regno Unito, tra gli altri, hanno votato in favore del boicottaggio, che, in generale, sta prendendo piede in tutto il mondo sostenuto da ampie coalizioni e approvato da votazioni su risoluzioni lungamente dibattute.
Il contraccolpo a questo crescente movimento è stato molto violento. Il governo israeliano e le organizzazioni sioniste internazionali hanno fatto ricorso a cause giudiziarie, attività di lobbying, iniziative legislative e quelle che gli attivisti e le organizzazioni per i diritti civili chiamano «campagne di intimidazione e diffamazione» al fine di intercettare, demonizzare o persino criminalizzare il movimento ovunque esso acquisisca slancio. Il dibattito sul boicottaggio accademico ha turbato le università d’Europa, Nord America, Australia e Sudafrica assurgendo a una posizione centrale nelle discussioni sulla razza, sulla giustizia e sul significato della libertà accademica nell’istruzione superiore.
Con rare eccezioni, gli accademici israeliani hanno risposto alla campagna del Pacbi con una netta opposizione e spesso indignazione. Docenti riconducibili all’intero spettro politico israeliano hanno organizzato contro-campagne ben coordinate a qualsiasi iniziativa a sostegno del boicottaggio, spesso forti di finanziamenti e argomentazioni forniti dallo stesso stato israeliano. Questi studiosi, che si fanno portatori delle posizioni dello Stato israeliano nel dibattito accademico internazionale, convergono in linea di massima su un simile ritornello: ammesso che vi siano ingiustizie ai danni dei palestinesi, noi non vi abbiamo nulla a che fare.
Domande fondamentali
Questo libro prende le mosse dalla domanda posta a tal riguardo dalla società civile palestinese, una domanda che il mondo accademico israeliano ha cercato di tacitare: le università israeliane sono complici della violazione dei diritti dei palestinesi?
Il libro cerca di rispondere a questa domanda rivelando come le università israeliane siano indissolubilmente legate ai sistemi di oppressione israeliani. Lo fa attingendo alle approfondite ricerche condotte da studiosi palestinesi e organizzazioni della società civile, nonché sottoponendo al dibattito internazionale una valutazione dei dati sulla complicità delle università israeliane, finora in larga parte confinati al dibattito interno ebraico-israeliano.
La mia condizione di cittadina bianca ebreo-israeliana mi ha permesso di accedere agli archivi e alle biblioteche statali e militari israeliane, consentendomi di visionare documenti politici ufficiali, appunti di organi statali e militari, rapporti di ricerca finanziati dal governo, giornali, libri di editori accademici israeliani e tesi di laurea e dottorato inedite approvate dalle stesse università israeliane. Questo ricco tesoro di documenti dimostra, con dovizia di particolari, i molteplici legami delle università israeliane con lo Stato israeliano, compresi i suoi apparati di violenza. Esso offre abbondanti informazioni sulle teorie, le competenze, le infrastrutture e le tecnologie sviluppate in seno alle università israeliane, o attraverso di esse, a sostegno dei progetti territoriali, demografici e militari israeliani. Tali archivi, tuttavia, sono quasi esclusivamente in ebraico e rimangono per lo più inaccessibili al di fuori di Israele. Questo libro si propone dunque di tradurre, sintetizzare e analizzare criticamente questi dati e ricerche per renderli accessibili alla comunità accademica internazionale nel suo complesso.
Questo libro tiene in considerazione anche la produzione accademica di approccio critico, tanto palestinese quanto ebraico-israeliana, sul sistema di istruzione superiore israeliano. Da decenni, gli studiosi palestinesi prendono in esame le università israeliane studiando e analizzando i limiti imposti alla produzione di conoscenza, all’insegnamento e all’espressione all’interno dei campus, nonché le violazioni israeliane del diritto all’istruzione di milioni di palestinesi che vivono sotto occupazione militare. Questo lavoro è stato arricchito da diversi studiosi ebrei-israeliani che hanno esaminato criticamente le università progettate a proprio vantaggio, così come i meccanismi con cui sia il pensiero anticoloniale palestinese che quello ebraico sono stati esclusi dagli spazi accademici. Questo studio esaustivo dell’università israeliana, si basa su questo ricco corpus documentale per dimostrare la complicità delle istituzioni di istruzione superiore israeliane nei progetti israeliani di colonialismo di insediamento e apartheid.
I diversi capitoli di questo libro documentano come le università israeliane sostengano attivamente il colonialismo di insediamento, l’occupazione militare e l’apartheid, nonché la loro complicità nella costante violazione dei diritti dei palestinesi riconosciuti loro dal diritto internazionale. È alla luce della collaborazione di queste università con lo Stato israeliano che la società civile palestinese, compresa la Federazione palestinese dei sindacati dei professori e dei dipendenti universitari, chiede alla comunità internazionale di attuare il boicottaggio accademico.
Gli accademici israeliani reagiscono spesso con rabbia all’invito del movimento Bds a prendersi le proprie responsabilità, respingono gli appelli rivolti loro da studiosi e leader della società civile palestinese e rifuggono sistematicamente domande che l’accademia israeliana dovrebbe invece porsi: come ricostruire le università israeliane in modo che si contrappongano al colonialismo di insediamento e dell’apartheid, piuttosto che mettervisi al servizio?
Si tratta di domande indubbiamente impegnative da affrontare, ma non può essere altrimenti quando si è chiamati a fare i conti con le responsabilità per atti di violenza. Del resto, come sostengono Eve Tuck e K. Wang Yang, «la decolonizzazione non è una metafora». La decolonizzazione delle università è destabilizzante, ed è giusto che sia così.Come dimostrano gli studi sull’istruzione, gli accademici non possono dichiararsi «innocenti rispetto al potere» né estranei alle condizioni che costituiscono le loro istituzioni. Sono coinvolti nel perpetuare la colonialità delle loro università e non possono semplicemente sottrarsi a questa complicità.
Gli studiosi israeliani, dunque, sono gravati da una responsabilità individuale strutturale. Ciò nonostante, l’appello palestinese al boicottaggio è mirato solo alle istituzioni. Non a caso, il Bds ha esteso un «chiaro invito» agli accademici israeliani coscienziosi a partecipare attivamente alla lotta per la liberazione palestinese.
Nel solco dell’African National Congress in Sudafrica e di altri movimenti indigeni in tutto il mondo, i palestinesi ritengono che le università israeliane siano responsabili del sostegno al violento regime di insediamento che li governa, li soggioga e li priva dei propri beni. In Sudafrica, docenti e studenti bianchi ascoltarono l’appello dell’Anc, a cui fece eco la comunità internazionale, e intimarono alle proprie università di troncare i legami con il regime di apartheid e intraprendere passi significativi verso la decolonizzazione. I palestinesi chiedono agli studiosi di tutto il mondo di indurre gli accademici israeliani a fare lo stesso.
* Estratto del libro “Torri d’avorio e d’Acciaio” di Maya Wind (Alegre, 2024). Traduzione di M. Napolitano, A. Rizzi