La Silicon Valley trasloca a Washington: ecco perché le Big Tech si sono convertite a Trump

Zuckerberg ripudia fact-checking e politiche di inclusione e si circonda di manager sovranisti. Bezos vieta al Washington Post di appoggiare i dem e ora flirta col presidente. Pure Google vuole fare pace col tycoon. E intanto la “PayPal Mafia” mette le mani sul deep state
Nel 2023 il colosso della birra ultra-americana Bud Light ha dovuto fronteggiare una campagna di boicottaggio, partita dall’ala più conservatrice del Paese, per aver scelto come testimonial l’influencer Dylan Mulvaney, attivista transgender. I contestatori, tra cui il governatore repubblicano della Florida Ron DeSantis e il cantante Kid Rock, hanno accusato l’azienda di essersi inchinata all’ideologia del “politicamente corretto”.
Per evitare di finire travolti dalle proteste e riconquistare i clienti più destrorsi, i manager di Bud Light hanno chiesto aiuto a un uomo non sospettabile di devianze liberal: Dana White, presidente e amministratore delegato dell’Ultimate Fighting Championship, la principale federazione mondiale di arti marziali miste (Mma). La birra è così diventata sponsor ufficiale di questo ruvido sport a metà strada tra pugilato, karate e lotta libera.
Lo stesso White – volto popolare negli Stati Uniti (ha 10 milioni di follower su Instagram) – è stato arruolato per uno spot tv della bionda a stelle e strisce. «Se ti consideri un patriota, dovresti bere galloni di Bud Light!», ha poi ammiccato durante un’intervista con il popolare giornalista televisivo Tucker Carlson (pure lui repubblicano convinto).
Social & Arti marziali miste
Lo scorso 6 gennaio Dana White è entrato nel consiglio d’amministrazione di Meta, il gruppo tecnologico che controlla, tra le altre, Facebook, Instagram e Whatsapp: nomina alquanto sorprendente, per un 55enne senza laurea che nella sua vita ha sempre lavorato come impresario sportivo, frequentando più palestre che scrivanie.
Con ogni probabilità, Mark Zuckerberg, il grande capo di Meta, lo ha scelto con la stessa finalità per cui lo avevano cercato quelli di Bud Light: usarlo come grimaldello politico. White, infatti, è amico intimo di Donald Trump. E Zuckerberg ha deciso che non vuole più essere nemico del presidente degli Stati Uniti.
White e il tycoon si conoscono da quasi un quarto di secolo, almeno da quando, nel 2001, Trump prestò all’Ufc il suo casinò Taj Mahal ad Atlantic City per due eventi. Il boss delle arti marziali miste ha attivamente supportato The Donald in tutte e tre le elezioni presidenziali a cui ha partecipato, e nel 2018 ha persino commissionato un documentario agiografico su di lui dal titolo “Combatant in Chief”. L’intraprendente manager sportivo era seduto proprio di fianco a Trump ed Elon Musk nella lunga cena della notte elettorale culminata col trionfo repubblicano.
Nel 2023 stesso White fece da intermediario per il titanico match di Mma tra Zuckeberg e Musk che avrebbe potuto tenersi al Colosseo ma che poi non ha mai avuto luogo.
Adesso il padrone di Meta, appassionatosi alle arti marziali miste durante la pandemia di Covid-19, vede in lui l’uomo giusto per avvicinare il presidente e mettere fine alle reciproche ostilità degli ultimi anni.
Al tempo del primo mandato di Trump alla Casa Bianca, Zuckerberg si era schierato all’opposizione, ad esempio dicendosi «preoccupato» per le politiche trumpiane sull’immigrazione. Nel 2021, dopo la rivolta di Capitol Hill, Facebook (così come Twtter) bloccò l’account del tycoon accusandolo di «minare la pacifica e legittima transizione del potere» con Joe Biden. D’altra parte, ancora lo scorso anno Trump ha minacciato di sbattere il pioniere dei social per «il resto della sua vita in prigione» contestandogli di aver complottato contro di lui in favore di Biden.
Ma adesso tutto è cambiato. Anche il look dell’ormai quarantenne Zuckerberg, irriconoscibile, passato dalla divisa d’ordinanza da nerd in jeans e ciabatte a indossare capi firmati, con capelli più lunghi, collanina d’oro al collo e fisico palestrato (il New York Times l’ha chiamata Meta-morphosis)
In seguito all’attentato a Trump dello scorso luglio in Pennsylvania, Zuck – come si fa chiamare su Instagram – ha avuto parole di ammirazione per la reazione «tosta» del tycoon. Poche settimane dopo, l’imprenditore – patrimonio stimato: 211 miliardi di dollari – ha inviato una lettera alla Commissione Giustizia della Camera, controllata dai repubblicani, confessando di aver ceduto negli anni precedenti a pressioni provenienti dall’Amministrazione Biden per censurare sui social notizie sgradite ai dem su Hunter Biden, figlio del presidente, e sui vaccini anti-Covid: un assist non da poco in favore di Trump nel pieno della campagna per le presidenziali.
Appena è diventata ufficiale la vittoria alle elezioni di The Donald, Zuckerberg si è pubblicamente congratulato con lui. E il 26 novembre scorso ha accettato l’invito a cena del presidente eletto nella sua residenza di Mar-a-Lago, in Florida.
La trasformazione trumpista si è definitivamente compiuta quando, all’inizio di quest’anno, il fondatore di Facebook ha annunciato che la piattaforma avrebbe mandato in pensione i team di fact checking e ripudiato le politiche sull’inclusività adottate finora, assestando una mazzata alla cultura “woke” tanto cara ai democratici.
Zuckerberg, inoltre, ha congedato il responsabile della politica globale di Meta, Nick Clegg, ex vicepremier britannico centrista, sostituendolo con il repubblicano Joel Kaplan, che il mese scorso si è fatto fotografare alla Borsa di New York insieme al neo-vicepresidente Usa J. D. Vance.
Affari spaziali
Ma la folgorazione sulla via di Trump non ha colpito solo il numero uno di Meta. Da qualche mese a questa parte, è pressoché l’intera Silicon Valley ad aver improvvisamente scoperto le virtù dell’«America First».
Oltre a Meta, anche Amazon, Google, Microsoft, Apple e OpenAi hanno donato un milione di dollari ciascuna per la cerimonia d’insediamento del neo-presidente. E, dopo Zuckerberg, tutti, o quasi, gli esponenti di punta delle Big Tech sono stati ricevuti negli ultimi due mesi a Mar-a-Lago.
Il 18 dicembre è stato il turno di Jeff Bezos, l’imperatore di Amazon. «È stata una bella conversazione», ha chiosato su X Elon Musk, presente anche lui al convivio.
I rapporti tra Bezos e Musk non sono mai stati idilliaci: tra sorpassi e controsorpassi, i due si contendono da anni la palma di uomo più ricco del pianeta (attualmente è in vantaggio Musk) e sono concorrenti diretti nel settore aerospaziale, dove operano rispettivamente con le loro creature Blue Origin e SpaceX. Ma da circa un mese a questa parte prevale il fair play, con tanto di scambi di auguri su X per i lanci dei rispettivi razzi.
Musk – che era stato un sostenitore del democratico Barack Obama e che nel 2017 si dimise da consigliere del presidente Trump per protesta contro la decisione di uscire dagli Accordi climatici di Parigi – è stato colui che più di tutti, tra gli imprenditori digitali, ha abbracciato la causa trumpiana, al punto da trovarsi oggi alla guida di un Dipartimento (Efficienza governativa) creato ad hoc per lui, alla guida del quale potrà divertirsi a sforbiciare a suo piacimento il bilancio del Governo federale.
Bezos preferisce restare più defilato, ma anche lui ultimamente ha compiuto palesi passi verso Trump dopo anni di reciproci dispetti.
Nel 2019 Amazon denunciò alla Corte federale dei reclami di essere stata sfavorita dall’allora presidente nell’aggiudicazione di un contratto da 10 miliardi di dollari con il Pentagono. Durante il suo primo mandato alla Casa Bianca, il magnate fu aspramente criticato dal Washington Post, quotidiano di proprietà di Bezos, che arrivò a introdurre sotto la testata del giornale la scritta (tutt’ora presente) «Democracy Dies in Darkness» («La democrazia muore nelle tenebre»), messaggio chiaramente riferito all’insofferenza del Commander in chief per le regole proprie dello Stato di diritto. Trump, da parte sua, ha denunciato il quotidiano per diffamazione in almeno due occasioni.
Ha meravigliato tutti, quindi, lo scorso ottobre, la decisione di Bezos di bloccare la pubblicazione di un articolo di endorsement in favore di Kamala Harris, candidata dei democratici alle presidenziali, rompendo così con una tradizionale cinquantennale di supporto ai dem.
«Gli endorsement presidenziali creano una percezione di parzialità», si è giustificato l’editore in prima persona. La mossa, però, ha provocato un pesante contraccolpo per il quotidiano, che nei giorni successivi ha perso 250mila abbonamenti (il 10% del totale) e diversi giornalisti di punta, dimessisi per protesta.
Da parte sua, Bezos, intervenuto nelle scorse settimane a un evento pubblico, si è dichiarato «ottimista» rispetto al secondo mandato di Trump.
Opportunismo
Ma perché Zuckerberg, Bezos e gli altri miliardari delle Big Tech, dopo anni di insulti reciproci, adesso vogliono fare la pace col presidente?
L’opinione prevalente è che a muoverli sia l’opportunismo. Il New York Times osserva che «il cambio di strategia rispecchia ciò che questi imprenditori hanno imparato durante la prima presidenza di Trump. Credendo che le sue posizioni politiche siano fluide e che le sue azioni siano spesso transazionali, stanno creando relazioni dirette che sperano possano giovare alle loro aziende».
L’autorevole testata newyorkese sottolinea come The Donald in passato si sia mostrato «punitivo» nei confronti di chi considera suo antagonista e ricorda l’eccezione di Tim Cook, amministratore delegato di Apple, che durante il primo mandato presidenziale del magnate fu scaltro nel lusingarlo con telefonate per discutere di questioni economiche: un approccio che ha contribuito a creare un rapporto personale tra i due. «Questa volta – osserva il Nyt – i dirigenti della tecnologia hanno seguito il copione del signor Cook».
L’avvicinamento a Trump, peraltro, sembra essere anche il naturale esito dell’allontanamento dalla sinistra della Silicon Valley, delusa dall’Amministrazione Biden, che nell’ultimo quadriennio ha portato avanti politiche regolatorie restrittive in materia di intelligenza artificiale e criptovalute e ha avviato procedimenti antitrust contro Amazon, Apple, Meta e Google, oltre ad aver alzato le tasse per le classi più abbienti e per le grandi società.
Pochi giorni prima delle ultime presidenziali, Satya Nadella e Brad Smith, rispettivamente amministratore delegato e presidente di Microsoft, hanno co-firmato un editoriale sul blog del gigante informatico insieme a due noti sostenitori di Trump: Marc Andreessen e Ben Horowitz, soci del fondo di venture capital che porta i loro due cognomi e che gestisce un patrimonio da 42 miliardi di dollari. Nell’articolo si evidenziano i rischi di un’eccessiva regolamentazione dell’AI, un argomento del quale Nardella e Smith hanno poi parlato direttamente con il nuovo presidente e con Musk in un incontro avvenuto lo scorso 16 gennaio.
Qui il discorso si fa più complesso, per almeno due motivi. Il primo è che Musk – il quale pure opera da anni nel campo dell’intelligenza artificiale, prima con OpenAi e oggi con xAi – in più occasioni ha espresso timori per i rischi che porta con sé l’avanzata dell’AI. Il secondo è che il venture capitalist Andreessen si è messo alla testa di un fronte assai critico nei confronti della Silicon Valley, al punto da coniare l’espressione «Little Tech», che lui stesso pone «in contrapposizione alle grandi aziende consolidate del settore Big Tech». Il fronte tecnologico, in altre parole, è ben più disunito di quanto potrebbe apparire a un osservatore lontano.
“Business First”
Nel mirino del trumpiano Andreessen c’è soprattutto Google, accusata di essere diventata un covo di «spie cinesi».
Anche il colosso di Mountain View, tuttavia, è impegnato da mesi nel tentativo di migliorare le proprie relazioni con il padre dello slogan «Make America Great Again». Lo scorso ottobre, ad esempio, l’amministratore delegato Sundar Pichai ha telefonato al candidato repubblicano dicendosi positivamente impressionato dalle sue gesta in campagna elettorale. E lo stesso tycoon ha detto di aver notato che quelli di Google «sono diventati molto più inclini a Trump perché stanno iniziando a capirlo».
Ma nella cerchia del neo-presidente sono numerosi i critici del quasi monopolista dei motori di ricerca. Un altro di loro è Peter Thiel, co-fondatore di PayPal, di cui è stato amministratore delegato fino alla vendita a eBay, avvenuta nel 2002. Dal 2003 Thiel è al timone di Palantir, società impegnata nell’analisi dei big data al servizio della difesa e dell’intelligence, che lavora per Pentagono, Cia e Fbi.
Thiel è anche il principale esponente di quella che è stata definita la «PayPal Mafia», un insieme di co-fondatori ed ex dipendenti di PayPal che hanno poi contribuito a dar vita ad altre aziende tecnologiche, accentrando su di sé un crescente potere non solo economico ma anche politico.
Anche Musk fa parte del giro. E pure David Sacks, scelto ora da Trump come consigliere speciale della Casa Bianca per le criptovalute e l’intelligenza artificiale
Adesso ci ritroviamo dunque Musk a gestire i fondi destinati ai principali enti governativi, tra cui la Nasa di cui è al contempo fornitore e concorrente (con SpaceX), Thiel che fornisce servizi strategici per la sicurezza nazionale, Sachs che sarà l’uomo che sussurra al presidente in materia di bitcoin e AI. Stiamo entrando in una fase nuova, in cui la PayPal Mafia mette direttamente le mani sugli apparati statunitensi. E mentre questa parte della Silicon Valley trasloca a Washington, l’altra – i vari Zuckerberg, Bezos e compagnia – è giunta alla conclusione che Trump è meglio avercelo dalla propria parte, anziché contro. «Business First», altro che democrazia liberale.