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Esclusivo TPI – “Noi, figli illegittimi dell’Onu”: la storia dei bambini nati dagli abusi sessuali dei caschi blu

Immagine di copertina
Credit: Roberto Schmidt - AFP

I bambini nati dallo sfruttamento sessuale dei caschi blu delle Nazioni Unite in Repubblica democratica del Congo raccontano per la prima volta il dolore dell’abbandono

«Mio padre ha lasciato mia madre quando era incinta. Lei mi ha partorito quando lui ormai se ne era andato. La gente mi chiama “figlia di puttana”. Mi tormentano e mi affliggono. Dicono che mi manderanno via perché sono una straniera. Soffro molto». Queste parole sono di Emma (tutti i nomi che compaiono nel servizio sono di fantasia per proteggere l’anonimato degli interessati, N.d.R.), una ragazzina di 13 anni di Beni, città nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo (Rdc), quasi al confine con l’Uganda. Sua madre Grace frequentava ancora la scuola quando ha conosciuto un soldato uruguayano che lavorava nel suo Paese come peace-keeper delle Nazioni Unite e si è legata a lui.

Quando è rimasta incinta, Javier le ha promesso il suo sostegno, le ha detto di non preoccuparsi: Grace ha avuto l’impressione che si sarebbero sposati e avrebbero messo su famiglia. Invece, non più tardi di alcune settimane dopo, Javier è tornato in Uruguay e di lui non si è saputo più nulla. Impossibilitata a coprire le spese della gravidanza e del parto, Grace è stata gravemente danneggiata dalla sua partenza. Per garantire a Emma cibo, vestiti e un tetto, è stata obbligata ad avere rapporti sessuali con i peace-keeper della vicina base dell’Onu in cambio di piccole somme di denaro o di pane, latte e sapone. Non ha ricevuto alcuna forma di aiuto dal padre della bambina o dal suo esercito, e non è in grado di far fronte alle esigenze a lungo termine della figlia, compresa la sua istruzione.

Malgrado il dolore provocatole dall’abbandono, Emma dice che non c’è altro che desidera di più al mondo, solo che suo padre ritorni e migliori le sue condizioni di vita: «Mi ferisce vedere gli agenti dell’Onu passare da queste parti, perché gli altri bambini hanno i loro papà, ma io no. Mi piacerebbe dire a mio padre di pensare a me, ovunque si trova. Dovrebbe sapere che non ho una famiglia. Se mia mamma dovesse morire, chi penserebbe a me?». La storia di Emma è tutt’altro che unica – sia secondo la nostra ricerca sia secondo i rapporti interni dell’Onu. In ogni caso, questa è la prima volta che i figli dei peace-keeper dell’Onu hanno parlato direttamente dell’impatto dell’abbandono paterno sulle loro vite e sulle loro famiglie. I loro racconti confermano le interviste fatte in precedenza alle madri dei figli dei peace-keeper a Haiti. In entrambi i Paesi, il personale delle Nazioni Unite ha lasciato sole donne e giovani ragazze incinte ad allevare i loro figli in condizioni deplorevoli, senza che la maggior parte di loro ricevesse alcun aiuto economico.

Quello che abbiamo appurato sulla Rdc si basa su 2.858 interviste con membri della comunità congolese e una sessantina di interviste approfondite con le vittime di comportamenti sessuali scorretti che hanno portato al concepimento dei figli dei peace-keeper, e infine su 35 interviste a bambini nati in seguito a episodi di questo tipo. La ricerca risale al 2018, coinvolge il personale delle Nazioni Unite di 12 Paesi, perlopiù provenienti da Tanzania e Sudafrica. Le madri hanno dichiarato che i padri spariti appartenevano a tutti i ranghi, erano soldati, ufficiali, piloti, autisti, cuochi, dottori e fotografi. Secondo le nostre ricerche, la ragazza più giovane messa incinta da un peace-keeper dell’Onu aveva appena dieci anni. Quando ha messo al mondo il figlio, almeno una madre su due non aveva ancora compiuto 18 anni. In questa intervista una giovane madre di 16 anni ricorda di essere stata venduta dalla sua stessa famiglia e di essere rimasta incinta a dieci anni: «Ero molto piccola, avevo dieci anni appena. Soltanto dopo mi sono resa conto che mia zia mi aveva venduta. Gli uomini compravano birra che condividevano al pub con me e quando ero ubriaca approfittavano di me sessualmente, contro la mia volontà. Ogni mattina mia zia mi dava latte, pane, cibo e acqua per riprendermi di tutta l’energia perduta». (Madre, 16 anni)

“Capitale degli stupri”

Afflitta da livelli abnormi di povertà estrema, un gran numero di sfollati e mancanza di un sistema giudiziario efficiente, la Rdc ha il più alto numero di denunce nei confronti dei peace-keeper dell’Onu per sfruttamento e abusi sessuali rispetto a qualsiasi altro Paese al mondo (un terzo dei quali perpetrati dall’inizio del nuovo secolo). Nonostante ciò, finora non è stata condotta nessuna ricerca sistematica sui casi di paternità collegati a Monusco (nome dell’attuale missione dell’Onu nella Rdc, che è subentrata alle precedenti missioni nel 2010). Nelle ultime settimane, ci sono state numerose manifestazioni violente contro le forze di peace-keeping nella Rdc orientale, e i dimostranti hanno chiesto all’Onu di ritirarsi dalla regione. In uno di questi tumulti, sembra che siano rimaste uccise una decina di persone.

La violenza sessuale è diventata una pratica usuale di questa regione in conflitto. Le descrizioni che definiscono la Rdc la “capitale mondiale degli stupri” e “il posto peggiore al mondo nel quale essere una donna” riflettono in che modo la violenza legata ai conflitti abbia reso prassi usuali gli stupri e lo sfruttamento sessuale da parte di civili, lavoratori delle associazioni umanitarie e peace-keepers delle Nazioni Unite. Dalle nostre interviste risulta che la maggioranza delle donne e delle ragazze della Rdc che hanno avuto rapporti sessuali – per scelta o perché costrette – con i peace-keepers vivevano in condizioni di povertà estrema. Abbiamo ascoltato bambine e giovani donne raccontare di essere state violentate da uno o più peace-keeper mentre li supplicavano per ottenere aiuti umanitari. Una giovane intervistata ha detto di aver subito una violenza di gruppo da agenti delle forze di peace-keeping delle Nazioni Unite all’età di 13 anni, per poi essere stigmatizzata pesantemente per non essere in grado di individuare il padre di suo figlio: «La gente ha iniziato a chiedersi come fosse possibile che una ragazzina fosse rimasta incinta. Mi ridevano dietro, dicevano: ‘Guarda, è stata violentata, ha un figlio bianco e non smettevano di denigrarmi. Mi sono sentita oltraggiata, mi hanno ferito davvero nel profondo». (Madre, 25 anni)

Se da un lato alle missioni di peace-keeping si riconosce un ruolo cruciale nella protezione dei diritti umani durante i conflitti, dall’altro il rischio che i peace-keeper sfruttino o abusino sessualmente in vario modo proprio coloro che sono maggiormente bisognosi di protezione induce a mettere in discussione la legittimità e la moralità delle missioni stesse. In questo momento in tutto il mondo sono in servizio oltre 97mila peace-keeper provenienti da 120 Paesi diversi in dodici operazioni di mantenimento della pace. Malgrado sia dovere di tutto il personale facente parte dell’Onu proteggere e “non nuocere” a nessuno, in tutte le missioni sono stati riferiti episodi di sfruttamento sessuale perpetrati contro la popolazione civile locale, perlopiù giovani donne. Al 4 agosto 2022 nei database pubblici riguardanti le denunce di condotta impropria nel corso delle missioni dell’Onu erano inseriti 426 casi di condotta sessuale impropria che coinvolgono peace-keeper che hanno messo alla luce dei bambini a partire dal 2007 in poi. Soltanto 44 di queste accuse sono state documentate, mentre la stragrande maggioranza delle denunce, ben 302, resta “in sospeso”.

Dal nostro lavoro a Haiti e in Rdc risulta che i cosiddetti “Onu baby” sono stati concepiti con una grande varietà di relazioni sessuali, dallo stupro e dal precario “sesso per la sopravvivenza” (prestazioni sessuali in cambio di cibo e protezione) a relazioni regolari e a più lungo termine, così che le linee di demarcazione tra sopraffazione, consenso e altre forme più o meno sfumate di sfruttamento sono quanto mai imprecise. La maggior parte delle madri ha descritto l’ambito del concepimento dei loro figli come “transazionale”, incentrato quindi sullo scambio di cibo, denaro, abbigliamento e altri beni in cambio di sesso. «Vivevo miseramente prima che lui iniziasse a inviarmi denaro e a risolvere i miei problemi. Mi ha messo nella condizione di innamorarmene. Non mi ha costretta o forzata. Ha promesso di sposarmi e di versare la dote alla mia famiglia. Ha confermato che mi avrebbe portata nel suo Paese e avrebbe voluto avere molti figli da me. Io gli ho creduto: sembrava sincero. Non mi pareva che stesse mentendo. Non avevo elementi per non credergli». (Madre, 23 anni)

Se la questione della pessima condotta sessuale del contingente dell’Onu ha attirato una significativa attenzione accademica e pubblica, minore attenzione è stata data ai bimbi nati di conseguenza. Per il nostro progetto di ricerca in Rdc abbiamo raccolto un’ampia documentazione di storie di membri di ogni età della comunità congolese relative alle loro interazioni con i peace-keeper. Ai partecipanti non è stato chiesto in particolare di riferire di sfruttamento e abuso sessuale, ma di condividere qualsiasi esperienza volevano. Quando si è svolta l’intervista, nessuno dei bambini figli di peace-keeper era entrato in contatto con il padre, e alcuni non ne conoscevano neppure il nome o il luogo di residenza. Perlopiù ai bambini è stato detto che i padri erano già partiti al momento della gravidanza o della loro nascita, ciononostante alcuni erano a conoscenza delle circostanze del loro concepimento o del loro abbandono. «Da quando sono nato non ho mai avuto l’occasione di sapere niente di lui tranne il fatto che ho un padre. Non ho mai sentito la sua voce, neppure una volta». (Bambino, 13 anni). Tutti hanno espresso insoddisfazione per la mancanza di un aiuto economico paterno, a dimostrazione che anche i più giovani che hanno partecipato alla ricerca ritengono ingiusto il loro scarso accesso alle risorse e direttamente collegato all’assenza del padre: «Ricordo mia madre, ma non so niente di mio padre. Per questo motivo ho sempre fame. Se lui vivesse con me, io non sarei affamato». (Bambino, 10 anni)

Più apprezzabile ancora è la sensazione di uno scopo o di un obiettivo mancato nella vita. Non conoscere le loro origini e la storia di famiglia ha lasciato un vuoto per ciò che concerne il valore di sé e la propria coscienza sociale: «Non vado mai a scuola. Non ho nessuno che mi dia da mangiare e anche quando riesco a ottenerne un po’, inizio a pensare a mia madre che vive all’estero e a mio padre che non ho mai visto. Mi sento insignificante, senza un nucleo familiare dove possa vivere con i miei genitori. Quando penso alla povertà estrema in cui mi trovo, mi sento proprio disperato». (Bambino, 13 anni.)

Alcune reti di gruppi di madri spesso forniscono loro soltanto cure e attenzione limitata a causa del loro concepimento illegittimo e dello stigma sociale correlato. La privazione di rapporti parentali e di beni materiali porta alcuni a considerarsi orfani: «Mia madre mi ha partorito, poi se ne è andata e mi ha abbandonato quando avevo solo due mesi. Mi ha lasciato a casa dei nonni. Quando loro la chiamano per chiederle soldi, spesso lei non risponde nemmeno a telefono. Penso che ormai non mi consideri nemmeno più sua figlia. Ha abbondato me e i miei due fratelli». (Bambina, 14 anni.)

Nel 2019-2020, abbiamo pubblicato la prima ricerca empirica che affrontava lo sfruttamento sessuale e le gravidanze collegate agli stupri a Haiti.  Nella nostra ricerca successive sulla Rdc, abbiamo scoperto che 1182 (il 42 per cento) di tutti gli intervistati erano bambini messi al mondo da peace-keeper, rispetto al 10 per cento dei dati raccolti a Haiti. Questo lascia intendere che i casi di paternità potrebbero essere molto più comuni nella Rdc.                              

Il desiderio di riunirsi

Quando hanno chiesto loro di disegnare la loro famiglia, la maggior parte dei figli di peace-keeper ha disegnato una famiglia nucleare con una struttura che non rispecchia quella della loro attuale famiglia. Parecchi bambini sono stati espliciti: hanno disegnato il desiderio di riunirsi ai loro padri. «Il disegno significa che voglio che a casa mia ci siano padre e madre». (Bambino, 7 anni). Tra chi ha preso parte alla ricerca, e ha età diverse, si è discusso della possibilità di andare alla ricerca dei padri per rendere una realtà la famiglia da loro immaginata. Quasi tutti si aspettano che riconciliandosi con i padri finirebbero con l’avere contributi economici: «Voglio che venga a salvarmi dalla povertà. Gli mostrerei che non ho vestiti, non ho cibo, non ho sapone. Gli chiederei di darmi dei soldi per andare a scuola. Con lui qui sarei orgoglioso di dire a tutti che ho un padre. Gli altri bambini che vivono con entrambi i genitori devono vivere bene, penso». (Bambino, 13 anni.)

Le identità dei figli dei peace-keeper di solito sono note a tutti, e anche gli intervistati più giovani avvertono sulla loro pelle il giudizio delle loro comunità a causa delle circostanze del loro concepimento. Lo stigma si manifesta in vari modi, dalle semplici prese in giro e a gesti di bullismo a vera e propria discriminazione, maltrattamenti e disinteresse: «Alcune persone dicono che sono diversa perché mio padre se ne è andato quando ero appena nata. Alcuni si stupiscono che io sia ancora viva. Quando sento qualcuno spettegolare di me e di mio padre – un padre che non ho mai visto – provo un dolore immenso e scoppio a piangere subito». (Bambina, 14 anni.)

Questi commenti avvalorano la rappresentazione dei figli dei peace-keeper come “emarginati” dalle loro comunità. Concepiti da stranieri, questi bambini sono stigmatizzati per il loro aspetto fisico diverso e per la loro ascendenza interetnica. Riferiscono di essere umiliati e ridicolizzati perché non sono congolesi, sono “bianchi” o “stranieri” o, ancora, emarginati per la loro ascendenza etnica. Alcuni degli insulti più ricorrenti di cui sono fatti bersaglio i figli dei peace-keeper sono ‘figli di puttana’, “bastardi” o “illegittimi”. «Mio figlio è discriminato ovunque vada. Lo insultano, lo chiamano “figlio di puttana”. Dicono che non merita di vivere». (Madre, 20 anni)

Ostacoli alla giustizia

Il periodo standard di servizio per un peace-keeper dell’Onu va da sei a nove mesi, rendendo quindi improbabile che uno di loro si trovi nello Stato ospite nel momento in cui nasce suo figlio.

Vincolato da accordi tra l’organizzazione e gli Stati membri, il ruolo dell’Onu nel far valere le dichiarazioni di paternità si limita a coordinarle e facilitarle. Invece di offrire un risarcimento tramite l’Onu, i protocolli di assistenza girano la responsabilità sui colpevoli e sui loro Paesi, dando così importanza alla loro responsabilità individuale. In ogni caso, gli Stati membri sono spesso poco disposti o incapaci di collaborare, e molte cause restano irrisolte e inevase. Se nel 2021 nei tribunali di Haiti è stata raggiunta una decisione legale che segna un vero spartiacque – ordina infatti a un peace-keeper uruguayano di versare gli alimenti a un bambino che ha concepito e abbandonato nel 2011 –, deve ancora vedere la luce (da quello che mi risulta) un chiaro meccanismo che faccia applicare questa stessa decisione in tutto il sistema legale nazionale dello Stato da cui è originario un peace-keeper.

La politica dell’Onu della tolleranza zero vieta quasi tutti i tipi di rapporti sessuali tra i peace-keeper e la popolazione civile, ritenendoli pari a sfruttamento o abuso sessuale a causa delle circostanze nelle quali si verificano (conflitti, povertà, popolazione sfollata). Eppure, i nostri dati dimostrano che questo divieto di facciata sulle relazioni sessuali è inefficace e che per le vittime non sono accessibili e validi percorsi per ottenere giustizia. Delle 26 madri che abbiamo intervistato e che avevano contattato le autorità dell’Onu delle forze di peace-keeping in Rdc per denunciare i casi di paternità, la maggioranza ha detto che la loro rimostranza è stata ignorata o respinta. Mentre un quinto di esse ha descritto una indagine iniziale in corso o una causa penale ai primi passi, nessuna ha ricevuto un risarcimento legale. «Sono andata a Monusco quando il bambino aveva quattro anni e ho chiesto che mi aiutassero a entrare in contatto con il padre perché mantenerlo da sola era un peso, le spese ricadevano soltanto su di me. Mi hanno detto di tornare dopo un mese e che mi avrebbero dato del cibo. Mi hanno consegnato riso, fagioli, olio da cucina e il mese seguente hanno fatto altrettanto.

Poi, il terzo anno, mi hanno cacciata e mi hanno detto di rivolgermi altrove. Ho capito che per me non ci sarebbero state altre forme di aiuto e ho deciso di restare a casa». (Madre, 28 anni.) Le madri che hanno riferito l’inizio di un’indagine spesso hanno parlato di uno scarso monitoraggio della situazione e di una cattiva gestione dei loro casi, di ritardi considerevoli e di mancato seguito a quanto promesso. «I funzionari di Monusco non mi hanno risposto, non hanno fatto niente, come se tacitamente avallassero le azioni di quell’uomo». (Madre, età ignota.) Nei casi in cui si sono trovate prove affidabili a supporto delle accuse, il rimpatrio dei peace-keeper coinvolti ha interferito con le chance delle partecipanti alla ricerca di essere aiutate, perché il presunto colpevole è stato allontanato dalla giurisdizione congolese e quindi dalla possibilità di essere perseguito dallo Stato ospite.

Sia la nostra ricerca sia i rapporti interni dell’Onu dimostrano che il gruppo di bambini concepiti e abbandonati dai peace-keeper in Rdc è significativo e continuerà ad aumentare. L’Onu potrebbe e dovrebbe assumere un ruolo importante nel facilitare le comunicazioni con i padri e nell’istruire i figli dei peace-keeper in relazione ai loro diritti. Ricerche accademiche hanno messo in luce i vantaggi di test obbligatori del Dna per tutto il personale delle missioni di pace prima della partenza, così da disporre di prove certe nei casi di stupro o nelle denunce in futuro di paternità. Fino a questo momento, tuttavia, soltanto uno Stato membro, il Sudafrica, ha iniziato a raccogliere campioni di Dna dalle sue truppe prima della partenza.

Alla fine del 2021 aveva inviato in Rdc un team per raccogliere campioni dalle madri e dai bambini per facilitare la risoluzione dei casi pendenti. Anche quando i test risultano positivi, tuttavia, ottenere il riconoscimento legale dell’identità del padre e arrivare a un accordo per il mantenimento del figlio è tutt’altro che facile e lineare. Negli ultimi anni l’Onu, tuttavia, ha preso decisioni importanti per aiutare meglio le madri e i bambini, tra cui la creazione dell’Office of the Victims’ Rights Advocate e il Trust Fund for Victims, che si prefiggono di fornire servizi specialistici alle vittime, per esempio supporto per l’istruzione dei bambini nati in seguito a casi di sfruttamento o abuso sessuale. Pur essendo questi progressi graditi in procinto di avere qualche effetto, l’Onu ammette sostanziali divari rispetto ai risarcimenti legali.

La risposta dell’Onu

L’Onu ha ammesso che «malgrado evidenti passi avanti nella risposta delle Nazioni Unite agli episodi di sfruttamento e abuso sessuale», le accuse che riguardano il personale dell’Onu continuano a emergere, anche nelle operazioni di pace. Ha detto che tra questi casi vi sono alcune accuse storiche su cui il personale in loco sta lavorando per fare chiarezza. Un portavoce ha detto che è preoccupante che questi casi continuino a presentarsi, ma ha aggiunto che «negli ultimi cinque anni abbiamo preso provvedimenti per evitare questi errori, abbiamo svolto indagini sui presunti colpevoli compresi i contingenti militari, e li abbiamo costretti a rispondere del loro operato rimpatriandoli. Il personale è stato separato dall’organizzazione, e nessuno oggetto di un’indagine circonstanziata per cattiva condotta sessuale può essere assunto di nuovo e inserito nel sistema». L’organizzazione ha aggiunto anche che «se l’Onu non risarcisce le vittime economicamente, alcuni progetti finanziati dal Trust Fund in Support of Victims of Sexual Exploitation and Abuse hanno permesso loro di affinare le loro competenze così da potersi impegnare in attività in grado di generare un reddito e di ricostruire le loro vite… Sappiamo che è indispensabile fare ancora molto e continueremo a moltiplicare i nostri sforzi in questa direzione».

Susan Bartels e Sabine Lee hanno indagato insieme su questa ricerca e sono state insignite del Social Sciences and Humanities Research Council of Canada grant (# 435-2017-1289) che l’ha istituito. Kirstin Wagner ha ricevuto finanziamenti da una borsa di studio dell’University of Birmingham Global Challenges.

Traduzione di Anna Bissanti © 2022, The Conversation 

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