Noi picchiati, arrestati e torturati in Egitto durante la marcia verso Gaza
Le testimonianze di Pascal, Jo e Sabry, tre ragazzi che hanno partecipato alla Marcia Globale su Gaza soffocata sul nascere dalle autorità egiziane
Il 13 giugno scorso 32 delegazioni provenienti da tutto il mondo si sono riunite in Egitto per partecipare alla Marcia Globale su Gaza, una mobilitazione civile che ha raccolto al Cairo circa 4mila persone dall’Europa e 3mila da altri Paesi, con l’obiettivo di raggiungere il valico di Rafah – l’unico punto di passaggio tra l’Egitto e la Striscia di Gaza e rompere simbolicamente il blocco israeliano per consentire l’ingresso di aiuti umanitari nella Striscia – da maggio 2024 il passaggio è sotto il controllo dei militari israeliani e da marzo di quest’anno è stato bloccato il transito degli aiuti umanitari. La marcia è stata però soffocata sul nascere dalle autorità egiziane che, in una capitale militarizzata e attraverso un uso imponente di agenti infiltrati, ha intimidito, arrestato, picchiato e deportato la maggior parte dei partecipanti, nel silenzio complice dei media occidentali. TPI ha raccolto le testimonianze di tre ragazzi – Pascal, Jo e Sabry – che hanno partecipato alla Marcia. Queste sono le loro storie:
(Pascal, 32 anni. Italia/Finlandia)
Sono un fotoreporter italo-finlandese e da sempre seguo con passione la lotta del popolo palestinese. Quando ho saputo della Marcia su Gaza, ho capito che dovevo esserci per documentare ciò che sarebbe accaduto. Parto l’11 giugno per il Cairo, dove trovo già una situazione tesa: l’aeroporto è pieno di militari e so di persone già fermate o deportate. Per evitare sospetti cancello i social, nascondo l’attrezzatura e mi fingo fotografo naturalista. Giunto al centro del Cairo, vengo a sapere che le chat delle delegazioni sono state infiltrate e le comunicazioni sono compromesse. Alloggio con altri membri della delegazione finlandese, ma uno di noi viene deportato già il primo giorno. L’atmosfera è inquietante e, dopo aver saputo dell’arresto della delegazione francese, lasciamo di corsa il nostro hotel. La città è sotto pieno controllo militare. Affittiamo un Airbnb e durante la notte ci arrivano le notizie di centinaia di arresti. Gli organizzatori, inizialmente, consigliano di non partire, ma poi ci convocano a Ismailia, 130 km a est del Cairo. Un errore di comunicazione svela la nostra posizione e, al check-point, ci troviamo davanti l’esercito egiziano guidato dal generale Osama Askar: Ismailia è chiusa a chi non ha passaporto egiziano. Restiamo in 2.500 e organizziamo un sit-in, tra attivisti e parlamentari europei. Ma presto la situazione precipita: veniamo circondati, senza possibilità di acquistare cibo o acqua, e infine aggrediti da uomini in borghese armati di mazze. Dopo ore di violenza, restano solo un centinaio di persone. Vengo picchiato da sei militari e trascinato sopra un furgone blindato.
Nel centro di detenzione mi tolgono tutto: soldi, cellulare, fotocamera. Ci chiudono in celle fatiscenti, senz’acqua potabile, disturbati tutta la notte da luci e rumori per impedirci di dormire. Il giorno dopo vengo deportato in Arabia Saudita con un biglietto aereo sotto falso nome. Bloccato in aeroporto, riesco a contattare il consolato e, grazie a un fondo raccolto dagli attivisti, sono riuscito a comprare un biglietto per tornare in Europa. Senza quell’aiuto, mi avrebbero rispedito in prigione in Arabia Saudita o in Egitto. Non so quale delle due sarebbe stata peggio.
(Jo, 29 anni. Francia/Siria)
Ricordo che tutto è iniziato con un peso nel cuore. Le immagini da Gaza, le notizie, l’ingiustizia quotidiana: era impossibile restare fermi. Così, come centinaia di altre persone, ho deciso di partecipare alla Marcia per Gaza. Ma fin dal principio è stato chiaro che non volevano farci arrivare. Hanno frammentato le delegazioni, ci hanno separati in piccoli gruppi, controllati e ci hanno dispersi. Il nuovo punto di ritrovo era Ismailia. Prima di partire abbiamo pregato insieme, poi siamo saliti su taxi diversi, due o tre per volta, per non dare nell’occhio. Ai checkpoint, ci venivano chieste tangenti. Per questo abbiamo comprato casse d’acqua, da distribuire non solo ai partecipanti, ma anche ai poliziotti. Perché eravamo lì per la giustizia, e chiunque, anche chi obbedisce agli ordini, merita un gesto umano. Il giorno è trascorso in relativa calma. Ma al calare del sole, tutto è cambiato. Le luci si sono spente. Uomini in borghese – forse agenti – ci hanno accerchiati. Hanno iniziato a prelevare i più deboli. Nessuno di noi ha reagito con violenza. Eppure, sono arrivate le fruste, le bottiglie rotte, i bastoni avvolti nel cellophane. Ci hanno trascinati via uno a uno, sotto gli occhi impassibili della polizia.
Siamo finiti in carcere. Una cella spoglia, in quindici, sdraiati sul pavimento. Ci hanno lasciato 100 sterline egiziane a testa, poco meno di due euro. Con quei soldi ci hanno portato del pane, qualche cetriolo, un po’ di formaggio e halwa. Abbiamo mangiato in cerchio, in silenzio, condividendo quel poco che avevamo. In quella cella eravamo di ogni provenienza: G.Ras, ebreo ungherese che canta reggae per la Palestina; Pascal, italiano, pestato selvaggiamente; fratelli e sorelle dalla Turchia. Diversi per cultura e origine, ma uniti da una causa comune: la libertà, la dignità, la pace.
Nel cuore del blocco egiziano: il giorno in cui marciare fu un crimine
(Nazeem, 26 anni. Algeria)
Erano le dieci del mattino quando ho aperto gli occhi nella stanza d’albergo, immerso nel frastuono e nella polvere del Cairo. La città, con il suo cielo sempre grigio e le voci incessanti per strada, mi sembrava già stanca, come se respirasse a fatica. Dopo una rapida occhiata ai messaggi, ho scoperto che la nostra prossima tappa era Ismailia. Senza perdere tempo, abbiamo chiamato un taxi. Non sapevamo ancora che quel viaggio ci avrebbe segnato a vita. Il taxi aveva appena imboccato la strada principale quando ci siamo trovati davanti a un checkpoint. I poliziotti ci hanno fermato, chiesto i passaporti… e non ce li hanno più restituiti. Iniziava così la nostra lunga attesa. Sotto un sole feroce, senza ombra né spiegazioni, ci siamo ritrovati in centinaia. Stranieri di ogni parte del mondo, bloccati nel nulla.
All’inizio, nessuno sapeva cosa fare. Alcuni si sono avvicinati ai poliziotti per chiedere spiegazioni, ma hanno ricevuto solo silenzi. Poi qualcuno ha alzato la voce: “Free, free Palestine”. Quella frase è rimbalzata tra la folla, in decine di lingue. E senza rendercene conto, stavamo già marciando, anche se fermi. Ci siamo spostati in una zona verde poco lontana. Eravamo ormai più di mille. Ho iniziato a distribuire bottigliette d’acqua comprate a nostre spese. Parlavo con chiunque: un medico turco, un americano biondo a cui ho raccontato dell’esistenza di una “Kennedy Street” in Algeria – sembrava non crederci. Ridevamo, ci scambiavamo storie, cercavamo riparo nella condivisione. Le urla “Allahu Akbar” si alzavano tra noi, forti ma pacifiche, toccando anche chi non era musulmano.
Poi è arrivato il tramonto. La luce calava, la tensione saliva. Improvvisamente, ci siamo ritrovati circondati da forze speciali. “Andatevene, pacificamente… o sarà con la forza”, ci hanno detto. Ma noi siamo rimasti seduti. Nessuno voleva arrendersi. Nessuno voleva abbandonare quella causa. Ed è allora che sono arrivati. Uomini vestiti in abiti tradizionali, ma armati di bastoni, fruste, bottiglie. Non sembravano poliziotti, ma erano lì per fare il lavoro sporco. Hanno iniziato a trascinarci via, uno a uno. Tre uomini mi hanno afferrato, spinto, gettato in un veicolo. Non sapevamo dove ci stessero portando.
La destinazione era la stazione di polizia di Ismailia. Ci hanno chiuso in una cella: quindici persone ammassate, sul pavimento. C’erano Johan e Sabri, due francesi di origine araba; Abbas, un marocchino coraggioso; Pascal, un finlandese con le costole rotte; Gergely, un ebreo ungherese vegetariano. Con loro sono nate amicizie improvvise, conversazioni infinite. Si parlava di tutto: politica, religione, vita. Anche tra cetrioli salati, formaggio secco e acqua tiepida, riuscivamo a ridere.
Dopo ore – o forse giorni, il tempo lì dentro era sospeso – ci hanno trasferiti in aeroporto. Ventidue ore di attesa, ma anche partite improvvisate a “Lupus”, un compleanno festeggiato con un piatto di couscous, battute sussurrate per non attirare l’attenzione. E poi, il volo. Il ritorno. Il silenzio. Sono tornato in Algeria con mille domande. Ho vissuto qualcosa che non dimenticherò mai. Ho visto la brutalità, ma anche la bellezza della solidarietà. La fratellanza nata tra sconosciuti.
Sono cambiato? Forse sì. Forse no. Forse non del tutto. Ma qualcosa, dentro di me, si è spostato. E anche se non abbiamo mai attraversato il confine con Gaza, so che abbiamo camminato nella direzione giusta.
(Sabry, 26 anni. Francia/Algeria)
Mi chiamo Sabry, ho 26 anni e vivo a Aix-en-Provence. Faccio il corriere. Da anni guardo la sofferenza del popolo palestinese, sentendomi impotente. Quando ho saputo della Marcia per Gaza, ho capito che era il momento di agire. L’obiettivo era chiaro: partire da Il Cairo, arrivare a El-Arish e poi, a piedi, marciare verso Rafah per rompere simbolicamente l’assedio. Una presenza pacifica, ma potente. Con il mio amico Johan abbiamo preso un taxi per raggiungere il punto d’incontro a Ismailia. Sulla strada, però, ci hanno fermato. La polizia ci ha confiscato i passaporti. Aspettavamo, sotto il sole, in silenzio. Con i nostri pochi soldi abbiamo comprato acqua da distribuire: ai manifestanti, ai poliziotti. Eravamo lì per la pace, per la giustizia. Umani, prima di tutto.
Poi è calata la notte. Le luci si sono spente. Uomini mascherati, forse agenti in borghese, sono arrivati. Ci hanno aggrediti. Frustate, bastoni, colpi. Siamo stati caricati su dei furgoni, spinti, umiliati. Ma in quel caos, ho incrociato sguardi solidali. Giovani poliziotti, obbligati a obbedire, ci hanno offerto il loro cibo. “Anche noi sentiamo questa causa,” mi ha detto uno. “Ma se disobbedisco, finisco in prigione.” Siamo stati rinchiusi in una cella in quindici, per terra, senza nulla. Per mangiare dovevamo pagare. Eppure, è lì che ho trovato una famiglia. Uomini da tutto il mondo: ungheresi, turchi, marocchini, finlandesi, francesi. Diversi per lingua, fede, storia. Ma uniti dalla stessa causa. Condividevamo tutto: pane, risate, silenzi, paura. Ricordo la voce di Eymen che recitava il Corano: persino i soldati ascoltavano in silenzio. Non abbiamo raggiunto Rafah. Ma abbiamo resistito. Abbiamo detto “no” all’indifferenza. In quell’inferno, ho visto il volto della vera umanità.
E questa, per me, è stata la vittoria più grande.